Joe Kubert costruisce Dong Xoai all’incrocio fra romanzo storico e memoria individuale.
Il punto di partenza sono le memorie dei superstiti del Distaccamento A-342 in missione nell’area di Dong Xoai, punto di snodo dei percorsi delle truppe del Vietnam del Nord verso il Sud, memorie che gli stessi ex soldati raccolsero nel 2009 in una sorta di diario, opportunamente proposto in coda al volume. Kubert le mette in scena con minime rielaborazioni, ma con scelte narrative che ne determinano impatto e significati.
L’approccio dell’autore appare infatti un fraintendimento piuttosto che un’ibridazione critica, risultando quindi in una composizione grafica interessante ma in un racconto che non aiuta a capire alcunché del contesto e pochissimo dei personaggi. L’uno e gli altri si riducono a stereotipi narrativi: la guerra in ambiente esotico e ostile e i soldati valorosi (l’audace capitano, il coraggioso seebee, l’indomito sergente, eccetera). Questa tipizzazione non riesce tuttavia a definire una qualche universalità, bensì smarrisce sia le peculiarità del momento storico sia l’individualità delle persone.
Lo scenario di riferimento politico, interno e internazionale, è totalmente ignorato e sullo stato delle operazioni militari in Vietnam nel 1965 affiora qualche traccia decisamente vaga: si afferma che:
“Ci sono state molte accuse di maltrattamenti ai prigionieri […]. Nel 1965 i soldati USA, rivestendo una posizione di consulenti, non sono stati direttamente coinvolti negli interrogatori“
Si tralascia il fatto che nel 1965 avviene una prima escalation importante: non solo è in pieno svolgimento l’operazione Rolling Thunder (bombardamenti massicci sul territorio del Vietnam del Nord), ma gli effettivi USA schierati passano da 13.000 a 180.000 unità.
Quello che determina il tono generale della narrazione è il linguaggio testuale scelto da Kubert, che si distanzia da quello che troviamo nelle memorie riportate e rimanda piuttosto a quello dei bollettini ufficiali o, per fare un esempio di casa nostra, a quello delle didascalie delle illustrazioni de La Domenica del Corriere.
La stessa composizione delle tavole e delle immagini (immagini sostanzialmente statiche, associate alle didascalie) ben supporta un approccio che drena via l’emozione, lasciando la retorica. Un linguaggio quindi associato alla propaganda e alla cura del fronte interno, più che alla cronaca o all’informazione. In questo approccio, la focalizzazione sugli individui si manifesta come accumulo di enunciati sul valore, sul coraggio e sulla formazione di legami, sia fra i protagonisti sia fra questi e gli indigeni. Il tutto in un contesto di missione civilizzatrice intesa come “fardello dell’uomo bianco” decisamente anacronistica e peraltro assente nelle memorie ispiratrici.
Può questa scelta essere stata determinata dal voler restituire la visione dell’America di allora?
Mentre non abbiamo indizi che sostengano questa ipotesi, la scelta di utilizzare una voce narrante non in prima persona ed esterna agli eventi fa piuttosto pensare al tentativo di comunicare una realtà oggettiva, alla volontà di staccare gli eventi narrati dal loro contesto, recidendo il legame fra storia e memoria, quasi a costituire una bolla di realtà. In questa visione, in scena è la memoria stessa dei protagonisti, calata negli eventi e da loro rivissuti come pezzi della propria vita. Quindi, una visione da dentro e non da fuori, non interessata a una lettura critica, ma solo a meglio definire la propria identità individuale, di cui è componente fondamentale (sincera, desiderata, pretesa?) l’innocenza.
Perché, a ben leggere, proprio l’innocenza è la caratteristica fondamentale del racconto di Kubert. Nelle pagine di Dong-Xoai, il senso della spedizione in Vietnam è quello di una missione civilizzatrice: dei bravi ragazzi statunitensi si trovano in una giungla malsana, in mezzo a un popolo primitivo con usanze superstiziose, che l’uomo bianco ha la possibilità di aiutare, portando la scienza e la tecnologia. Non c’è il tentativo di mettersi dalla parte dell’altro, sia esso il nemico o l’alleato. I protagonisti sono soldati, hanno un obiettivo e combattono per raggiungerlo. Hanno armi e medicine, devono coordinarsi con alleati riluttanti e sfuggenti e conquistare il cuore e la fiducia degli abitanti. Sono trascinati e travolti dalla storia e, nella ricostruzione di quegli eventi, l’obiettivo è recuperare il vissuto quotidiano. Non ci sono domande che possano mettere a disagio, non è un’indagine su se stessi: è la conferma del desiderio di aver agito bene, dove “bene” significa, secondo quello che sapevamo allora”.
In quest’ottica, Dong Xoai è allora un testo privato inopinatamente reso pubblico, a meno che il narratore non consideri quelle memorie significative ed esemplari; in tal caso, il punto centrale diventerebbe proprio il recupero di quella innocenza che esisteva ancora (ma poteva ancora esistere?) nell’autorappresentazione dell’America e degli americani del 1965.
Abbiamo parlato di:
Dong Xoai, Vietnam 1965
Joe Kubert
Traduzione di Matteo Mezzanotte
Bao Publishing, 2013
176 pagine, cartonato, bianco e nero – 18,00 €
ISBN: 9788865430446