Frankenstein Junior è stato, per una generazione o forse più, una pellicola cult, un film capace di essere imparato a memoria da molti appassionati, in molti dei suoi dialoghi e delle sue battute. È sempre difficile scoprire le motivazioni e l’alchimia che trasformano un’opera in un pilastro dell’immaginario collettivo condiviso, anche perché spesso tali elementi esulano dal successo commerciale o di critica ricevuto dalla stessa al momento del rilascio.
Si può fare!, fumetto di Isabella Di Leo pubblicato da BeccoGiallo è, in tal senso, uno strumento utile.
Tra il 1973 e il 1974 il regista Mel Brooks e l’attore Gene Wilder lavorarono insieme all’idea di una sorta di parodia comica di Frankenstein, intuizione avuta dallo stesso Wilder che decise di proporla al cineasta di origini ebraiche perché ritenuto particolarmente idoneo per dirigerlo e co-scriverlo.
Non era solo basandosi sui risultati dei precedenti film di Brooks che Wilder decise di affidarsi a lui: tra i due si era instaurato un rapporto di stima, amicizia e complicità nato da una serie di circostanze e cementato in un paio di precedenti esperienze professionali.
È proprio in questo aspetto che si può rintracciare il pregio principale della graphic novel, che ripercorre il processo di realizzazione di Young Frankenstein (titolo originale di Frankenstein Junior) dal primo embrione di idea al prodotto finito.
Una storia interessante, come lo sono spesso i dietro le quinte sulla realizzazione di certe opere che hanno fatto epoca, ma che assume un particolare rilievo non tanto in virtù delle classiche “vicende da set”, quanto nel rapporto speciale tra i due protagonisti, il regista e l’attore principale.
Gli opposti si attraggono
Leggendo Si può fare! ci si accorge ben presto che l’elemento apparentemente principale del fumetto, vale a dire il racconto della scrittura e la direzione di Young Frankenstein, è in realtà il pretesto con cui Di Leo ha modo di raccontare in maniera approfondita le caratteristiche di Mel Brooks e Gene Wilder, due figure con cui l’autrice ha accumulato un debito di gratitudine per le risate che le hanno fatto fare con i loro film in un particolare passaggio della propria esistenza – come spiega nell’introduzione – e su cui si è documentata attraverso libri e interviste per cercare di restituirne un ritratto quanto più possibile fedele, tanto nelle luci quanto nelle ombre delle loro personalità e del loro rapporto.
Il risultato di questo lavoro di approfondimento si può considerare riuscito per un semplice motivo: il lettore si affeziona ai due protagonisti, alle loro alterne fortune e ai loro desideri, e ben presto ci si dimentica che siano la versione a fumetti di due persone reali. Di Leo distilla con una tale pulizia narrativa le loro personalità dentro alle due figure di carta da farle vivere quasi come personaggi autonomi, che rispondono a tutte le classiche regole della fiction, rendendo così la storia per nulla pesante o didascalica ma interessante e curiosa come se fosse un’opera completamente di fantasia. Tale merito deriva sicuramente dall’affetto e dalla passione che l’autrice nutre per Brooks e Wilder, che traspare genuino da ogni pagina.
La fumettista non insiste troppo sulla drammaticità, nei passaggi in cui attore e regista hanno momenti di sconforto o difficoltà, ma riesce a raccontarli con una certa naturalezza grazie a un azzeccato controcanto comico fornito solitamente da qualche uscita di Mel, senza per forza voler evitare un retrogusto amaro che dona realismo alla vicenda.
Proprio l’attore e regista, oggi ultranovantenne, risulta particolarmente irresistibile nell’interpretazione data da Di Leo, per via del carattere istrionico che gli è proprio e che lo rende istintivamente simpatico.
Ma anche la timidezza e la forte sensibilità di Wilder appaiono ben trasmesse, mostrando a chi lo conoscesse solo attraverso i suoi ruoli da commedia e sopra le righe quanto fosse in realtà un essere umano tormentato, con un notevole bagaglio di problemi personali, e quanto trovasse nella recitazione una forma di liberazione e un modo per sentirsi a proprio agio.
Ciò che l’autrice riesce a trasmettere a pieno è l’alchimia perfetta che condividono i due protagonisti, il modo in cui si completano e l’efficacia con cui la loro diversità caratteriale riesce a dar vita a una risultante professionale maggiore della somma delle parti.
Al contempo, Di Leo insiste giustamente anche su quanto vero e profondo sia stato il legame di amicizia, stima e affetto che ha legato Brooks e Wilder, allontanando entrambi dallo stereotipo delle star hollywoodiane tese all’effimero e al superfluo.
Una criticità che si può riscontrare risiede, invece, nella piattezza con cui vengono delineati gli altri personaggi del cast: a parte le compagne dei due protagonisti (che però godono più che altro di luce riflessa, anche Anne Bancroft, consorte di Brooks e una delle più importanti attrici della storia di Hollywood), il resto degli attori che hanno partecipato a Young Frankenstein non hanno nessun approfondimento e anche poco spazio e fungono, più che altro, da strumenti narrativi al servizio del racconto principale. Una scelta di campo probabilmente consapevole e tutto sommato condivisibile, trattandosi in fin dei conti della storia di Mel e Gene, ma che crea un leggero disequilibrio per quanto concerne la “linea narrativa” relativa alla lavorazione della pellicola.
Motore… azione!
Questo non significa che la parte dedicata alla genesi e alla lavorazione del film sia sacrificata. Cast a parte, viene dato ampio spazio al percorso che ha fatto diventare l’idea di Gene Wilder una realtà. Anche perché questo processo risulta strettamente connesso alle vite dei due artefici, che ripongono nel progetto le proprie speranze di carriera e vi sublimano all’interno una voglia di riscatto rispetto a esistenze burrascose sia a livello personale che professionale.
I vari passaggi, dalla proposta alla stesura del primo soggetto, dall’offerta a varie case di produzione all’ottenimento del budget, dal casting alle difficoltà sul set vengono esposti in maniera chiara e lineare dall’autrice, che pur amalgamando questi fatti con i percorsi dell’animo di Mel e Gene non ne perde di vista il filo conduttore, senza mai appesantire la lettura con situazioni troppo tecniche o didascaliche ma senza nemmeno peccare di superficialità.
Emerge, soprattutto, l’esplosione di creatività che i due protagonisti riversavano senza sosta nello script, anche a riprese iniziate, aggiungendo elementi o limandone altri seguendo intuizioni che avevano modo di emergere proprio grazie al perfetto connubio che si era instaurato tra di loro.
È questa una delle parti più riuscite e più interessanti della graphic novel, soprattutto per i fan di Frankenstein Junior, nella quale l’autrice svela trivia e dietro le quinte di alcune scene e sequenze che sono diventate poi cult (come quella del primo incontro alla stazione ferroviaria del dott. Frankenstein e di Igor, interpretato da Marty Feldman, o com’è nata la partecipazione di Gene Hackman alla pellicola).
Intervallare certi passaggi, in particolare quelli relativi a momenti meno positivi, con diversi flashback rappresenta tra l’altro una trovata efficace in termini di struttura narrativa del racconto. Permette da un lato di avere più chiare certe decisioni e paure di Mel Brooks, e dall’altro mostra la coerenza artistica che il regista intendeva avere sulle sue opere, legate in qualche modo da un sottile filo rosso. Legame di cui faceva parte anche Gene Wilder, che vediamo infatti coinvolto negli anni precedenti tanto in The Producers (Per favore, non toccate le vecchiette) quanto in Blazing Saddles (Mezzogiorno e mezzo di fuoco): questi inserti non sono quindi solo un vezzo dell’autrice ma fondamenta utili sulle quali costruire una conoscenza più piena dell’operato del regista e della nascita della grande amicizia tra lui e Gene.
Altrettanto apprezzabile, per quanto ormai sovente in numerose opere a fumetti, l’idea di accompagnare ogni capitolo del libro con una canzone, coeva all’epoca di produzione del film, che racchiude in sé elementi o rimandi a quanto narrato in quella sezione del libro.
Disegnare l’orrore… e la vita
A livello di disegno, risulta subito evidente la maturazione stilistica di Isabella Di Leo rispetto alla sua opera precedente (Triplo Guaio, del 2019).
Il segno si fa più morbido ed elegante, in particolare nei character design, rinunciando a quell’approccio smaccatamente cartoonesco e avvicinandosi maggiormente alle influenze del recente fumetto umoristico italiano, con risultati decisamente felici.
I personaggi appaiono infatti vivi e frizzanti, rappresentati con movimenti naturali e poche imperfezioni: qua e là sussistono ancora alcune vignette un po’ troppo innaturalmente statiche, ma si tratta di casi occasionali in una sequenza di tavole illustrate con gusto e perizia.
La disegnatrice sta evidentemente continuando il suo percorso professionale alla ricerca di uno stile, e proprio nella cura infusa per illustrare i personaggi si nota maggiormente lo scarto rispetto alla sua opera prima: basti osservare la gamma di espressioni di Mel, Gene e di ogni comprimario in scena, capaci di veicolare efficacemente i loro sentimenti del momento. Oltre a ciò, pur in versione “pupazzesca” ogni figura è immediatamente riconducibile alla sua controparte reale, denotando la fedeltà e lo studio verso i modelli originari.
Riguardo a ciò, merita soffermarsi proprio sulla resa dei due protagonisti, che Di Leo esalta evidenziandone le caratteristiche fisiche che li hanno resi famosi: la capigliatura bionda e riccioluta e i grandi occhi azzurri di Wilder – specchio dell’animo timido e remissivo della sua personalità fuori dal set – e gli occhi piccoli e furbi da roditore di Brooks, accompagnati alla sua bassa statura, che sembra quasi comprimere il suo vulcanico carattere aumentandone la potenza deflagrante in fatto di comicità e di atteggiamenti.
Un elemento trascurato in Triplo Guaio erano gli sfondi, spesso del tutto accantonati: in Si può fare! vediamo invece un’inversione di tendenza in tal senso, con l’autrice che si sbizzarrisce nel ritrarre gli interni delle abitazioni, il set e gli affascinanti panorami californiani. Non si tratta di nulla di particolarmente complicato nel modo in cui queste ambientazioni vengono disegnate, ricorrendo sostanzialmente a forme piuttosto semplici per esterni di edifici e arredamenti, ma la presenza costante di questi background fornisce puntuali riferimenti narrativi efficaci nella loro immediatezza, in grado di contestualizzare ogni passaggio e di confermare l’evoluzione autoriale di questo lavoro rispetto al fumetto di esordio che, pur già molto valido, nasceva da un’urgenza creativa e personale che aveva come ricaduta grafica un tratto in parte necessariamente grezzo.
Non mancano diversi dettagli, comunque, che sottolineano l’attenzione verso ciò che circonda i personaggi (bottiglie in un bar, librerie, costumi di scena, macchinari), e un buon occhio per le prospettive, a sottolineare una maturazione tecnica dell’autrice che sta acquisendo esperienza sul campo.
Estremamente valida anche la differenziazione grafica delle sequenze in flashback rispetto al presente narrativo, sempre sottolineate da vignette tondeggianti che avvertono il lettore del “cambio” cronologico del racconto, mantenendo la chiarezza narrativa dello sviluppo.
Nel complesso la struttura della griglia è piuttosto regolare, ma in alcuni passaggi – per esempio il breve capitolo accompagnato dal testo di You Ain’t Seen Nothing Yet – le tavole si compongono di soluzioni particolari come tre vignettone dai contorni obliqui che occupano tutto lo spazio o una splash page con i due protagonisti attorniati da una cascata di polaroid scattate sul set.
Si tratta di belle trovate che offrono dolcemente un cambio di ritmo alla lettura e concedono disegni ampi in campi ariosi, aiutate inoltre dall’uso efficace del colore: la tavolozza utilizzata appare infatti sempre accesa, pur senza eccedere in un effetto troppo accecante, ma in questi passaggi si arricchisce di un effetto-brillio per lo sfondo che contribuisce a comunicare la “magia” del momento o uno status mentale particolarmente felice per i personaggi.
Di Leo non manca di inserire infine una breve bibliografia letteraria per approfondire la vicenda da lei narrata in questa graphic novel – come da buona prassi della maggior parte dei titoli editi da BeccoGiallo – e, arrivati alla fine di Si può fare!, viene naturale affiancare ai libri suggeriti dall’autrice questa sua stessa opera, a completare un quadro esaustivo su una vicenda particolare e originale come Frankenstein Junior è stato nella storia del cinema, nonché il racconto di una grande amicizia tra due uomini.
Abbiamo parlato di:
Si può fare!
Isabella Di Leo
BeccoGiallo, 2021
271 pagine, brossurato, colore – 20,00 €
ISBN: 978-88-3314-146-6
Per chi volesse approfondire:
Si può fare: intervista a Isabella Di Leo
Isabella Di Leo immagina “Lo Spazio Bianco”