Paola Barbato nasce a Milano nel 1971. Scrittrice e sceneggiatrice di fumetti, fa il suo esordio su Dylan Dog nel 1998 con l'albetto di Groucho Il cavaliere di sventura, diventando presto uno degli autori di punta della serie. Nel 2006 viene pubblicato Bilico, seguito nel 2008 da Mani Nude (vincitore del Premio Scerbanenco di quell'anno) e Il filo rosso nel 2010. Nel 2008 realizza insieme a Stefano Casini il Romanzi a fumetti Bonelli Sighma, mentre nel 2016 collabora con Corrado Roi per la miniserie UT, anch'essa pubblicata da Sergio Bonelli Editore.
Nel 2009 ha co-sceneggiato per la Filmmaster la fiction Nel nome del male con Fabrizio Bentivoglio, trasmessa da Sky nel giugno 2009 per la regia di Alex Infascelli. Nel 2011 inizia sul web la pubblicazione di Davvero. Quest'anno ha collaborato con Sergio Cavallerin per il volume Volti.
In questa intervista approfondiamo il suo rapporto con l'Indagatore dell'incubo.
A lungo si è pensato a un Dylan Dog indissolubilmente legato a Tiziano Sclavi. Per te è ancora così nelle “fondamenta” del personaggio? Come ci si muove nell'equilibrio tra ciò che Dylan Dog è nella interpretazione del suo “padre” e quello che di personale un autore cerca sempre di mettere nelle sue opere?
Non so se si possa parlare di “interpretazione”. Forse è un termine applicabile ai disegnatori, ma noi sceneggiatori non abbiamo scelta. Dylan è un personaggio ma è anche una persona. Le linee caratteriali Tiziano non le ha tratteggiate, le ha scavate nella pietra, estraendole direttamente da sé. Dylan è. Il suo carattere è definito, lascia poco margine, non ci sono elasticità apprezzabili. Nella circostanza X Dylan si comporta nel modo Y. È un fatto, non un'opinione. A noi non resta che conoscerlo a fondo e imparare a muoverci con lui. Possiamo collocarlo in qualunque frangente, in qualunque universo, scaraventargli addosso qualunque cosa, ma lui resta lui. Non si prescinde da Dylan, e quindi non si prescinde da Tiziano.
Dylan Dog è stato un fenomeno artistico, editoriale e sociale. Nel suo periodo di maggiore successo è stato protagonista di pubblicità, merchandising, ha generato bizzarri epigoni, è stato ospite di riviste a larga diffusione. Sembrava che tutti leggessero Dylan Dog. Come ci si approccia a un personaggio e a un fenomeno del genere senza esserne schiacciati? Fa paura scrivere Dylan Dog?
Certo che fa paura. All'inizio non me ne sono resa conto, ed è stata la mia fortuna. L'incoscienza mi ha accompagnata per diversi anni a causa di una deformazione di percezione tipica dei lettori (oggi va tanto di moda dire dei “nerd”): io leggevo Dylan in una certa maniera e quindi il “mio” modo per me era universale. E, visto che ero una lettrice schiva che bazzicava pochissimo forum ed eventi, non ho avvertito il peso del fenomeno, perché esso non aveva influenza su di me. Sono stata informata dopo, a cose fatte, ad albi usciti, e il senno di poi è arrivato dopo tempo massimo. La soluzione che mi sono trovata, dopo anni di ansia da prestazione, è stata quella di tenere conto soprattutto del parere di pochi (ma buoni, che è un eufemismo). Tanto non piacerò mai a tutti i lettori, ho un tipo di scrittura che da sempre spacca, non unisce. Cerco di essere onesta, coerente, fare il meglio che posso e farmelo bastare.
Qual è l'idea centrale del “tuo” Dylan Dog e cosa lo rende immediatamente riconoscibile e unico?
Ogni autore ha una visione propria del personaggio, e questa visione è (e deve essere) inevitabilmente unica. Di Dylan ho sempre colto l'umanità in tutte le sfumature (anche quelle deteriori) che Tiziano disseminava in infiniti dettagli nei suoi albi. Questa sua umanità, questa sua preziosissima fallibilità, mi ha sempre attratta, anche quando non mi piaceva e personalmente l'avrei contrastata. Cerco di coltivarla come un humus fondamentale e sì, le sue debolezze sono un elemento che nei miei albi non manca mai. Perché la grande forza del personaggio sta nel suo non essere un eroe.
Sei entrata nel team di sceneggiatori della serie nel 1997. Come è cambiato da allora a oggi il tuo approccio e la tua interpretazione del personaggio e delle tue storie? Com'è maturato il tuo modo di scrivere Dylan Dog e farlo come ti ha influenzato negli altri tuoi lavori?
Difficile da dire. Il mio approccio è sempre lo stesso, il mio rapporto con il personaggio anche, l'amore e il conflitto. Negli anni ho affinato la tecnica, ho limato alcuni errori, sicuramente ne ho inventati di nuovi. Cerco di non “riconoscere” mai niente nelle mie storie. Non rivendermi idee già proposte (almeno non consapevolmente), non clonare personaggi o situazioni, nei limiti del possibile cerco di sorprendermi. È complicato, sono il più esigente dei lettori, non mi faccio sconti. Ci provo. A volte ci riesco, altre no.
Nelle tue storie assistiamo spesso a una destrutturazione del personaggio, dalla quale emergono le sue fragilità. Ritieni che questo possa contribuire al processo di identificazione del lettore?
Credo che la debolezza di Dylan sia la sua forza, l'ho sempre detto. Ha accorciato la distanza dal lettore, che non lo ammira solo ma sa di poter aspirare a essere come lui. L'identificazione in Dylan è, a mio parere, la chiave del suo successo. Ha espresso dubbi e tormenti che appartengono a tutti, e lo ha fatto in una maniera disarmante. Tanto da toccare anche me, e glielo riconosco.
C'è qualcosa che cambieresti in Dylan Dog e qualcosa a cui non rinunceresti mai?
Non è possibile cambiarlo. Non si cambiano le persone. Poi che io non sia d'accordo con lui, che qualche volta voglia scuoterlo e dirgli di smetterla di arrovellarsi su tutto, che gli auguri un po' di leggerezza è inevitabile. Ma gli voglio bene così com'è.
Che ruolo ha avuto Dylan Dog nella tua vita?
Non ne ha avuto uno solo. Il più importante è stato ovviamente quello di darmi una stabilità, una direzione, un percorso. Ma prima, quando “Dylan Dog” e “professione” non erano nemmeno due parole avvicinabili, mi ha tenuto compagnia e, come credo sia avvenuto a molti lettori, mi ha fatta sentire meno sola. È una cosa che mi era successa solo con Stephen King, quel senso di familiarità, il presentarsi al lettore come uno specchio e non come un'immagine da rimirare. Dopo, una volta imparato a camminare insieme (se non all'unisono almeno non scoordinati) è stato una costante, una presenza vera, reale, che va al di là del fatto che lui non esista e io sì (o il contrario). C'è, per me. E sa che io ci sono per lui.
Dylan è sempre stato un personaggio con una forte aderenza al sociale, le sue storie spesso si sono fatte carico di messaggi sui diritti, l'uguaglianza, la pace, il rispetto per gli animali… Questo pone l'attenzione sul tema della responsabilità dell'autore nei confronti delle sue opere. Cosa significa per te questo tema, in particolare per Dylan Dog?
La responsabilità non sta solo nei temi, sta nel rispetto di un universo in perenne movimento eppure in equilibrio, e di questo equilibrio fanno parte anche i messaggi, che sono di Dylan come di Tiziano. Se non li condividi semplicemente non li tratti. Se li tratti lo devi fare con la testa di Dylan non con la tua. Se poi le due cose coincidono meglio. Certo, è sempre come maneggiare il plutonio.
Rendere l'orrore è difficile. La paura, l'irrazionale. Ci sono tante sfumature del genere in Dylan, commistioni. Lo stesso genere è cambiato molto dagli anni Novanta a oggi. Cosa significa scrivere un fumetto horror oggi? Come evolve Dylan Dog in questo?
Tutti abbiamo paura. Di cose sempre diverse e sempre uguali, lo stesso mostro indossa infinite maschere. Soprattutto negli ultimi anni la paura ha assunto sfumature più nette, marcate, evidenti. Basta guardarsi intorno per sapere ciò di cui la gente ha paura. E, analogamente, basta guardarsi allo specchio. Temiamo noi stessi, i nostri simili, i mostri che si annidano nell'apparente normalità. Le stesse cose di cui Dylan parla da sempre. Cambia il modo di raccontarle, la chiave narrativa, ma mai come ora l'orrore di Dylan Dog è attuale.
Intervista condotta via mail nel mese di agosto 2016.