Finding Disney: intervista a Nicola Sammarco

Finding Disney: intervista a Nicola Sammarco

Incontro con Nicola Sammarco, giovane artista pugliese che sogna l'animazione e ha creato i layout per l'adattamento a fumetti di “Alla ricerca di Dory”.

Nicola Sammarco, nasce a Taranto nel 1992. Affascinato dal talento del padre, pittore per passione, si interessa precocemente al disegno. Dopo gli studi al Liceo Artistico Lisippo di Taranto, entra a far parte del collettivo Regno delle Arti avvicinandosi al fumetto. Il gruppo dà poi vita all’associazione culturale Labo Fumetto, dove Nicola è docente di disegno e fumetto. Prosegue i suoi studi presso la Nemo NT accademia delle arti digitali di Firenze, specializzandosi nel campo dell’animazione. In seguito viene assunto alla Walt Disney Company Italia dove inizia a lavorare in qualità di layout artist su alcuni magazine della casa. Privatamente sviluppa l’idea della storia fantasy Cerva, con l’intenzione di realizzarne un cortometraggio e ne crea lo storyboard stampato, che presenta a Lucca Comics & Games. In seguito collabora come layout artist, designer, illustratore e storyboard artist free lance con realtà nazionali e internazionali e nel 2016 crea i layout per l’adattamento ufficiale a fumetti di Alla ricerca di Dory, l’ultimo successo Pixar. L’ultimo suo lavoro è la preparazione degli storyboard per Il Grinch, il prossimo film animato della Illumination Entertainment, in uscita nel 2017. Gestisce su tumblr “Art of Nicola Sammarco” e la pagina Facebook “Art of Nicola Sammarco“.

Il tuo background è decisamente particolare: vieni da una famiglia di artisti, tuo padre è una figura poliedrica (pittore, incisore, scenografo per passione), una sua cugina, Lidia Sammarco, è insegnante al liceo artistico; d’altra parte, però, sei nato nella Città Vecchia di Taranto, un contesto decisamente problematico, con lo svuotamento progressivo cui è andata incontro nei decenni, l’incuria e l’abbandono cui è stata sottoposta. Quanto hanno influito questi due aspetti così contrastanti?
Tantissimo. Sono convinto che il talento sia una questione di DNA e si tramandi ai discendenti, quindi già il fatto di avere un padre artista è stato importante e fonte di continui stimoli creativi, anche se poi il mio campo non è stato quello della pittura classica in cui operava lui. La Città Vecchia di Taranto, pur con i suoi problemi, resta un contesto artistico-culturale molto forte, con i suoi palazzi di grande valore storico e ha fornito comunque un grande stimolo: se hai talento e predisposizione artistica un simile ambiente si fa sentire e mi manca quando mi ci allontano. Per questo penso che, quando avrò completato il mio percorso, tornerò a Taranto e tornerò in Città Vecchia, non potrei scegliere un posto diverso.

La Città Vecchia di Taranto è certamente un ambiente bellissimo e ricco di influenze storiche. La domanda ruotava attorno al fatto che sei comunque nato nel 1992, in un periodo in cui il quartiere era già nel pieno del suo declino, ancor prima del recupero che, seppur lentamente, sta avvenendo in questi anni. In questo senso poteva comunque risultare scoraggiante.
È vero, ma qui la famiglia gioca un ruolo fondamentale: per quanto il contesto possa essere difficile – è noto che la Città Vecchia è stata a lungo legata a fenomeni di microcriminalità e spaccio di droga – la famiglia mi ha protetto e mi ha garantito quella normalità che ha permesso al mio talento di fortificarsi, trasmettendomi anche dei valori. Altri ragazzi che non trovavano questo scudo nella famiglia hanno invece intrapreso una brutta via.

Com’è avvenuta la scelta di non seguire la strada della pittura classica prediletta da tuo padre, per approdare al fumetto e all’animazione?
Mio padre è stato un pittore dilettante, ha partecipato ad alcune esposizioni, ma la passione per l’arte l’ha coltivata principalmente nel privato, senza seguire una vera e propria carriera, che comunque nell’ambito della pittura è sicuramente molto difficile. All’inizio la mia intenzione era quella di seguire le sue orme, ma già al liceo artistico Lisippo il confronto con altri compagni che disegnavano fumetti mi ha fatto avvicinare a questa forma espressiva – confesso che non ero un lettore prima di queste esperienze, in effetti la Città Vecchia da questo punto di vista scoraggiava, non esistevano biblioteche o librerie. Quindi si torna anche in questo caso all’importanza del contesto. Da lì ho poi proseguito per questa strada, avvicinandomi al collettivo di Labo Fumetto, che all’epoca si chiamava ancora Regno delle Arti, dove ho conosciuto Fabrizio Liuzzi e Gabriele Benefico. Ci sono stati periodi di allontanamento, ma quando poi è stato fondato ufficialmente Labo sono entrato nel direttivo. Dopo che Gabriele ha dovuto trasferirsi per lavoro, ho coordinato il corso di disegno e fumetto insieme a Gianfranco Vitti.

Da Labo come avviene il passaggio a Disney Italia?
Inizialmente ho tentato di iscrivermi all’Accademia Disney, nella sede della Disney Italia a Milano, che si poteva frequentare gratuitamente e che, oltre a fare formazione, permetteva di lavorare alle produzioni – e se consideriamo la quantità di materiale a fumetti Disney prodotto in Italia, si capisce come fosse un’occasione importante. Purtroppo l’Accademia ha chiuso e non se n’è fatto niente. Ad attrarmi di più era però l’animazione e così mi sono iscritto all’Accademia Nemo a Firenze. I costi erano alti, ma anche qui la famiglia è arrivata in mio soccorso, grazie al denaro che mia madre aveva da parte e di cui non sapevo niente – peraltro nello stesso periodo mio padre iniziava ad accusare problemi alla vista e lavorava poco, in casa eravamo tre figli, tutto questo fa capire quanto mia madre sia stata generosa nel darmi quei soldi. Naturalmente ho dovuto comunque fare economie, mangiare poco, ma sono riuscito a farmi notare e il secondo anno mi è stato pagato dall’Accademia con una borsa di studio. Verso la fine del secondo anno mi sono ritirato.

A questo punto immagino si stesse già definendo il tuo stile e il tuo eventuale percorso.
Sì, studiavo i disegnatori Disney e il mio stile si era adeguato al loro, puntavo già all’animazione e il mio obiettivo era andare a lavorare in America.

In effetti uno dei primi aspetti che ho notato è l’espressività degli occhi, che sono grandi e in puro stile disneyano.
Sì, assolutamente. Il design dei personaggi, in sé, è molto semplice e quindi il lavoro più grande si fa proprio sugli occhi, per rendere più vivo ogni carattere.

Torniamo quindi a come sei arrivato a lavorare con la Disney Italia.
Ho conosciuto Fabio Pochet, che lavora tuttora alla Disney, e attraverso lui ho ottenuto il contatto con il direttore, Roberto Santillo, cui ho inviato i miei lavori. Sono piaciuti subito e, dopo un primo test di layout, ho iniziato a lavorare sul magazine di Trilly. Il lavoro sul layout è più proiettato su una prospettiva cinematografica e di animazione, anche se parliamo ancora di fumetti. Dopo Trilly, che è un’ottima palestra per chi sta iniziando, sono passato a Whisker Haven, dove ho curato per primo il layout della serie a fumetti. Ora il lavoro sulla versione a fumetti di Alla ricerca di Dory, sempre come layout artist, costituisce il passo successivo.

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Hai dichiarato che uno dei tuoi modelli è Glen Keane, che ha pure iniziato giovanissimo.
Sì, lui aveva un padre che lavorava come illustratore per romanzi per l’infanzia. Poi si è iscritto alla Cal Arts, la scuola di Disney, ma al corso di pittura, non a quello d’animazione. Per sbaglio, la sua pratica è stata inviata però al corso d’animazione e lì è diventato uno dei più grandi. È uno dei miei autori preferiti, per lo stile di disegno e per il suo modo di impostare la narrazione. L’ho conosciuto grazie a Tom Bancroft, un altro grandissimo artista di cui sono amico.

Stilisticamente cosa ti piaceva del lavoro di Keane?
Il suo tratto sporco, dinamico e pieno di energia. È qualcosa che il digitale – che pure mi piace – non può eguagliare. Ho studiato molto anche i materiali usati da Keane, le sue matite, i suoi fogli per cercare di raggiungere quel tipo di tratto che volevo fare mio. Alla fine sono riuscito a trovare un compromesso fra il suo stile e il mio, con un tratto morbido, ma dinamico.

Il dinamismo in effetti si nota nei tuoi lavori. Ad esempio, nel caso della versione a fumetti di Alla ricerca di Dory, si nota subito l’uso espressivo della profondità di campo invece del più classico sviluppo “in orizzontale” dell’azione.
Un elemento puramente cinematografico, ed è stato grazie a quello che il direttore mi ha affidato il compito di realizzare i layout – stando alle sue parole, di solito un ruolo del genere non viene affidato a un giovane, ma ad artisti con molti anni di esperienza. Invece all’epoca di Trilly avevo ventidue anni: evidentemente il mio tratto e il tipo di studi che ho fatto si sono rivelati particolarmente adatti per un fumetto tratto da un’opera animata. Certo, si è trattata anche di una scommessa da parte di Roberto, perché è un progetto importante, che sarà pubblicato in tutto il mondo: sono andato in America per discuterne con gli altri responsabili, c’è stato un grande lavoro dietro.

Il gioco sulla profondità di campo sembra anche riflettere il fatto che il film è girato in 3D.
Sì, ma in generale è un modo per riflettere le dinamiche tipiche dell’animazione. La cosa allo stesso tempo facile per il disegno, ma in realtà più difficile per sviluppare l’azione è il paesaggio marino, che è sempre uguale. Quindi bisogna lavorare molto sui dettagli per diversificare le scene.

Il lavoro come avviene?
Si parte da una sceneggiatura e da infiniti materiali del film, storyboard e quant’altro. La sceneggiatura mi dice il numero di vignette che devono formare la tavola, ma in alcuni casi ho potuto fare delle modifiche, ho aperto delle vignette, ne ho eliminate o aggiunte alcune, facendo delle proposte alternative che venivano accettate o rifiutate. C’è sicuramente molta creatività, fintanto che è in linea con quello che c’è nel film. La lavorazione del lungometraggio è andata in parallelo con quella del fumetto, quindi è accaduto che si dovessero rifare delle tavole perché nel frattempo era stato modificato il film.

Il prossimo progetto ti vedrà impegnato non come layout artist, ma come storyboard artist: come vivi la nuova esperienza?
Lo storyboard artist è un lavoro molto importante perché sei a stretto contatto con il regista. Si realizza lo storyboard che poi viene affidato al reparto editorial (quello che si occupa del montaggio) dove viene aggiunto l’audio per creare gli animatic. Ho lavorato a Parigi presso la Illumination Entertainment, dove ho realizzato lo storyboard per la scena di apertura de Il Grinch, che uscirà nel 2017. Rispetto al lavoro fatto con Dory, qui il margine di libertà è enorme, perché si lavora sul fare il film, e si possono proporre idee che finiranno nella narrazione.

E dopo Il Grinch?
I progetti in ballo sono molti, da uno story internship alla Aardman, alla possibilità di collaborare con la Tonko House, uno studio bellissimo, che ha realizzato il corto Dam Keeper, candidato all’Oscar. È una realtà piccola, lo studio è in una casa – da cui il nome Tonko House – ed è stato fondato da Dice Tsutsumi, l’art director di Toy Story 3 e Alla ricerca di Dory, e da Robert Kondo, che pure aveva lavorato come art director alla Pixar. C’è anche la Sergio Pablos Studio di Madrid che vorrebbe la mia collaborazione da story artist, e infine… non posso ancora parlarne ma se procede bene sarà la mia grande occasione! L’obiettivo principale è arrivare a dirigere un film di animazione in America, ho anche rifiutato altri progetti a fumetti per dedicarmi a questo scopo: certo, per uno straniero non è facile, di italiani nell’industria dell’animazione americana ce ne sono molti, ma tutti operano dietro le quinte.

C’è ad esempio Enrico Casarosa, che ha fatto La luna, il cortometraggio della Pixar.
Sì, c’è anche Alessandro Carloni che ha diretto Kung Fu Panda 3, che di fatto è l’unico italiano ad aver diretto un lungometraggio. È difficile che gli americani affidino la regia a uno straniero, preferiscono sempre puntare sui loro talenti, che conoscono e hanno l’impostazione tipica della loro industria. Con Disney è più difficile perchè sono consapevoli della loro tradizione e più chiusi verso gli stranieri rispetto, ad esempio, alla Dreamworks. In generale c’è però grande intuito e meritocrazia verso i talenti.

Dobbiamo considerare i tuoi trascorsi a fumetti come una semplice parentesi, quindi?
No, perché fra le opere in ballo c’è anche Centaras, un progetto che covo da tre anni e che ora sta interessando la Dargaud, un grande editore francese. Senza anticipare troppo, è un fumetto che riscrive in chiave leggendaria l’origine di Taranto. Sarà in tre volumi da 50 pagine ciascuno. La storia è mia, la sceneggiatura è curata da Jerome Amon, che è bravissimo, ora sta pubblicando Nils, ancora inedito in Italia. Purtroppo un mio difetto è che mi annoio facilmente, ho sempre bisogno di cambiare, e questo spiega i ritardi accumulati finora su questa storia.

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Parlami anche di Cerva.
È il progetto che mi ha fatto arrivare a tutto, una storia che ho pensato in un paio di giorni, ma poi mi ha aperto le porte di Aardman e delle altre realtà con cui ho collaborato. Ho avuto i complimenti anche di un veterano come John Musker della Disney, l’avevo fermato io, ma è stato lui a riconoscermi per i lavori che aveva visto su Facebook, incredibile! L’obiettivo è farne un cortometraggio, ci sto anche lavorando, ma non uscirà fino a quando non mi soddisferà completamente. L’idea è nata un po’ per necessità: dovevo partire per l’America e mi serviva una storia che unisse dramma, comicità e azione, che sono i tre stili che solitamente si propongono nel portfolio da storyboard artist.

Infine, tornando al Grinch mi viene in mente la memorabile versione animata di Chuck Jones. In casi come questo, in cui esiste già un precedente forte, tendi a farti influenzare?
Farsi influenzare è parte stessa dell’arte, anche i grandi si ispirano sempre a opere preesistenti, ma naturalmente bisogna anche far emergere la personalità e metterci del proprio. È un lavoro delicato, ma entusiasmante.

Intervista realizzata a Taranto l’8 Ottobre 2016

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