Il martedì e il mercoledì in USA sono i giorni dedicati all’uscita dei nuovi albi a fumetti, molti dei quali sono numeri di esordio di serie e miniserie, i first issue.
First Issue è la rubrica de Lo Spazio Bianco dedicata ai nuovi numeri uno in uscita negli States! In questo episodio #70 ci occupiamo di alcune delle novità uscite mercoledì 30 settembre e mercoledì 7 ottobre 2020.
Marvel Comics
Sono passati molti mesi da Outlaw, one-shot di Eve Ewing e Kim Jacinto che ha ridefinito lo status quo dei Champions, il gruppo di adolescenti guidato da Kamala Khan che conta tra le sue fila, tra gli altri, Miles Morales (Spider-Man), Sam Alexander (Nova) e Riri Williams (Ironheart). Dopo il blocco causato dall’emergenza Covid, fa il suo esordio la nuova serie dei Campioni, scritta dalla stessa Ewing e disegnata da Simone Di Meo. La storia riprende i giovani eroi dove li aveva lasciati: delegittimati e sottoposti a una nuova regolamentazione che riguarda gli eroi adolescenti, braccati dal C.R.A.D.L.E. (Child-Hero Reconnaissance and Disruption Law Enforcement) e divisi sul da farsi.
Eve Ewing, forte dei suoi studi di sociologia e della sua ricerca nell’ambito delle scuole pubbliche, dimostra di avere profonda comprensione di tematiche quali il rapporto tra poteri e responsabilità, tra adolescenti e adulti e su come la società veda i primi. Purtroppo, una scrittura che non va troppo per il sottile e che in molti momenti si fa eccessivamente verbosa, oltre a una premessa ormai troppo sdoganata nel fumetto dei supereroi, affogano gli spunti interessanti del racconto: anche solo l’uso dell’acronimo C.R.A.D.L.E., gioco di parole con la parola inglese che significa culla, fa trasparire in maniera troppo ovvia ed evidente il focus dell’autrice. Nonostante questo, si intravede la sua capacità di far parlare i personaggi e di caratterizzare il loro mondo con precisione e vera comprensione, dalle tecnologie all’ambiente scolastico. A questo contribuiscono un lanciatissimo Simone Di Meo e un adattissimo Federico Blee, vere note liete di questo primo numero. Il tratto del primo non solo supporta la creazione di un mondo credibile e ricco di particolari e di personaggi tridimensionali e intensi, ma riesce anche a sopperire alla lentezza di alcuni dialoghi e didascalie con scene d’azione travolgenti (specie quelle che coinvolgono Miles Morales) che beneficiano di una costruzione della tavola piena di intuizioni e sperimentazioni. I colori squillanti di Blee rafforzano l’energia di questi passaggi, illuminando anche i momenti di confronto e più contemplativi.
Emilio Cirri
Nel pieno della rivoluzione mutante che sta caratterizzando il ciclo di Jonathan Hickman, Marvel Comics dà alle stampe una nuova edizione dell’albo che più di qualsiasi altro ha rappresentato un punto di rottura dell’universo X: Giant-Size X-Men: Tribute to Wein & Cockrum. Fin dal titolo si può intendere che questa non sia una semplice ristampa, quanto un vero e proprio atto d’amore nei confronti dei due autori che hanno posto le basi (insieme, successivamente, a Chris Claremont) per uno dei miti del fumetto supereroico e con cui qualsiasi scrittore di storie mutanti deve suo malgrado confrontarsi – basti pensare che proprio in questo albo di 45 anni fa aveva il suo primo momento di gloria l’isola di Krakoa, vera e propria protagonista della attuale Dawn of X.
Nulla da dire sulla storia che rimane un classico perfettamente godibile ancora oggi, nonostante una verbosità e didascalicità figlie un modo di narrare di altri tempi, che qui viene riproposta pedissequamente e senza alcuna modifica: tutto tranne il lettering, rivisto pur mantenendo un font dall’anima vintage, è esattamente come era nel Giant Size originale di quasi mezzo secolo fa.
L’unica, e grandissima, differenza è ovviamente il team artistico, o meglio i team artistici: ogni pagina mantiene sì la struttura “madre” ma è stata affidata ad un autore – o coppia, in caso di colorista ad hoc – differente; questo, che dovrebbe rappresentare il punto di forza dell’operazione, è al contempo anche il suo punto debole: se è interessante vedere artisti contemporanei dagli stili più disparati, quali ad esempio Chris Samnee o Marco Checchetto, alle prese con questa pietra miliare dei comics, spesso si ha l’impressione di trovarsi davanti a uno splendido artbook piuttosto che a una storia a fumetti, che viene minata da questo patchwork.
Rimane in ogni caso un gradito esperimento che non va ad intaccare il classico ma che anzi, spinge a rileggerlo e ad affiancarlo a questa celebrazione in un interessante “trova le differenze”.
Emanuele Emma
Nell’attesa di divenire un probabile nuovo fenomeno cinematografico del MCU, grazie a un film in uscita nel 2021, Shang-Chi si “accontenta” per ora di ritornare in fumetteria in una miniserie improntata su azione e combattimenti.
Il racconto vede il ritorno sulla scena di una antica e malvagia società segreta rimasta nell’ombra dopo la morte del leader Zheng Zhu, il padre del nostro protagonista. Shang-Chi, impegnato a vivere un’esistenza tranquilla nella Chinatown di San Francisco, viene raggiunto da quelle che sembravano solo sbiadite ombre del passato, capaci ora di condurlo nuovamente a combattere e misurarsi con irrisolte questioni familiari. Gene Luen Yang compie un onesto lavoro di sceneggiatura introducendo i lettori al personaggio, fornendo indizi sul suo passato e sulla sua natura di guerriero alla ricerca di una vita di pace. Mandata a memoria l’iconografia e il feeling delle storie classiche di Doug Moench e Paul Gulacy, Yang trova un buon bilanciamento tra tradizione e modernità riuscendo ad attualizzare il protagonista senza però riuscire ad inserirlo in una trama fresca ed avvincente.
È proprio nel concept del racconto che si evidenziano le maggiori pecche della costruzione narrativa, incapace di abbandonare il sapore delle classiche storie di kung-fu e dei loro scoperti meccanismi. Pur riuscendo a caratterizzare i personaggi donando voci distinte e riconoscibili a ognuno, Gene Luen Yang non si dimostra mai realmente incisivo lasciando semplicemente esistere i suoi attori all’interno di una casa narrativa troppo piccola perché questi possano realmente crescere.
Le matite di Philip Tan e Dike Ruan, impegnati rispettivamente a illustrare flashback di un lontano passato e il tempo presente, realizzano una riuscita amalgama stilistica garantendo fluidità ai disegni. Entrambi gli artisti, dotati di un tratto ruvido con qualche contaminazione manga, si dimostrano a proprio agio nel rappresentare sia scene ambientate nella Cina feudale e sia scene di combattimenti nella moderna Chinatown. Scarsa la cura degli sfondi che costringe i personaggi a recitare spesso in ambienti asettici e privi di profondità e prospettiva.
Il primo numero della miniserie dedicata a Shang-Chi, che presenta una bella cover realizzata da Jim Cheung, guadagna la semplice sufficienza non riuscendo mai a sorprendere realmente il lettore. La storia, ascrivibile agli action movie a base di combattimenti di arti marziali, non riesce a prendere quota o mostrare particolare freschezza e inventiva, rimanendo nelle secche di un genere già ampiamente usato ed esplorato.
Ferdinando Maresca
Di seguito, le copertine delle altre novità della Marvel Comics.
DC Comics
Si vis pacem para bellum, recita la massima latina che affonda le proprie radici nell’antichità. Declinata in un contesto meno ampio, come la necessità di sventare una rapina in un museo, e problematizzata sul piano morale, torna d’attualità nella prima e più corposa parte dell’albo Wonder Woman 1984, che fa da tie-in e lancio per l’omonima pellicola con Gal Gadot, la cui uscita nelle sale è stata a più riprese rinviata a causa del Covid-19.
Sceneggiato da Anna Obropta e Louise Simonson per i disegni di Bret Blevins e i colori di Steve Buccellato, Museum madness è un racconto destinato principalmente a un pubblico generalista, soprattutto a quegli adolescenti che, colpiti dalla visione del primo film – al quale c’è un rimando sotto forma di flashback introdotto da una battuta che strizza l’occhio allo spettatore – desiderano scoprire qualcosa in più sull’Amazzone. Per questo motivo la narrazione è semplice e ruota intorno agli aspetti più elementari dei personaggi, liberandosi di qualsiasi elemento di continuity fumettistica e di quei comprimari potenzialmente sconosciuti o ingombranti, nel contesto specifico.
Le autrici puntano sull’immedesimazione nei tre ragazzini ai quali Diana fa da guida nella visita al museo, cercando di trasmettere un messaggio formativo: è importante cercare di mantenere la pace senza ricorrere alla violenza. Se è interessante, in termini di realismo, che venga evidenziata la difficoltà di raggiungere l’obiettivo in alcune circostanze, tuttavia è stucchevole la critica facilona mossa al mondo degli adulti da parte degli studenti.
Luci e ombre anche per quanto riguarda il tratto di Blevins, che adotta uno stile un po’ datato, in particolare quando delinea i volti dei personaggi. Anche quello di Wonder Woman non convince del tutto a causa del taglio degli occhi e della carnosità delle labbra. A colpire positivamente sono, piuttosto, alcune inquadrature dall’alto molto efficaci, perché trasmettono con dinamismo la concitazione del momento.
In chiusura di spillato c’è Wolf cubs, episodio che si fa ricordare più per le tinte tenui e il segno dolce di Marguerite Sauvage che per la trama breve e poco ficcante imbastita da Steve Pugh. Un ragazzo si mette a capo di alcuni bambini, vittime dei soprusi dei potenti nei confronti dei loro genitori in una narrazione costituita per buona parte da dialoghi pronunciati da character ridotti a macchiette. Mentre l’intento educativo è apprezzabile, invece la realizzazione si rivela poco brillante.
Federico Beghin
Di seguito, le copertine della DC Comics.
Image Comics
Persone che raccontano: questo, alla fine, è quanto mette in scena l’albo di debutto di The Department of Truth, firmato da James Tynion IV (testi) e Martin Simmons (disegni e colori). Le figure sono dilavate, nebulose, spesso riprese con inquadrature sghembe, i confini di corpi e volti tendono a mescolarsi con gli sfondi: il tutto costruisce un’atmosfera onirica, dove a essere confusi sono i confini fra eventi, ricordi e racconti. Le immagini distorte rendono inquietante e immersiva quello che tecnicamente è una ininterrotta descrizione, che alla fine ci consegna lo scenario della vicenda.
Personaggi raccontano, altri personaggi ascoltano e non è chiaro se in quei racconti cercano conferme, verifiche, errori o tracce; noi vediamo le immagini evocate da quei fiumi di parole e non capiamo se sono eventi casuali, sofisticate trappole, simulazioni, finzioni.
La struttura generale è, apparentemente, a doppia cornice, un flashback a doppio livello, il racconto di un uomo stravolto nel racconto di un uomo disperato; racconti di complotti, racconti di racconti che lottano per formare la percezione del reale. la Terra è piatta, se un numero sufficiente di persone lo crede con sufficiente forza e alla fine del mondo c’è un muro di ghiaccio che, nella sua misteriosa insensatezza, ricorda la cascata che chiude il Gordon Pym di Poe. È l’antica morale del Sogno dei Mille Gatti: l’inverno del malcontento dei disadattati può mutarsi in estate sotto la forza del racconto e della propaganda. Chi ha il potere di guidare il racconto, decide il mondo di domani: la lotta, quindi, è su come sarà quel mondo.
Verboso, lento, a tratti didascalico (tutti aggettivi da declinarsi fumettisticamente), l’incedere di The Department of Truth costruisce un mondo instabile, permeato di paranoia, visivamente resa dell’indefinitezza delle figure; meccaniche ed elementi narrativi sono familiari, l’impatto visivo ammaliante ed enfatico, mentre i personaggi, al momento, sono solo pedine su una scacchiera. Il maggior rischio sta tutto nella natura ongoing della serie: la durata indefinita si porta dietro il pericolo della diluizione, rispetto alla quale il fascino delle tavole diventerebbe mero diversivo.
Simone Rastelli
Sam e Lauren hanno rotto. Sam ci è rimasto sotto e Jack (fratello di Lauren) cerca di aiutarlo, senza però dimenticarsi della propria vita sentimentale. Intanto Lauren si prepara per un tour con la sua band, i Nipslip, sperando che la notte passata con il compagno di band Ash non complichi tutto. Questa la breve sinossi del primo numero di Getting It Together, nuova serie di Sina Grace e Omar Saphi per i disegni dell’esordiente Jenny D. Fine e i colori di Steven Struble che si inserisce nel filone dei fumetti romantici. Un filone che, benché se ne parli sempre un po’ poco, ha sempre rappresentato un settore importante del mondo del fumetto, in particolare di quello statunitense. Negli anni si è assistito a un rifiorire del genere: titoli come Giant Days, Lumberjanes, Twisted Romance e Bingo Love hanno ricevuto premi e riconoscimenti e uno dei fumetti più acclamati del 2019 è stato proprio Laura Dean continua a lasciarmi di Mariko Tamaki e Rosemary Valero-O’Connell, che parla di una storia d’amore adolescenziale tra due ragazze.
Getting It Together si aggiunge a questi titoli con una storia in cui Friends incontra Modern Love, mescolando romanticismo e umorismo, immergendosi in pieno nel mondo dei millennials, in cui le relazioni passano da cellulari e app d’incontri, da pratiche kinky (abitudini sessuali non convenzionali, n.d.r.) e bisogno di tenerezze. Sina Grace, veterano del fumetto romance, si trova completamente a suo agio nella narrazione, creando, insieme a Omar Saphi, dei personaggi che, pur essendo perfetti archetipi del genere, riescono a suonare realistici e naturali. Il mondo in cui si muovono è caratterizzato con precisione e verosimiglianza, essendo lo stesso in cui Grace e Saphi vivono: questo elemento, pur essendo un punto di forza importante del fumetto, mostra anche il fianco alla critica spesso mossa a questo genere di opere che tendono a mettere in scena contesti di relativo benessere sociale, di ambienti hipster e gentrificati di una borghesia medio-alta. Nel bene o nel male, un segno dei tempi che corrono.
I disegni di Jenny D. Fine e i colori pastello di Mx. Struble (pseudonimo di Steven Struble, che ha già collaborato con Sina Grace sul fumetto romance The Lil’ Depressed Boy) contribuiscono a definire questo mondo con tavole dalla narrazione fluida e dal segno leggero e tratteggiato che danno vita a una San Francisco vista con l’occhio dei trentenni di oggi, divisa tra un bilocale disordinato, la terrazza di un condominio adibita a palco per una festa e un pub in cui incontrare il nuovo match ottenuto sulla app di incontri. Un fumetto forse non per tutti, ma che fotografa una generazione con uno sguardo divertito ma anche ricco di sentimento.
Emilio Cirri
Altri editori
Ha un che di datato, o forse di fuori dal tempo, la copertina del primo numero di Norse Mythology, serie prodotta dalla Dark Horse che, sotto la guida di P. Craig Russell, traspone in fumetto l’omonimo volume di Neil Gaiman (in Italia edito da Mondadori con il titolo Miti nordici). Ad affiancare Russell, già responsabile di numerosi adattamenti di opere in prosa di Gaiman, abbiamo disegnatori di gran richiamo, a ciascuno dei quali viene affidato un racconto; in questo albo di debutto, lo stesso Russell si occupa di visualizzare Yggdrasiland the Nine Worlds, Mike Mignola Mimir’s Head and Odin’s Eye e Jerry Ordway The Treasures of the Gods.
La messa su tavola utilizza griglie dalla scansione regolare, mentre la differenza stilistica fra gli artisti separa nettamente le singole vicende, dando a ciascuna un tono specifico: così Yggdrasil è avvolto dalla leggerezza della linea e dei colori di Russel, mentre Mignola con colori e ombre caratterizza soprattutto volti ed espressioni dei personaggi. E mentre il combinato fra figurazione pittorica e bidimensionale, l’utilizzo di una voce narrante e l’assenza di dialoghi dà a questi due racconti un’atmosfera sospesa nel tempo, Ordway informa il proprio (dove incontriamo Loki e i suoi intrighi) a una fisicità concreta, realizzata tanto da una resa plastica dei corpi e degli oggetti quanto dalla ricchezza dei segni di espressione, che carica i volti di emozioni, e dall’uso dei dialoghi, che porta le scene in un tempo e luogo situati e non astratti.
In questa differenza, emerge la discontinuità fra mito fondante e un mito, per così dire, cronachistico: il primo lontano dalla quotidianità umana, mentre li secondo pieno dei suoi elementi. Più delle altre trasposizioni gaimaniana, questa dei racconti dei miti nordici si presenta con una forte autonomia: lo stile e la passione dello scrittore inglese diventano molteplicità visuale e le immagini visualizzano mondi e personaggi che hanno ispirato una moltitudine di vicende supereroiche, ma che mantengono la loro intatta magia.
Simone Rastelli
Di seguito, le copertine delle altre novità.
Per questa puntata è tutto. Ci ritroviamo il 28 ottobre 2020 con First Issue #71.
Stay tuned!
[Un ringraziamento al nostro Paolo Garrone, che cura la gallery delle cover sulla pagina Facebook de Lo Spazio Bianco per ogni puntata di First Issue.]