Fabrizio Liuzzi, sceneggiatore, nasce a Taranto nel 1980 e fin dall’infanzia si appassiona al mondo del fumetto. Dopo la laurea in sociologia fonda l’associazione culturale Il Regno delle Arti, per promuovere corsi, laboratori e iniziative legate alla narrazione e alla conoscenza del fumetto. L’esperienza conduce poi alla creazione di LABO con cui realizza alcune fanzine e crea un gruppo di lavoro in cui rientrano anche i disegnatori Gabriele Benefico, Gianfranco Vitti e Nicola Sammarco. Nel 2012 esordisce a livello professionale quando Delitto d’autunno, prima avventura de Le indagini di André Dupin, vince il Lucca Project Contest e viene pubblicata da edizioni BD. La serie, creata insieme a Vitti e Benefico, avrà poi varie incarnazioni fino al definitivo approdo presso Lavieri Edizioni (due volumi finora, usciti nel 2017 e 2018). Nei primi mesi del 2019 arriva anche il suo nuovo lavoro, Basquiat: About Life, biografia del celebre pittore realizzata con Gabriele Benefico e pubblicata dai tipi di Nicola Pesce Editore.
Ciao Fabrizio e benvenuto su Lo Spazio Bianco. I tuoi ultimi lavori sono Basquiat: About Life e il secondo volume de Le indagini di André Dupin nell’edizione di Lavieri, che per gli insondabili percorsi dell’editoria sono arrivati nelle librerie a breve distanza l’uno dall’altro. Si tratta però di due lavori molto diversi, per generi, stile e soluzioni narrative. Inizierei dunque questa conversazione chiedendoti, in quanto autore, quali elementi di continuità si possono riscontrare fra loro.
Effettivamente si tratta di due opere molto diverse, ma tutto quello che scrivo riflette un po’ la mia visione agrodolce della vita, in cui non tutto finisce bene. Non mi piace il classico “happy end”, a meno che non sia strettamente necessario (penso all’editoria per bambini). Nel caso di Dupin, ad esempio, le sue “vittorie” sono sempre a metà, ogni volta c’è un elemento che resta fuori posto. Per Basquiat, invece, la biografia parla da sola e sappiamo che la sua vita è destinata a un tragico epilogo. In tutto questo abbiamo comunque voluto lasciare al lettore la possibilità di farsi la sua opinione sul personaggio, evitando ogni scelta moralista.
Il fatto che tu sia laureato in sociologia influisce sul tuo lavoro e sulla tua visione del fumetto?
Sicuramente influisce sulla mia vita: non sono un sociologo di professione, ma questa scienza mi ha davvero aperto la mente. Ad esempio mi affascina il relativismo culturale, un concetto sociologico che esclude verità assolute e permette di accostarsi a usi, costumi e valori diversi dai nostri. Credo che nella società attuale questa prospettiva si possa applicare quasi alle singole persone o ai micro-gruppi che compongono le varie realtà, perché le diversità sono tantissime. Così, ho imparato a pormi al di sopra delle parti, come un osservatore che non deve scegliere fra macro concetti come il bene e il male, sempre finemente intrecciati tra loro. Anche nell’irrealismo della storia mi piace seguire questa visione e mettere in discussione le prospettive tradizionali. Prendiamo l’esempio di Basquiat: ha vissuto solo 27 anni morendo di overdose, ma quel tempo lo ha attraversato intensamente, vivendo esperienze incredibili che molti di noi non faranno mai in una vita intera. È passato dalla povertà alla ricchezza, sviluppando la sua arte e consumandosi in conflitti interiori enormi. È stata anche una cattiva persona? Non è l’aspetto più interessante.
In questo senso mi viene da pensare che questo approccio “al di sopra delle parti” spieghi anche quella curiosità e versatilità che ti permette di approcciare storie molto diverse fra loro, come possono essere appunto quelle di Dupin e Basquiat.
È vero, ma nel conto bisogna aggiungere anche il dettaglio non secondario delle collaborazioni con i vari disegnatori, da cui sono partite materialmente le idee delle due opere. Dupin è nato da un progetto che Gianfranco Vitti aveva nel cassetto da tempo, che ha mostrato a me e a Gabriele Benefico quando lo abbiamo conosciuto. Insieme lo abbiamo convinto a presentarlo al Lucca Project Contest e gli abbiamo dato una mano a svilupparlo. L’idea in sé era molto classica, con un taglio parecchio più noir, e alla fine l’abbiamo trasformata completamente.
Quindi Dupin nasceva come un fumetto drammatico?
Oltre a essere più drammatico era in realtà anche più didascalico, uniforme, privo di quei toni di commedia che ho inserito io. Un esempio lo possiamo trovare nella storia breve Fantasmi dal passato, realizzata dal solo Gianfranco, che in effetti mantiene un’impostazione più seria.
Basquiat invece com’è nato?
Anche lì siamo partiti dall’idea di Gabriele Benefico, che ha seguito delle sue suggestioni legate alle passioni che aveva: la pittura di Basquiat, la New York anni Ottanta… ha disegnato delle tavole seguendo questi spunti, mi sono piaciute e così abbiamo deciso di sviluppare l’idea. La struttura non lineare e “dentro” la mente dell’artista è poi venuta da me.
Con questa struttura volevi anche differenziare l’opera dalle classiche biografie a fumetti più lineari? Di recente è infatti uscito anche un altro fumetto sulla vita di Basquiat.
No, anche perché quando abbiamo iniziato a lavorare sul “nostro” Basquiat non c’era nulla di già fatto o in lavorazione. Abbiamo poi consegnato il lavoro due anni prima rispetto all’uscita effettiva, che è stata rinviata per questioni interne alla casa editrice. Nel frattempo è uscito, appunto, l’altro fumetto e non nascondo che questo sia stato motivo di scontro con l’editore, anche perché il ritardo ci ha impedito di centrare il trentennale della scomparsa di Basquiat…
Soffermiamoci adesso sulle influenze artistiche presenti nell’opera: chiaramente lo stile di Basquiat è dominante, ma ci sono anche citazioni di Picasso, ad esempio…
La citazione da Picasso è frutto della documentazione sul personaggio ed è presente anche nel film di Julian Schnabel dedicato all’artista (Basquiat, uscito nel 1996, ndr), dove viene però utilizzato Guernica. Stando alle fonti biografiche più accreditate, noi abbiamo ritratto invece Les demoiselles d’Avignon, l’opera che effettivamente Basquiat vide al MOMA. La scelta era utile anche per introdurre il tema delle donne e dell’influenza che hanno avuto sulla vita dell’artista, seguendo un’iniziale impostazione “a capitoli” che poi abbiamo superato in corso d’opera. L’idea era quella di seguire vari “pezzi di vita” di Basquiat, da SAMO, alle donne, al rapporto con Andy Warhol, fino alla scomparsa.
A proposito di SAMO, il libro lascia quasi intendere che nasca come un fumetto…
Anche questo è frutto del lavoro di documentazione. SAMO inizialmente era una sorta di tag con cui Basquiat e Al Diaz volevano commentare la realtà, in modo diverso dallo sviluppo che poi effettivamente ha avuto. Il personaggio nasceva come fumetto sul giornalino scolastico al quale i due collaboravano durante l’adolescenza. Di queste origini però non restano tracce e così abbiamo ricostruito la tavola di quel fumetto seguendo la nostra ispirazione e le poche fonti a disposizione, dove si citava genericamente la figura di un prete: SAMO aveva quindi ambizioni quasi “religiose” per i due. Com’è noto il nome deriva dallo slang, significa “Same Old Shit”, secondo alcuni ispirato dalle cattive sostanze che i due fumavano, ma ha finito per avere una connotazione più filosofica e disillusa, che riflette anche qui quella componente agrodolce che citavo all’inizio. Inizialmente infatti volevamo anche usarlo come sottotitolo dell’opera, ma poteva risultare troppo scomodo in fase di promozione e così abbiamo scelto About Life.
Il fatto che SAMO sia nato come fumetto crea un livello metanarrativo, che effettivamente è molto presente nell’opera, anche nel rapporto fra la vita di Basquiat e le varie forme espressive con cui la sua figura entra in contatto (appunto la pittura, ma anche il cinema).
Sono d’accordo, non a caso nel suo viaggio Basquiat viene accompagnato dai “mostri” che ha creato e che finiscono per rappresentare i suoi demoni interiori. Anche in questo abbiamo preso le distanze dalla biografia più classica: il nostro è in fondo un racconto caotico, che riflette il senso della perdita che ha caratterizzato la fase terminale della sua vita. Questo approccio ci ha permesso anche un certo superamento delle fonti vere e proprie per lasciare spazio alle emozioni, che si legano ai ricordi e spesso sovrascrivono la realtà stessa. Per quanto ci sia alle spalle un solido lavoro di documentazione, alcune cose possono quindi non aderire completamente alla realtà, è una scelta artistica.
Il livello metanarrativo però introduce anche un altro concetto: Basquiat infatti si lamenta perché vorrebbe fare l’arte per puro amore della creazione, ma invece è costretto ad adeguarsi alle regole del mercato. In quel caso siete voi autori che “parlate” attraverso il personaggio?
È un concetto (e un conflitto) che ha effettivamente caratterizzato la vita di Basquiat: SAMO, come già accennato, nasceva dalla voglia di scardinare il mercato dell’arte, ma ne è poi diventato un simbolo di punta. Lo stesso Basquiat fu definito a un certo punto la “mascotte” di Andy Warhol, un uomo che più di tanti altri ha inventato il “marketing dell’arte”, per lo meno da un certo punto della sua carriera. La nostra visione è sicuramente aderente a questo pensiero, anche se siamo consapevoli che il sistema non si sconfigge, perché riesce sempre ad adeguarsi ai tempi e alle situazioni.
Trovi dunque impossibile trovare un ambito di piena espressione all’interno delle “regole” imposte dall’editoria?
Dipende dalle scelte che si fanno e dagli editori con cui si lavora: inizialmente abbiamo proposto Basquiat a varie realtà e abbiamo scelto la Nicola Pesce Editore perché lo ha accettato così com’era, laddove altre ci avevano chiesto delle modifiche. In casi estremi esiste l’autoproduzione, che pure con Dupin abbiamo affrontato per un periodo.
In questo senso possiamo vedere la fine di Basquiat come una sorta di ricercata autodistruzione per scardinare quel sé stesso artista ormai inglobato dal sistema?
A un livello prettamente storico la sua non è stata un’autodistruzione cercata, ma il frutto di un precipitare degli eventi conseguente la morte di Warhol: probabilmente Basquiat non si è mai perdonato di non essere riuscito a parlargli un’ultima volta prima che morisse, ricomponendo quel conflitto nato appunto quando lo avevano definito una mascotte. Invece, per quanto attiene il piano più strettamente artistico e autoriale, da parte nostra non c’è stata una volontà così esplicita, perché avrebbe significato esprimere un giudizio celebrativo sul personaggio che, come spiegavo prima, volevamo invece evitare. Ci interessava invece riflettere sul fatto che Basquiat ha avuto tutto, ma è morto da solo e la ciclicità degli eventi è sottolineata dal fatto che la storia inizia quando lo troviamo nel suo appartamento, da cui usciamo nell’ultima tavola per tornare fra la gente di New York. La sua vita straordinaria è finita, ma il mondo va avanti indifferente, è sempre il “Same Old Shit”!
Da qui emerge un altro elemento comune alle storie di Basquiat e Dupin: l’importanza del contesto e della città. Taranto in Dupin e New York in Basquiat.
Certamente, è un elemento fondamentale. Nel caso di Basquiat è importante anche la contestualizzazione temporale, le atmosfere degli anni Ottanta e la musica dell’epoca. Alcuni passaggi sono raccontati attraverso i testi delle musiche dei New Order e nella storia compaiono cantanti come Madonna e David Bowie.
Come forte elemento di differenza tra le due opere c’è invece il lavoro sui dialoghi: molto presenti in Dupin e quasi assenti in Basquiat. Con quale dei due approcci ti sei trovato più a tuo agio?
I dialoghi sono la parte più difficile di una sceneggiatura, perché devono essere realistici e ogni personaggio deve “parlare” in maniera differente, quindi il lavoro compiuto su Dupin è sempre una bella sfida. Chiaramente nel caso di Basquiat il mio apporto rischia di “vedersi” meno, anche perché molti pensano che sceneggiare significhi essenzialmente scrivere dialoghi, ma in realtà c’è tutto un lavoro sulla struttura non meno faticoso e complesso. Con Gabriele abbiamo lavorato a stretto contatto, la sceneggiatura è sempre stata “mobile”, scrivevo delle idee e abbozzavo varie ipotesi di tavola in modo da offrirgli delle possibilità fra cui scegliere. Inoltre lavorare su una struttura che non ha una gabbia predefinita portava a continui cambiamenti che in sé hanno rappresentato un’altra bella sfida.
La scelta della tricromia invece a cosa è dovuta?
È esclusiva di Gabriele, che in questo modo voleva suggerire l’idea del colore senza realizzare effettivamente un “fumetto a colori”. Inoltre nel film Downtown 81, lo stesso Basquiat affermava di voler dipingere New York “di nero e di rosso”, quindi si è trattato pure di un omaggio che rientra nella vasta opera di documentazione che abbiamo condotto.
Tornando invece alla struttura più classica di Dupin, raccontami come nasce una sua storia.
In genere ci riuniamo per buttare giù delle idee, quindi il plot nasce dall’apporto collettivo. Il fatto che Dupin sia pensato in un’ottica seriale offre numerose possibilità: hai una prospettiva di lungo periodo che permette di inserire elementi da sviluppare in seguito, anche se poi le singole avventure restano autoconclusive. Allo stesso tempo è fondamentale mantenere la coerenza dell’opera, pur facendo evolvere i personaggi.
Ma, sempre in un confronto con la libertà che citavi in Basquiat, la serialità non rischia di “addomesticare” l’inventiva, costringendo a soluzioni meno estreme?
In realtà non è un problema legato alla serialità in sé, ma al tipo di fumetto: Dupin ha sicuramente un’impostazione tecnicamente molto tradizionale, con una gabbia ben definita e una struttura lineare, ma la prima storia inedita che ho scritto per Lavieri e che compare nella seconda uscita (Un messaggio per Agata) ha delle connotazioni stilistiche diverse, anche perché nelle storie brevi, inserite a compendio di quelle più lunghe in ogni volume, è possibile mantenere un certo margine di sperimentazione in cui posso far emergere di più la mia personalità.
In tutto questo resta quindi forte il concetto di identità, che hai sempre cercato di preservare anche nei corsi e negli eventi che hai portato avanti con LABO, formando nuove leve. Mi interessa quindi il tuo pensiero non come sceneggiatore, ma come insegnante. Su Taranto in effetti sei uno dei decani della formazione.
Sì, ma non mi sento un caposcuola, per quello occorrono una personalità e uno stile forti. D’altra parte la scena tarantina, pur contando vari talenti, non ha mai espresso uno stile definito, come accaduto ad esempio con la scuola salernitana. Quindi ho cercato più che altro di favorire l’espressione del talento, anche perché oggi il fumetto popolare spinge verso una certa omologazione, pur con tutte le dovute eccezioni.
Il futuro invece cosa prevede?
Al momento ci sono delle idee in ballo. L’unica certezza è il terzo volume di Dupin, che probabilmente salterà purtroppo l’appuntamento annuale a causa di altri impegni di Gianfranco Vitti. C’è poi una nuova biografia a fumetti, stavolta su commissione, sempre con Gabriele Benefico. Un altro settore su cui mi sto muovendo è infine quello dei racconti illustrati per l’infanzia, che riesce a mediare fra la mia esigenza di “scrivere per immagini” e la voglia di continuare a raccontare storie. Sono tutte ipotesi che dovrebbero permettermi di affrontare nuove sfide, aprendo la mia produzione al confronto con nuove possibilità.
Intervista realizzata a Taranto il 25 giugno 2019