90
18 mins read

90

Per “quelli della mia generazione”, quelli nati nel bel mezzo degli anni di piombo, del rock progressivo e dei poliziotteschi, gli anni ’80 sono stati il decennio che li ha traghettati dall’infanzia all’adolescenza, con tutti i traumi che ne conseguono (provate voi a girare con le Lumberjack a 12 anni in piena era paninara. C’è gente che è morta per questo. Ne ho parlato QUI).

I ’90 invece ci hanno accompagnati nell’altrettanto traumatico passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Ma considerando che “quelli della mia generazione che fanno fumetti” non sono mai, diciamocelo, cresciuti davvero (ho amici dottori che, nella migliore delle ipotesi, ancora mi chiedono che minchia di lavoro faccio; nella peggiore mi immaginano a-casa-tutto-il-giorno-a-far-nulla-beato-te), forse dovremmo interrogarci sul perché quel decennio ci ha segnati in maniera così indelebile. Cos’è successo, cos’è scattato di tanto significativo da farci restare ingabbiati in una bolla spaziotemporale da cui, forse, non usciremo mai? Non che sia una cosa negativa in sé. C’è chi sta peggio. C’è chi non è mai uscito dalla bolla spaziotemporale di Star Wars, per esempio.

Quelli come me che hanno vissuto i ‘90 nell’età in cui si doveva decidere il futuro suo e del mondo, hanno scelto di non scegliere. Non scegliere di crescere, nel senso più classico e pragmatico del termine. Quando hai vent’anni crescere significa prendere decisioni importanti come: università o lavoro? single o fidanzato? Monolocale in affitto o papà&mammà?

È che quando io avevo vent’anni un certo Quentin butta fuori Le Iene e Pulp Fiction, un certo Ennis scrive The Preacher e la Camunia pubblica i romanzi di Sclavi che prima di Dylan non se li filava nessuno. Risultato: mollo giurisprudenza per la Scuola del Fumetto, mi trasferisco in un monolocale in affitto a Milano e opto per il celibato (non esattamente una scelta mia quest’ultima, ma mi piace ricordarla così).

Il danno è fatto. Da allora non sono più uscito dalla mia personale bolla spaziotemporale. Una bolla fatta di gangster che infilano siringhe di adrenalina nel petto di Uma Thurman, fidanzati serial killer che girano l’America sparando in faccia a chiunque senza pregiudizi, predicatori col Verbo, vampiresse sexy che lavorano al Titty Twister. In questa bolla succede di tutto. E soprattutto non smette mai di succedere di tutto. È la mia croce e la mia delizia.

Rivediamo alla moviola tutti i passaggi che mi hanno portato a questo.

Per motivi pratici non metto gli anni di tutte le opere perché sarebbe fuorviante. Nel senso che alcune cose le ho scoperte (le abbiamo scoperte) qualche anno dopo la loro effettiva uscita sul mercato, vuoi perché in Italia la distribuzione di figate ha i tempi di reattività di un bradipo sotto morfina, vuoi perché un fenomeno mediatico ci metteva un po’ di più a crescere senza facebook. Quello che segue è l’ordine cronologico in cui mi sono pappato film, fumetti, libri, nel decennio della mia maturità. Oh, e poi c’è wikipedia.

LE IENE

1992. Mi contraddico fin da subito. Ma l’anno in questo caso è importante. Perché Pulp Fiction uscì nel 1994. Ebbene, grazie a un papà cinefilo come pochi, quell’anno mi ritrovo in casa la vhs di un film d’esordio di un perfetto sconosciuto, che però aveva già folgorato la critica al Sundance Film Festival (sì, sapevo cos’era il Sundance sempre grazie al suddetto padre). Dai, mettilo su (che ai tempi delle vhs significava: inserisci la videocassetta nel videoregistratore e premi play, sempre che il precedente noleggiatore abbia riavvolto il nastro), pare sia bello. Il resto è storia, in tutti i sensi: gangster in giacca e cravatta nere che litigano per le mance alle cameriere, colonna sonora fatta di vere canzoni e non insipidi arrangiamenti di archi e synth, Mr.Blonde che trancia l’orecchio fuoricampo al poliziotto torturato, Mr.Orange che si esercita a ripetere l’aneddoto da criminale di bassa lega per risultare credibile come infiltrato (quella scena andrebbe studiata in tutte le scuole di cinema per la regia, i dialoghi e la spaventosa interpretazione di Tim Roth che passa da una recitazione volutamente indecisa e traballante fino a calarsi letteralmente dentro il personaggio… forse il più riuscito esempio di meta-cinema meno sfacciato della Storia), sangue&pallottole e, cosa che mi colpì parecchio e mi colpisce tuttora, non un fotogramma della rapina alla gioielleria in un film che parla esattamente di una banda che rapina una gioielleria. Quentin mostrò solo il prima e il dopo. Capii più avanti che quella roba aveva un nome: “montaggio”. Ma allora ero pronto a stupirmi di tutto.

PULP FICTION

Lo davano nel cinema più piccolo della mia provincia, che allora contava 4 sale. Un numero fantascientifico rispetto ad ora che, mi dicono, resiste solo un cinema parrocchiale con le sedie di legno e i ceci sul pavimento per guardare in ginocchio i film d’essai. Non è per dire, ma io in quella sala, allora, ero l’unico che conosceva già Quentin. Nessuno aveva visto Le Iene, tutti erano lì per l’Oscar alla sceneggiatura originale che aveva costretto i gestori della mini sala a proiettare quella pellicola quando gli altri cinema davano Forrest Gump e facevano il pienone. Beati gli ingenui, perché staccheranno più biglietti di tutti gli altri nel fine settimana. Per tutti i presenti in sala Pulp Fiction fu una folgorazione. Per me una conferma dello stile del regista destinato a cambiare la percezione del cinema negli anni a venire. Quentin ha dato un senso compiuto alla parola “post-moderno” portando il cinema di serie B in serie A. L’ha fatto, nel suo primo periodo, prendendo tutti gli stereotipi del noir (personaggi, situazioni, location) e portandoli all’estremo, fino al punto di rottura oltre il quale i medesimi fanno un giro di 360° e ritornano al loro posto trasmutati in qualcosa di nuovo, originale, inedito. Violenza, ironia, tensione, ribrezzo: emozioni base portate all’eccesso in un continuo gioco con lo spettatore che si chiede costantemente se deve credere o no a tutto quello che sta capitando sullo schermo. E alla fine ci crede. Farà lo stesso in futuro con altri generi. E già il fatto che un regista diventi Autore sporcandosi le mani coi Generi è motivo di orgoglio per tutti noi. E tutto il citazionismo tarantiniano di cui si è parlato per più di vent’anni è giusto la ciliegiona su una torta già grassissima di suo. È così che si trasforma il proprio cognome in un aggettivo da applicarsi non necessariamente solo alla materia di cui sei Maestro. È così che si diventa immortali.

I ROMANZI DI SCLAVI

E sì perché il papà di Dylan non scriveva solo sceneggiature. Sono anni che scriveva e pubblicava romanzi ma si dovette aspettare il ’91 perché uscissero “Nero.” (col punto) e “Dellamorte Dellamore”. La Camunia aveva già pubblicato “Tre” nell’88 sulla scia della nascente fama del nostro Indagatore preferito, ma tra una cosa e l’altra il vero successo dei romanzi arriva nei ’90, a braccetto col vero successo nazionale di Dyd. È ovvio che li ho comprati tutti, quelli citati, quelli passati e quelli ancora a venire. Dylan aveva già marchiato a fuoco la mia giovanissima mente alla fine degli ’80, ora toccava alla prosa sclaviana darmi il colpo di grazia. “Nero.” è un noir che pare pensato da Kafka e scritto dai Coen più ispirati: conserva e rispetta le regole del genere per raccontare una situazione di ordinaria follia che deraglia nel grottesco più spinto (ancora adesso mi interrogo su quale sia il modo migliore per far sparire un cadavere chiuso in una valigia). “Tre” è il primo e migliore romanzo realmente surreale che abbia letto; è l’unico che sia riuscito davvero nell’impresa impossibile di coniugare il termine “scrittura” al termine “surreale”; è Magritte in prosa; per questo non ricordo nulla della storia ma ogni tanto ho voglia di rileggermela, proprio come si ha voglia di rivedere un quadro in un museo. “Dellamorte Dellamore”, da queste parti, non ha bisogno né di presentazione né di spiegazioni; basta ricordare che fu la prima opera italiana (al mondo?) ad adottare lo stile di scrittura della sceneggiatura per fumetto nella narrazione di un romanzo. Esperimento totalmente spiazzante e totalmente riuscito.

PAOLO DI ORAZIO

Che già la rivista Splatter e poi Mostri ci avevano preso a calci in faccia a cavallo dei due decenni. Brevi storie a fumetti senza censura, senza limiti, senza morale. Un coacervo di creatività horror incontrollata. Ma è quando escono i primi romanzi di PdO “Primi Delitti” e “Madre Mostro” che scatta qualcosa di veramente importante. Non avevo mai letto nulla di più estremo, brutale, macabro. Anni prima che in Italia circolassero termini come Splatter Punk e Gioventù Cannibale. Paolo era avanguardia pura. Adottava, e adotta tuttora, una scrittura tremendamente elegante e forbita per raccontare storie di quotidiano orrore con una dovizia di dettagli da far impallidire un anatomopatologo di fama mondiale. Uno stile “alto” applicato a situazioni “basse”. Questo splendido contrasto tra forma e contenuto è uno dei motivi per cui uno scrittore deve essere unanimemente considerato uno Scrittore.

NATURAL BORN KILLER

Su sceneggiatura di Tarantino, stravolta da Oliver Stone, è il film che ha messo la parola fine all’aggettivo “videoclippato”, termine in voga quegli anni per indicare un audiovisivo dal montaggio particolarmente frenetico e confuso (per la percezione di allora, s’intende) e dalla fotografia ostinatamente cangiante. Stone prende i suoi due amanti serial killer e li frulla in questo contenitore multicolor impazzito facendone delle rockstar e disintegrando il mito della TV (allora il media dominante) utilizzando il suo stesso linguaggio. Per alcuni un autentico viaggio lisergico vissuto da sobri, per altri una trashata clamorosa (quando aveva un senso la parola trash). Nessuno ne è rimasto indifferente.

LYNCH

Ci vorrebbe un post a parte, e sarebbe comunque riduttivo. Ma d’altronde Twin Peaks 3 si avvicina… Qui basti ricordare che anche il cognome di David, come quello di Quentin, nei ‘90 è diventato un aggettivo. Questo regista pazzerello è riuscito a coniugare arte visiva, sperimentazione pura, cinema d’autore, cinema di genere e anti-narrazione come nessun altro prima e dopo.

JOHN WOO

A Hong Kong, a metà degli anni ’80, l’allora 40enne regista reinventa il gangster movie dalle fondamenta partorendo un inedito e inaspettato connubio noir/melò che condizionerà un fottìo di registi americani a venire. In Occidente, e in particolare in Italia, i suoi film si scoprono solo nei ’90 e il suo nome spalanca letteralmente le porte al cinema orientale, come non capitava dai tempi di Bruce Lee (ed erano i primi anni ’70). Nel mio caso a farmi scoprire il maestro cinese fu il mio maestro di sceneggiatura, il Cajelli nazionale. Da allora la mia percezione del mondo cambiò. Ralenti sontuosi, sparatorie lunghissime e coreografate come fossero scene di danza, killer elegantissimi e dalla morale incorruttibile, sangue, colombe, fuoco e pallottole. La vhs copiata di The Killer (sì, a quei tempi si duplicava, non si scaricava) l’ho consumata a furia di riavvolgerla. Poi l’ho comprata originale e ho consumato pure quella.

PREACHER

Garth Ennis è entrato a gamba tesa nel mondo del fumetto e ha avuto su di esso il medesimo impatto che in quegli anni Quentin stava avendo sul cinema. Ennis è un inglese che odia profondamente gli americani, o meglio quella parte di America che mezzo secolo prima aveva favorito la nascita del Comics Code Authority. Violenza e Volgarità nelle sue storie sono talmente sfacciate ed estremizzate da andare oltre la satira. Diventano Stile. Preacher è la storia di Jesse Custer, predicatore che un bel giorno si ritrova il potere del Verbo, ossia la capacità di costringere chiunque a fare qualunque cosa lui dica. Questo perché viene posseduto da un essere che non doveva nascere: il parto di un Angelo e di un Demone, l’unica creatura abbastanza potente da poter sfidare Dio in persona. Che però se la squaglia. Jesse decide di ritrovarlo per fargli un discorsetto e costringerlo a liberarlo dal suo fardello. Storie così anarchiche e dirompenti, allora come oggi, si trovano davvero a fatica.

TRAINSPOTTING

Colpo di fulmine. Visto al cinema appena uscito nel ’96 mentre ero obiettore di coscienza in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Un cortocircuito perfetto. Insieme a Le iene e The killer, il film che ho rivisto più volte in assoluto. E intendo decine. Ai tempi registrai TUTTO l’audio del film (non la colonna sonora, proprio l’audio: dialoghi, musiche, rumori…) su musicassetta per poterlo ascoltare anche in auto. Le due cassette della colonna sonora le avevo già. Mi rasai i capelli e feci un piercing al lobo sinistro (che porto ancora) come il protagonista Mark Renton, uno splendido Ewan McGregor che per anni rimase il mio attore di culto. Un film epocale, visto al momento giusto e all’età giusta. Inutile citare scene, ognuna è un gioiello a sé stante. Ognuna è entrata, quale più, quale meno, nell’immaginario collettivo dei cinefili di tutto il mondo. Frasi come “è il film che avrei sempre voluto realizzare anche se non sono un regista e ho 22 anni” e “voglio scrivere una sceneggiatura così” per il sottoscritto nascono allora.

DAL TRAMONTO ALL’ALBA

La farò breve: se hai 20 anni negli anni ’90 e vieni dalla provincia e internet è solo una cosa di cui hai sentito parlare, quando ti ritrovi al cinema Mexico di Milano per vedere l’ultima tarantinata e la fine del primo tempo arriva dopo che un barista messicano si è appena trasformato in un vampiro in un film che trasudava pulp fino a un secondo prima… beh, il termine “colpo di scena” assume un significato nuovo. Ricordo come fosse ieri lo stupore stampato sulle facce di tutti gli spettatori quando si riaccesero le luci per l’intervallo. Che cacchio sta succedendo?! Ma non era un film scritto dal regista di Pulp Fiction e diretto da quello di El Mariachi? Si è trasformato in un film di vampiri?! E sì. Il secondo tempo è un ottimo horror con vampiri e motociclisti che si uccidono a vicenda. Mai più provato un disorientamento tanto spettacolare durante la visione di un film in sala.

BLAIR WITCH PROJECT e IL SESTO SENSO

1999. Altra data che è doveroso segnalare come chiusura del decennio. Il primo no, non è un bel film. No, non lo consiglio. No, non è, tutto sommato, un vero horror. Sì, fu un fenomeno di massa istantaneo senza precedenti nel panorama dell’horror indipendente a zero budget. E il primo esperimento di viral marketing della Storia di Internet (mettiamola così: questo è vero per i film, ma per quanto riguarda altri rami boh, magari non era una novità). Nel senso che all’epoca circolavano news on line e siti che davano per vero il ritrovamento di una vhs che documentava gli ultimi giorni di vita di tre ragazzi dispersi in un bosco alla ricerca della leggendaria strega. Che ci si credesse o no, il danno era fatto. Non si poteva non andare a vedere quella roba.

Il secondo ha sdoganato il termine “twist finale” e inaugurato la carriera di Shyamalan, che, pensate!, ebbe il merito di riportare le storie al centro dei film di paura dopo un decennio francamente fiacco su quel versante.

Tirando le somme, nei ’90 il messaggio subliminale che trasudava da quasi ogni opera d’intrattenimento era questo: potete fare qualunque cosa, basta che sia stupefacente. Negli ’80 ci siamo divertiti un sacco, abbiamo viaggiato nel tempo, catturato fantasmi e recuperato arche perdute. Ora osate di più, tentate strade che altri non hanno ancora percorso, scontratevi col ridicolo, cadete e rialzatevi, sempre a testa alta all’inseguimento di qualcosa che non è ancora stato scritto, visto, detto. Non scegliete la via facile, già percorsa, già vissuta. Non scegliete i vestiti alla moda, il mutuo, il maxi televisore del cazzo. Spiazzate voi stessi e spiazzate il mondo.

Qualcuno ce l’ha fatta, qualcuno ha mollato, qualcuno ci prova ancora. A quale categoria apparteniate non conta. Conta la Bolla.

PS: questa è in realtà una recensione di Trainspotting 2. Chi già mi legge sa che mi piace prenderla dannatamente alla larga. T2 lo considero il mio personale Star Wars Episode VII. Un sequel/reboot del primo, irraggiungibile, capolavoro di Boyle. Non posso amarlo perché è un film troppo autoreferenziale e che in parte contraddice il mito di riferimento (perché scopriamo che Rent, in tutti questi anni, ha davvero scelto la vita). Non posso odiarlo perché mi ha ricordato che quel sorriso finale consegnato alla Storia da un Ewan McGregor in stato di grazia, un sorriso così tirato, così grottesco, sempre più sfocato mentre avanza verso di noi con gli Underworld in sottofondo, mi ha accompagnato per vent’anni e continua a farlo, nonostante tutto. Perché Rent può ripetersi quanto vuole che sceglierà la vita e il maxitelevisore del cazzo ma, nella mia testa, non lo farà mai. E nemmeno io.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *