Emily Ray, scrittrice horror dalla carriera non brillantissima, ha avuto un successo inaspettato grazie al suo ultimo libro, uno slasher efferato che racconta le gesta di un serial killer ossessionato dall’idea di creare una rosa perfetta. Ma le violenze raccontate nella finzione sembrano avere molti punti in contatto con dei veri omicidi compiuti da un assassino mai catturato, compresi alcuni dettagli mai resi pubblici e che nessuno, autrice compresa, dovrebbe conoscere.
È con questo problema, e con il timore delle sue possibili conseguenze, che Emily bussa alla porta di Dylan Dog; ed è da questo spunto iniziale classico ma sempre efficace che prende il via una storia che vede il ritorno alla sceneggiatura di Pasquale Ruju, autore che ha diradato le sue presenze sulla serie regolare dell’Indagatore dell’Incubo ma che si ripresenta oggi con un soggetto che pur non essendo definibile un capolavoro in senso assoluto, rappresenta per lui una delle sue prove migliori.
Forse perché per una volta sono state abbandonate le melanconiche romanticherie tardo adolescenziali o i messaggi buonisti che negli anni precedenti hanno abbondato negli albi dell’Indagatore dell’Incubo; o perché questo racconto – più che focalizzarsi su incredibili avventure paranormali e trame da horror americano – sfrutta la pur abbondante dose di orrore, e l’escamotage risolutivo finale tipicamente Dylandoghiano, per veicolare temi e argomenti più solidi, più reali, più umani.
C’è, in effetti, in questo numero, un serial killer con tanto di ossessioni personali, omicidi coreografati, grandi acrobazie e piani audacissimi; ma il suo agire diviene più un mezzo che un fine. Una metafora tramite la quale raccontare un altro tipo di ossessione, un’altra ricerca della perfezione: quella artistica, qui declinata come desiderio incontenibile al quale sacrificare tutto, ogni momento della propria esistenza, ogni pensiero, ogni azione, fino alle vite di chi ci sta intorno.
Il tutto pur di ottenere l’opera d’arte perfetta, definitiva. Opera che però, nonostante i vaghi ideali di perfezione, superiorità morale e desiderio di comunicare, molto spesso non è che un mezzo tramite il quale arrivare al successo di pubblico, alla fama, ai soldi e alle soddisfazioni delle proprie vanità, mostri non migliori di altri.
In effetti, viste le premesse, sono due le creature mostruose che vagano per le pagine di questa storia. E se uno è un assassino che decapita donne e ne smembra i corpi a colpi d’ascia, l’altro è rappresentato da quelle agenzie di ghostwriting che offrono a scrittori o aspiranti tali, a volte mediocri – ma anche a ricchi borghesi decisi a farsi scrivere la biografia della propria famiglia o la storia della propria azienda – la possibilità di avere un libro costruito su misura per loro. Libro che di fatto viene scritto da artigiani della parola che offrono la propria penna a chi vorrebbe scrivere ma non ha il tempo, la voglia, le doti, o le idee necessarie per farlo; e che in molti casi, pur essendo gli autori materiali del volume in questione, non hanno diritto di apparirvi come tali.
La pratica non è certo nuova. Nel mondo del fumetto era prassi comune non indicare gli autori di una storia con protagonista un personaggio famoso creato dall’autore X anche quando era interamente scritta o disegnata da loro; e per rimanere in ambito horror è risaputo come H.P.Lovecraft per mantenersi fosse costretto a lavorare come “revisore”, in parte correggendo e molto più spesso riscrivendo in toto racconti che poi sarebbero stati firmati da altri autori. Tale metodica può dunque dirsi niente affatto scandalosa, bensì solamente ingigantita dagli anni in cui ci troviamo a vivere. In ogni caso è bello vedere finalmente trattato tale tema, pur con tutta la superficialità di un fumetto seriale di mostri, all’interno di una storia di Dylan Dog, che dell’arte e della creatività, delle sue visioni e delle sue deviazioni, ha fatto molto spesso il centro delle sue avventure.
Valide le premesse, dunque, e buona anche la parte centrale del racconto, anche se a tratti sembra soffrire di un ingabbiamento dato dalla necessità di imbastire una trama da “detection story” che deve riempire tutte le 96 pagine dell’albo. Una trama che a tratti rallenta, si fa un po’ convoluta, si prende qualche libertà di troppo, sfrutta al massimo i trucchi tipici del fumetto seriale come le coincidenze (ad esempio il fatto che tutti i protagonisti della storia vivono vicinissimi a Bloch e tra loro, o che tutti gli elementi che compongono la trama si mettono in moto esattamente nello stesso momento consentendo lo sviluppo del racconto), e in definitiva risulta più che altro un percorso necessario per arrivare all’agognato finale, quasi un prezzo da pagare per raggiungere la verità definitiva.
Ai sui tempi d’oro, Sclavi aggirava questo problema creando surreali siparietti, storie nelle storie, e gettando nel calderone elementi all’apparenza caotici che poi, quasi per magia, assumevano un senso (quasi sempre) logico, ma che nel frattempo avevano intrattenuto il lettore senza fargli percepire la sensazione di un percorso obbligato.
In questo caso invece Ruju cerca di evitare l’ostacolo con la tecnica, e in modi più o meno riusciti. Ad esempio inserendo qualche comprimario (fondamentalmente inutile), confondendo le carte in tavola col rischio di far compiere ai suoi attori più azioni potenzialmente pericolose di quelle che sarebbe legittimo aspettarsi da loro, facendo comparire in scena un Carpenter e una Raina pregevoli nel loro essere perfettamente inseriti nella continuity Dylaniata (recenti sviluppi compresi), usando buoni dialoghi e soprattutto sfruttando molto bene le capacità della classica coppia Dylan/Bloch, che con azzeccati scambi e riferimenti alla loro storia comune e alle loro idiosincrasie riescono a mantenere vivo il racconto.
E dunque, sebbene alcune svolte di trama siano niente affatto imprevedibili, e risulti poco coinvolgente il cattivo di turno, si arriva al termine della storia con soddisfazione proprio grazie a quelle tematiche alle quali si accennava prima, e che rendono solida e adulta quello che in mani meno capaci sarebbe rimasto un semplice divertissement col mostro. Viene da chiedersi, a questo punto, quale sia il parere dell’autore a proposito dell’ossessione data dall’arte e/o dal desiderio di successo, e se il suo messaggio sia dunque un manifesto, un avvertimento, una confessione, una critica o un’affermazione di inadeguatezza o fallimento (personale o soprattutto generale). Forse tutte, forse nessuna. E in fondo non è poi così importante.
Molto belli da vedere e adatti al tipo di storia anche i disegni di Fabrizio Des Dorides, che alla sua prima prova con Dylan Dog dimostra di aver già interiorizzato e fatto suoi i protagonisti della testata e i vari comprimari, che riesce a riprodurre fin dalle prime vignette in modo personale ma nello stesso tempo fedele. Particolarmente efficaci Dylan, Groucho e Bloch, il primo dei quali è ritratto costantemente avvolto dalle ombre, con tratti affilati e dal volto perso in una oscura malinconia.
Valide le tavole, sia quelle in mezza tinta e declinate con un segno leggermente più chiaro e morbido, sia quelle in bianco e nero puro, dove un sapiente uso di neri netti, ombre e intelligenti prospettive riesce a rendere le pagine ricche di atmosfere e, dove necessario, di minaccia. Qualche incertezza nelle anatomie vista nelle pagine iniziali viene rapidamente superata, e la grande attenzione agli sfondi è un ulteriore motivo di bellezza.
Forse un po’ esagerato l’uso continuo dei neri, quasi in ogni scena, anche in quelle che dovrebbero risultare più solari e tranquille, come se in ogni momento i personaggi fossero avvolti in un’impenetrabile oscurità. Ovviamente la coerenza nello stile ha una parte importante in tutto questo, pure si ha di tanto in tanto l’impressione che si usi il massimo della potenza espressiva lì dove magari un approccio meno simbolico o oscuro sarebbe bastato. In ogni caso si tratta di piccolezze, che non rovinano un lavoro piacevole e professionale.
In definitiva, Il Macellaio e la rosa è un numero che pur non offrendo particolari innovazioni o profondità di temi e di avventure si inserisce bene nell’attuale panorama della testata, risultando un prodotto ben confezionato, nei suoi pregi e nei limiti a volte imposti dalla stessa testata, e maturo quanto basta per elevarsi dall’essere semplice avventura. Una buona prova, sia nei testi che nelle matite, che dovrebbe accontentare i numerosi fan del personaggio, e che ci sorprende mostrando un Ruju in buona forma, che speriamo di rivedere ancora a questi livelli.
Abbiamo parlato di:
Dylan Dog #382 – Il macellaio e la rosa
Pasquale Ruju, Fabrizio Des Dorides
Sergio Bonelli Editore, giugno 2018
96 pagine, brossurato, bianco e nero – 3,50 €
ISBN: 9771121580019