Professione: invisibile

Bambini, oggi parliamo di EGOCENTRICITÀ.
In questa precisa accezione: “io scrivo, tu leggi”.

Il XX secolo ha visto la categoria Scrittori sfornare vere e proprie star. Uomini comuni abili nella prosa diventano all’improvviso idoli delle masse, volontariamente (Dan Brown) e involontariamente (Salinger). La professione del romanziere è più che sdoganata da parecchio tempo. La figura dello scrittore alcolizzato che stende i suoi racconti minimalisti di notte a lume di candela perché gli hanno tagliato il gas e di giorno lavora 12 ore in miniera è oramai piuttosto demodé. Oggi gli scrittori sono cool. Sono sexy. Sono telegenici. Sono visibili.

Che cosa fai nella vita?
Scrivo libri.
Wow, sei uno scrittore!

Se scrivi fumetti, invece, il dialogo con l’Uomo Qualsivoglia è il seguente:

Che cosa fai nella vita?
Scrivo fumetti.
Wow, allora disegni benissimo!
Ho detto “scrivo”.
Ah. Le parole nei palloni, quindi.
No, quello è il letterista. Io sono sceneggiatore di fumetti. Invento storie e poi le scrivo e strutturo in modo che dei disegnatori sappiano interpretarle e disegnarle.
Tipo libro illustrato, quindi.
No, ho detto “fumetto”. Dylan Dog, Diabolik…
Diabolik lo leggevo. Fai Diabolik?
Magari. No, faccio altri tipi di fumetti.
Tipo? Cosa disegni?
Non disegno. Sono sceneggiatore.
Scenografo, ho capito.

Non se ne esce. Sono 20 anni che ci provo.
Da 10, da quando cioè ho accostato alla sceneggiatura l’insegnamento della medesima, se mi chiedono “che lavoro fai?” me la cavo con un blando e diretto: Insegno. E se queste entità astratte e inquietanti insistono nel voler scoprire esattamente cosa insegno, rispondo con un generico “scrittura creativa” e poi scappo.

Il problema dello sceneggiatore di fumetti è che il suo è un mestiere invisibile, come mi piace chiamarlo. Disegni e romanzi sono tangibili: puoi accarezzare un disegno, puoi usare un romanzo breve per non far ballare più il tavolo di cucina. Quale che sia l’utilizzo una cosa è certa: chiunque sa cosa è un disegno e sa cosa è un libro.
Ma la sceneggiatura?

La sceneggiatura per fumetto, a differenza di quella cinematografica, parte ulteriormente svantaggiata. Se tutti sanno cos’è un film, pochi sanno davvero cos’è un fumetto. I premi aiutano. Solo il cinema, però. Tutti sanno cos’è un Oscar, ergo l’Oscar alla Sceneggiatura aiuta a capire che, quanto meno, esiste una cosa chiamata “sceneggiatura” nel cinema, che non è la regia e non è un attore. Inoltre, vedendo in tv che sceneggiatore e scenografo sono, di fatto e fino a prova contraria, due persone fisicamente distinte, si risolve anche il problema della confusione dei ruoli.

Prova invece a dire al tuo commercialista che hai vinto un Eisner.

In Italia, poi, la metonimia non aiuta affatto: “fumetto” è letteralmente il balloon, che è solo una parte del nostro media preferito e porta i più a considerare lo “scrittore di fumetti” colui che, appunto, scrive nei balloon. Come dar loro torto? E vai a spiegare che non è il letterista a inventarsi i testi ivi scritti. Un casino.

E se ci aggiungiamo che, da sempre, il termine “fumetto” -e la sua variante più gettonata “fumettone”- è unanimemente riconosciuto come sinonimo di “film di merda” nella vasta gamma di recensioni cinematografiche che vanno dalla chiacchiera da bar al Mereghetti, capite che la vita del fumettista non è affatto facile. Soprattutto quando scrive e/o disegna fumetti di merda.

In Francia va un po’ meglio, grazie all’altisonante e marziale “BANDE DESSINÉE” a definire l’arte sequenziale per il grande pubblico. Ma giusto un po’.

Ora, superato l’ostacolo della comprensione della professione (leggi: accettando il fatto che la “gente che non legge fumetti o li sfoglia soltanto” – cioè il 95% della popolazione mondiale – non saprà MAI esattamente che lavoro fai), arriva l’ostacolo vero: l’invisibilità. Che per alcuni è un superpotere, per altri una condanna.

La sceneggiatura di un fumetto non viene pubblicata. È la scoperta dell’acqua calda, d’accordo, ma quando ho iniziato a sceneggiare il secolo scorso infarcivo di cazzate le descrizioni delle mie vignette. Perché sono divertenti, perché aiutano la lettura, ti fanno entrare nell’atmosfera, mi dicevo. Impossibile resistere. Beh, un disegnatore non ha bisogno di sapere che quando avevi 16 anni hai dato il tuo primo bacio su una spiaggia e da allora il rumore del mare riporta a galla una girandola di emozioni che ti ricordano l’esatto momento in cui hai capito che essere adulti significa anche accettare la perdita, amare è anche soffrire, perché l’amore, il primo, quello vero, finisce con la fine dell’estate, che però è anche l’inizio di qualcosa di nuovo… insomma, è di giorno o di notte quel Campo Lungo sulla spiaggia, santiddio?!

No, lo ripeto, la sceneggiatura non viene pubblicata. La leggi tu, il tuo editor e il tuo disegnatore. E loro devono CAPIRLA, mica incorniciarla.

Tu, con la mano alzata, so già cosa vuoi dirmi: i dialoghi della sceneggiatura sono quelli che poi leggo nel fumetto! Così come li hai scritti vengono pubblicati! Vero. Ma secondo te funziona di più una tavola con sei vignette di primi piani di due personaggi con un balloon a testa in ognuna, oppure due tavole coi medesimi personaggi inquadrati da più angolazioni e con stacchi sull’ambiente mentre si dicono le stesse cose? Qual è il modo più gradevole di leggere quel dialogo? Sei tu, sceneggiatore, a decidere COME raccontare la tua storia. I dialoghi sono solo la punta dell’iceberg. Puoi essere il nuovo Alan Moore, puoi avere delle cose bellissime da far dire ai tuoi personaggi, ma se me li metti tutti a mezzo buzzo frontale con cinque balloon contemporaneamente, devi cambiare mezzo di comunicazione.

Tu, con gli occhiali, lo so cosa stai per dire: hanno pubblicato la sceneggiatura di “Memorie dell’Invisibile” e di “Watchmen”! Ed erano pure belle da leggere! Vero. Ma, prima, diventa il più famoso sceneggiatore italiano o mondiale, poi fatti pubblicare una sceneggiatura così com’è. La leggeranno comunque solo gli addetti ai lavori. Che sono il club più ristretto del pianeta.

Quindi, sceneggiatore di fumetti, accettalo: a differenza di un romanziere, la tua storia non viene letta: viene letta l’interpretazione artistica di un disegnatore che tu ti sei scelto o che persone più sagge di te hanno scelto al posto tuo. Riuscire a raccontare una storia affidandosi al talento di un altro, accettando il filtro della sua sensibilità, che per quanto affine alla tua appartiene comunque a un’altra persona con un altro background e un’altra dote artistica, è difficile. Molto.

La vera professionalità di uno sceneggiatore di fumetti si vede anche, e soprattutto, nella sua capacità di adattarsi alle peculiarità di un disegnatore (se a lui vengono particolarmente bene le ambientazioni vittoriane, perché ti ostini a proporgli storie alla Stranger Things?), nella sua abilità a scegliere le inquadrature migliori per far risaltare lo stile del medesimo e di conseguenza esaltare la narrazione (se il disegnatore è noto per la semplicità e la sintesi del suo tratto così fresco e così dinamico, perché ti ostini a proporgli doppie splash page della foresta Amazzonica?), nella sua lungimiranza, insomma, a cogliere pregi e difetti di entrambi per volgere a proprio favore i primi e camuffare elegantemente i secondi. Prima che sia troppo tardi. Prima che si vada in stampa. Non scrivere di cose che non conosci, non far disegnare Batman alla Satrapi.

Superato anche questo ostacolo, superato il fatto che ciò che scrivete viene reinterpretato da un altro che non siete voi, rimane il problema dell’egocentrismo nella sua forma più pura: accetti il fatto di non essere riconosciuto per strada e che qualcuno creda che il tuo disegnatore abbia fatto tutto da solo il fumetto che tu hai concepito e poi scritto?

Ho sempre fermamente creduto che se il nostro Sclavi avesse avuto un innato talento per la recitazione non sarebbe mai diventato famoso. Uno degli uomini più schivi e umili al mondo è diventato uno dei più grandi sceneggiatori che la nona arte abbia mai conosciuto perché poteva esercitare nella solitudine di casa sua, lontano dal pubblico e dai riflettori. Anche quando i riflettori rischiavano di fondere le sue mura domestiche.

C’è chi invece vuole un riscontro fisico, una prova palpabile della propria professionalità. È comprensibile: scrivi per essere letto, altrimenti non lo fai. Non ha nessun senso scrivere per se stessi. È una balla che si racconta solo chi non riesce a pubblicare manco per la casa editrice del cugino di secondo grado dopo 10 anni di avances. No, non si scrive per se stessi. Qualcuno ti deve leggere. Sono pochi? Chissenfrega. Senza un pubblico, piccolo o grande che sia, le tue storie non prendono vita, sono solo file su un desktop o pezzi di carta riposti in un cassetto.

Lo sceneggiatore di fumetti che non si accontenta delle recensioni e dei dati di vendita della propria opera ma vuole anche il bagno di folla deve mettersi in testa che o si chiama Robert Kirkman o difficilmente lo avrà. Devi solo creare dal nulla una serie a fumetti di successo mondiale che poi diventa una serie tv di successo mondiale e aprire una casa editrice di successo mondiale. Tutto qui.

Gli sceneggiatori di fumetti non sono frontman, non sono guitar hero, non sono star. Pochi hanno il privilegio di essere universalmente riconosciuti per quello che valgono: inventare belle storie e saperle raccontare. Perché un disegno è immediatamente giudicabile: bello o brutto, chi più chi meno lo capisce alla prima occhiata. Una sceneggiatura come si giudica? Ti tocca leggerlo il fumetto, non solo guardarlo… e leggere costa tempo e fatica, baby.

Concludendo, bambini: sicuri di voler fare questo lavoro?
Se dopo aver letto queste sconclusionate e sconfortanti righe la risposta è “sì”, forse siete già sulla buona strada.
Se la risposta è “no”, beati voi.