Sono fatti miei

Sono fatti miei

Abbiamo chiesto ai Kappa Boys, nella voce di Andrea Baricordi, di scrivere della loro particolare affinità, come editori e autori, con tematiche legate all'affettività.

Mai e poi mai avrei pensato di far parte di una “minoranza etnica”.
Se qualcuno me lo avesse detto vent’anni fa, lo avrei guardato alzando un sopracciglio, come faceva il signor Spock di Star Trek, dicendo “Questo è illogico“.
O, almeno, non avrei mai pensato di farne parte nei termini di allora.
Nato nerd – oggi si direbbe otaku, legando il termine all’immaginario nipponico in cui navigo per passione e per lavoro da oltre vent’anni – in realtà sapevo fin troppo bene che fra me e l’universo del “sesso pratico” in quel periodo c’era un abisso incolmabile. L’unica sensazione che l’altra metà del cielo poteva provare nei miei confronti era quella di disagio, con sfumature che variavano dalla pietà al ribrezzo, a seconda della persona con cui avevo a che fare. D’altra parte, ero uno che alle scuole superiori ancora guardava i cartoni animati e leggeva i fumetti, e perciò lontano anni luce da qualsiasi tipo di forma vivente nell’universo che potesse suscitare un minimo di interesse nelle ragazze.
Vabbé, pazienza. Sono fatti miei.

Nonostante ciò, come capita a tutti quando si smette di essere bambini, a una certa età ci si inizia a interessare a quella cosa là, e allora ti si apre un mondo nuovo. L’ago della bussola ormonale impazzita continua a puntare ossessivamente in un’unica direzione, e a un certo punto ci si inizia anche a fare qualche domanda in merito.
Ho avuto la fortuna di entrare in quella fase tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, quando ancora i media riversavano una dose tutto sommato tollerabile di tette e culi nei nostri candidi occhietti. Se volevi vedere qualcosa – nonostante la famosa rivoluzione sessuale degli “Anni Settanta” – dovevi andare a cercartela tu, non ti veniva fornita su un piatto d’argento (con numerosi spot pubblicitari al suo interno) dalla TV di stato e dai network privati, come invece succede in questi primi anni Duemila.

Mi chiedo sempre cosa sarebbe accaduto se fossi stato adolescente oggi.
Temo che mi starei abituando alla nudità finto-peccaminoso-istituzionale e ai talk show sulle tette rifatte di questa o quella soubrette e, probabilmente, nel prossimo decennio mi sarei fatto prete per cercare un brivido in più nella vita. Chissà, forse tutti gli ettari di pelle nuda che si vedono in TV ultimamente fanno parte di un segretissimo programma della C.E.I. per farci venire la nausea in merito a un certo argomento, e mirare a una nuova era di candore e castità volontaria.
Ma forse no.

Fatto sta che se negli anni Ottanta eri ancora uno sbarbo, potevi sottolineare sguaiatamente la tua sana eterosessualità commentando ad alta voce l’apparizione del fornitissimo bocciodromo di Drive In, capitanato ‘vento in poppà da Tinì Cansino, o ululando sguaiatamente come il lupo di Tex Avery ogni volta che Carmen Russo sventolava l’apparato mammario in dozzine di pierinesche commedie all’italiana, divenute oggi incomprensibilmente ‘cult’.
La semplice idea che qualcuno potesse anche solo lontanamente avere inclinazioni differenti da queste, iniziava a suscitare risolini e battute, nonché la tendenza a isolare il soggetto in questione. “Eh eh eh… Finocchio. Eh eh.” (leggere ad alta voce imitando Beavis & Butt-head).
Io stesso, in quel periodo, ho fatto gruppo con altri adoleficienti (adolescenti deficienti) nell’additare qualcuno per la sua diversità reale o apparente che fosse. Non solo: quando volevi offendere qualcuno, la prima cosa che gli dicevi era frocio. Questo metteva le cose in chiaro. A te quelli là facevano schifo. Non eri mica come loro. Tsk. Zut. Pfui. Eri un coglionazzo nerd, certo, ma “normale”, quindi diecimila volte meglio. Vigeva la regola “il peggiore dei nostri è meglio del migliore dei vostri”. Un filino provinciale, vero?
Il termine eterosessuale non era ancora in voga, e quando saltava fuori dava esso stesso un’idea di stranezza: meglio definirsi normale, dunque. E magari accompagnare il tutto con una virile grattata ai cosiddetti sputando per terra, tanto per fugare ogni eventuale dubbio nell’interlocutore. Tutta cultura che ci portiamo dietro dal Ventennio, la stessa cultura secondo cui gli uomini non piangono mai e le donne stanno a casa a fare i figli e la calzetta. Il celodurismo storico, insomma.

Bene. Quindi, meglio nerd che finocchio. Ero tranquillo. Potevo tornare a leggere i miei fumetti in santa pace.
Ma proprio dall’amore per la lettura venni tradito.
I libri e i fumetti hanno questo strano potere: ti fanno vedere le cose da più punti di vista (spesso in soggettiva, come nei film horror, dove vedi quello che vede il mostro!), ti aprono un pochino la testa, ti tolgono qualche finta certezza e ti istillano qualche interessante dubbio.
Ti può capitare, per esempio, di scoprire che perfino – e dico perfino – uno di quegli invertiti possa essere una persona normale, e che la sua stranezza consista nell’essere interessato a persone dello stesso sesso, non perché l’ha deciso, ma perché quello fa parte di lui da quando è nato, così come avere i capelli di un certo colore o le lentiggini.
E, sorpresa, anche le donne possono essere invertite. Guarda che si dice lesbiche. Ah, sì? Bé, vabbé, ma per le donne è diverso. è più normale.
Aridagli col normale.

Si scopre così che esiste anche il “più normale” o “meno normale”, come i maiali de La Fattoria degli Animali di George Orwell, secondo i quali “la legge è uguale per tutti, ma per alcuni è più uguale”.
Ogni volta che salta fuori la parola normale dovremmo farci venire dei dubbi. Se poi entra in discorsi a carattere sessuale, apriti cielo.
Normale in base a cosa? In una vignetta del divertentissimo Cream di Luca De Santis e Sara Colaone, apparsa sull’antologia Jet Lag 2003 di cui mi bullo di essere l’editore, due cavallucci marini s’incontrano e si scambiano queste parole: “Lo sai che sono le femmine degli umani a partorire?” “Certo che la natura è proprio strana“.
Chi non capisce in cosa stia la battuta, vada su Wikipedia o si scarichi da internet un bel documentario sugli ippocampi. Poi non venitemi a dire “ma noi siamo umani, non cavallucci marini”, senno’ significa che non avete capito l’allegoria.

Oggi, dunque, faccio l’editore, il redattore e ogni tanto arranco nel tentativo di spacciarmi per autore, e quello che pubblico sono prevalentemente fumetti. Una buona parte di questi hanno a che fare con la sfera sessuale, e me ne sono accorto solo oggi, nello scrivere questo articolo.
Sarò mica diventato un maniaco sessuale, con gli anni?
Bé, innanzi tutto c’è da dire che io sono solo un quinto di editore, visto che in tutto siamo cinque soci/colleghi/amici (e ormai in parte parenti), e che decidiamo cosa pubblicare tutti insieme. Quindi sono responsabile solo per il mio personalissimo quinto, per tutto il sesso che pervade i fumetti di Kappa Edizioni.
Benché nelle librerie di varia il nome di Kappa Edizioni sia legato soprattutto a saggi, manuali e romanzi per ragazzi, nell’ambiente della fumetteria siamo noti soprattutto per la collana dedicata ai giapponesi boy’s love, manga incentrati su personaggi omosessuali maschili che in Giappone sono però realizzati da autrici, e che – mi si perdoni il termine – godono di enorme popolarità soprattutto fra le donne.
Sorpresa? E perché mai? D’altra parte, se l’immaginario maschile si attizza all’idea di due signorine che limonano, per quale ragione non dovrebbe accadere anche il contrario tra il pubblico femminile? Spesso mi chiedono se una donna che legge fumetti con protagonisti maschili gay è potenzialmente lesbica. Mi sa di no. Anzi, probabilmente è etero al cubo, visto che apprezza talmente tanto i maschietti da non sopportare la visione di una femminuccia tra loro. Ma la mia psicanalisi “pane e Nutella” lascia – temo – il tempo che trova. Magari salta fuori che c’é in realtà di mezzo un transfert di qualche tipo, e che vivendo quei racconti in soggettiva bla-bla-bla. Nel qual caso, di riflesso tutti i maschi che si attizzano pensando alle lesbiche sarebbero irrimediabilmente gay. Ah, già: “ma per le donne è diverso“.
Dimenticavo.

In Italia – come accade per qualsiasi altra cosa – la situazione è leggermente diversa rispetto a quella del paese d’origine di queste produzioni: a causa delle inevitabili differenze culturali, dalle nostre parti i boy’s love sono letti anche da una folta schiera di ragazzi omosessuali, grazie al fatto che sono abbondantemente distribuiti nelle librerie alternative. Alcuni titoli sono più espliciti di altri, e si dividono in sottogruppi a seconda della tipologia del rapporto o della differenza d’età tra i personaggi, che sono tutti disegnati in maniera da risultare raffinatissimi e bellissimi, e solitamente questo è ancora più accentuato nell’elemento passivo/remissivo della coppia, a cui spesso vengono attribuiti lineamenti ed espressioni talmente femminei da ricordare quelli delle eroine dei più noti shojo manga (i fumetti… “normali” per ragazze). Per quanto mi riguarda, nonostante i residui adoleficienti tutt’ora presenti nel mio DNA cerchino in tutti i modi di impedirmi di dichiararlo pubblicamente, anch’io ho scelto uno dei boy’s love pubblicati da Kappa Edizioni, e cioé Wild Rock di Kazusa Takashima: potete immaginare qualcosa di più divertente e improbabile di una storia del genere ambientata nello stesso periodo storico dei Flintstones, con cavernicoli che sembrano usciti dalle pagine di un catalogo di moda maschile? A me fa ridere, la trovo una cosa bizzarra e insolita, e per quanto mi riguarda questo è il primo fattore che tengo in considerazione in merito a qualsiasi fumetto che scelgo di pubblicare o di leggere. Chissà se questo mina la mia immagine pubblica? Vorrà dire che mi daro’ la famosa grattata là sotto, sputero’ in terra, e già che ci sono gridero’ rudemente “Ehi, pupa!” un paio di volte, così, tanto per recuperare.
Ma dopo, adesso ho altro da fare.

Se i boy’s love da noi pubblicati sono storie quasi prevalentemente ludiche, avventurose, romantiche, drammatiche o divertenti, c’é da dire che però abbiamo pubblicato anche qualcosa di interessante sotto un profilo diverso. Per esempio, abbiamo “adottato” un’autrice davvero dotata, Ebine Yamaji – di cui stiamo ormai portando in Italia l’opera omnia – che con il suo Love my Life ha portato il tema dell’omosessualità femminile nei manga a un livello più alto. è un delizioso racconto sulla presa di coscienza e l’accettazione, in cui una giovane protagonista decide di tentare di vivere la propria vita e la propria sessualità a dispetto della considerazione che il mondo “normale” ha nei suoi confronti. E non “a muso duro”, come spesso vengono rappresentate queste storie, e soprattutto senza dare nulla per scontato, incluse le reazioni di amici, genitori e parenti. L’unico rischio che si corre in questi casi – come dice un mio amico autore di fumetti – è quello di presentare una sorta di campionario delle varie sfaccettature dell’omosessualità (“bello, ma ci mancava solo il barboncino transessuale, e il quadro era completo”), ma vista la natura episodica della storia, attraversata da un filo conduttore principale, questa sorta di catalogazione era decisamente necessaria e funzionale. Ebine Yamaji, soprattutto, è riuscita a raccontare la vicenda in maniera lieve, e quando si arriva al termine del volume ci si sente come dopo aver bevuto un buon té verde su un prato in primavera.

Un altro autore che riesce a non appesantire mai i toni, questa volta sull’omosessualità maschile, è Ralf König, i cui buffi e sgraziati personaggi fanno ridere (ma ridere veramente, mica sorrisetti a denti stretti) in egual misura gay ed etero: la “saga” di Paul e Conrad è quanto di più divertente possa esistere, e anche se a volte può capitare l’elemento di riflessione tra una vignetta e l’altra, mai nulla va a intaccare la struttura umoristica di libri come Super Paradise o il premiatissimo Palle di Toro. E, a proposito del barboncino transessuale che mancava nel libro di Ebine Yamaji, König ha compensato realizzando un esilarante albo intitolato Roy & Al, i cui protagonisti sono proprio due cagnetti: il primo, un paffuto bastardino con tendenze gaie, il secondo, un minuscolo esemplare di razza decisamente omofobo. Ecco, dovendo posizionare in un grafico i fumetti di König, potremmo metterli quasi agli antipodi rispetto ai boy’s love giapponesi. Sia per la differenza di tipo di pubblico, sia per l’aspetto dei personaggi, sia per il genere di storie raccontate. E questo tanto per dire che ci sono davvero anche nel fumetto mille sfaccettature diverse dello stesso genere.

E parliamo di genere, allora. Ma non di quello prettamente fumettistico. Di recente abbiamo portato in Italia una storia molto particolare, il cui titolo dice già praticamente tutto. G.I.D. Gender Identity Disorder è una storia scritta e disegnata da Yoko Shoji, in cui la protagonista non scopre ‘semplicementé di avere un orientamento sessuale differente, bensì fin da bambina non trova una corrispondenza fra quello che lei vede nello specchio, una femmina, e quello che lei è sicura di essere, un maschio. La storia in questo caso racconta il vero tormento di chi si trova in questa situazione, con le mille difficoltà del caso sia all’interno della famiglia, sia nella società: oltre alla strada (tutta in salita) del doversi accettare, esiste anche quella di un aspetto fisico, che è la percezione altrui nei tuoi confronti, e che è necessario affrontare in ogni singolo istante della giornata. Un tema poco spesso trattato a fumetti, che diventa ancora più importante se pensiamo alla sua origine nipponica, un paese che fa di tanti stereotipi e delle regole preimpostate una filosofia di vita comunemente accettata. Essere così diversi in Giappone è probabilmente più difficile che in ogni altra parte del mondo, in un certo senso: una società evolutissima e allo stesso tempo estremamente “inquadrata”, che delega alle singole persone una sorta di auto-controllo e auto-repressione, causando forse ancora più conflitti interiori.
L’opera di Yoko Shoji punta soprattutto all’aspetto psicologico della questione, sfociando per ovvie ragioni nella questione medico-anatomica.

Ma in altri fumetti il tema della transessualità viene spesso trattato con un’ottica ludica, senza alcuna implicazione di carattere realistico. Il nostro Roberto Baldazzini, uno degli autori dell’erotismo italiano più apprezzati nel mondo, è il portabandiera di questa tematica su un fronte prettamente fantasioso ed estremamente easy. Le sue celeberrime e surreali “donne col pisello” sono entrate a far parte di un immaginario porno-ludico maschile eterosessuale, a dispetto del tanto millantato machismo italiota. Questo perché Baldazzini ha fatto fare al genere (fumettistico e sessuale) una capriola all’indietro con doppio avvitamento. Se vogliamo, ha travalicato con un passo da gigante il confine che i boy’s love giapponesi non scavalcheranno mai, in quanto più simili a romanzi rosa che a produzioni di carattere erotico. In volumi come Casa HowHard – Intimità, Baldazzini ha dotato tutte le femmine di membri di ogni dimensione e forma, eliminando così con un colpo di spugna dalle vignette qualsiasi personaggio dall’aspetto maschile, arrivando così a chiudere il cerchio sulle fantasie che gli uomini eterosessuali – senza avere il coraggio di ammetterlo – hanno sui rapporti saffici. Poi ha calcato ulteriormente la mano con Beba, anche se in questo caso il personaggio principale diventa decisamente un ‘oggetto sessualé capace di cambiare sesso a seconda delle necessità, e con situazioni talmente grottesche che esulano di qualche chilometro dal nostro discorso.
Tanto per avere un quadro completo sulla “sessualità fantastica”, comunque, chi si mette ancora meno problemi è Shinichi Hiromoto, che rimescola ulteriormente le carte e non si pone alcun problema di orientamento o genere, con una faccia tosta e una leggerezza davvero invidiabili. Nei suoi trashissimi Violent Runner Vibrator e Sex Machine interviene addirittura la tecnologia: i mezzi di trasporto del mondo inventato da Hiromoto funzionano (secondo un topos ben coltivato nella fantascienza hard nipponica) a energia orgasmico-sessuale, che il pilota stesso deve fornire continuativamente. La protagonista, una ragazzina di buona famiglia che pero’ fa la ribelle, è proprietaria di un androide-motocicletta di sesso maschile, che lei ‘cavalcà fornendogli potenza penetrandolo con un assurdo membro artificiale: letteralmente capovolta ogni situazione, non capiamo più qual è il dritto e il rovescio.

Torniamo un attimo coi piedi per terra.
Nessuno qui sta affermando che da domani – come dice Benigni in un suo celebre spettacolo – sarebbe auspicabile unicamente la regola “o’mini, donne, cani, gatti, zucche, basta che la si goda!“.

Pero’, dato che il mondo è bello perché è vario, sarebbe ora di iniziare a mettere da parte due o tre preconcetti che derivano da modi di pensare vecchi e superati, che tentano di trasformare la sessualità in tabù, proprio mentre tutto intorno il sesso-fast-food dilaga. Nella cattolicissima Italia, nessuno s’indigna per il continuo passaggio in TV di modelli umani negativi come tronisti e letterine, la vera pornografia del nostro tempo (ma in compenso fa scandalo il culo umoristico di Bulma in Dragonball): con queste premesse di ‘dannosa normalità, rigurgitate in continuazione nelle nostre case dal tubo catodico o in strada dai cartelloni pubblicitari, è difficile disabituarsi dal malcostume di considerare la ‘innocua diversità un qualcosa da accettare serenamente una volta per tutte.
Discutere serenamente della sfera sessuale sarebbe la soluzione più sensata (e sensibile), cercando ogni tanto di ascoltare l’altro, invece di tentare di sovrastarlo con le proprie incrollabili convinzioni.
Basterebbe rendersi conto della varietà di differenze sui generi e sugli orientamenti sessuali, in tutte le sfumature possibili e immaginabili, per capire che in realtà ormai è proprio l’eterosessuale la vera e propria minoranza etnica in via d’estinzione: è anche per questo che la saga di Gente di Notte dei miei colleghi De Giovanni & Accardi è ormai pubblicati in mezza Europa, mentre l’etero-nerd Lambrusco & Cappuccino mio e di Liani non è mai uscito dai confini italiani. Invidia? Moltissima, ma bilanciata da altrettanto apprezzamento. Il mondo va avanti, non sta ad aspettare che noi ci adeguiamo.
Quando questo verrà accettato comunemente, potremo finalmente parlare dell’argomento senza troppe ansie. O anche non parlarne, a quel punto. Penso per esempio a tutto il tumulto interiore di qualcuno che teme l’outing come la peste, e che magari preferirebbe tenere qualcosa solo per sé.
Perché la sfera sessuale è, tutto sommato, qualcosa di molto personale e molto privato, di cui è un bene discutere in generale, ma in cui nessuno ha il diritto di mettere bocca quando si sta per entrare nella sfera privata delle singole persone.
In definitiva, sono fatti nostri.
O no?

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