Camminando per le strade di Berlino, prima dell’Orrore
Credo che sul mio gusto personale di lettore gravi principalmente un fatto: non sono mai riuscito ad appassionarmi davvero a ciò che è consigliato, caldeggiato, suggerito – quando non addirittura imposto – per un imperativo morale. Forse è per questa ragione che soltanto in età adulta ho iniziato ad apprezzare le grandi storie ispirate dai conflitti mondiali, dal dramma assurdo della Shoah, dal dolore dei popoli oppressi dai totalitarismi. Sia chiaro: non mi sogno nemmeno da lontano di mettere in discussione l’urgenza della sfida educativa che l’istruzione di ogni ordine e grado deve raccogliere su questi temi, soltanto sento di annotare su questo mio diario di bordo, quanto sforzo sia stato necessario per mettere in sintonia – entro i confini del mio mondo emotivo di lettore – la libertà del mio percorso personale con il dovere di affrontare tutto ciò che l’Arte ha prodotto per non dimenticare. Pure apprezzando tutta la drammatica serietà dell’ispirazione di tante tra queste opere, non posso non ammettere di provare verso molte di esse una forma di rispetto che è del tutto priva del viscerale coinvolgimento che meritano.
Il Fumetto ha però un ruolo speciale rispetto a tutto questo: il narrare per immagini disegnate è di per sé un sublime atto di Memoria, ricordare attraverso il tratto specifico di un artista è già rielaborazione storica, meditazione, celebrazione. Il Fumetto inoltre, se da un lato per molti sembra ancora doversi smarcare da un retaggio di puro intrattenimento, dall’altro ha forse una via privilegiata nella capacità di alloggiare in modo naturale nei ricordi di chi legge, in ciò che è più fanciullo e primordiale, di incastrarsi perfettamente nel concetto di quella leggerezza di calviniana memoria che non banalizza il concetto, ma lo apre perché chiunque possa accedervi.
Così dopo l’epico sforzo di Art Spiegelman(per nominarne uno su tutti) e del suo indimenticabile Maus, capace di raccontare con un tono irripetibile il dramma dell’Olocausto, Jason Lutes consegna ai lettori dopo vent’anni di lavoro e ricerche la fine di Berlin, monumentale opera in tre volumi nata col proposito di raccontare la capitale tedesca durante gli anni che immediatamente precedettero l’avvento del nazionalsocialismo e dei suoi orrori. Nelle righe che seguono c’è il mio tentativo di condividere con voi i pensieri che ho annotato durante la lettura del volume integrale pubblicato da poco da Coconino Press.
Sin dalla prima volta in cui ho preso tra le mani il poderoso volume che racchiude l’opera(originariamente pubblicata in tre volumi), la sensazione è stata quella di avere a che fare con una produzione dal livello di dettaglio maniacale, un groviglio intenso di storie, un feuilleton dei nostri giorni espresso secondo gli stilemi fumettistici della scuola franco-belga. L’autore non ha mai nascosto la preponderante influenza dello stile di Hergé sul suo disegno, e lungo le ben seicento pagine della storia di Berlin si assiste – nel susseguirsi di immagini dal tratto preciso e modulato con estrema parsimonia – ad un autentico omaggio alla ligne claire. Il continuo alternarsi di campi lunghi e medi con le mezze figure e i primi piani mette in luce tutta l’ampiezza dell’intento narrativo di Lutes: Berlin non è soltanto la risultante dall’intreccio delle vite dei suoi personaggi, ma anche e soprattutto uno sguardo drammaticamente lucido sui fasti e le ombre della Repubblica di Weimar, promuovendo la capitale tedesca a coprotagonista viva e pulsante della storia. Lo stile di Lutes, perlopiù uniforme dal punto di vista stilistico lungo il corso dell’opera, non manca di evolvere verso una precisione sempre maggiore, e il disegno sembra accompagnare l’autore(vent’anni!) in una crescita che illumina di lucidità sempre più acuta il suo sguardo verso un segmento del Ventesimo Secolo capace di sintetizzare tutte le fragilità dell’uomo moderno.
Ma questa non è una recensione, tantomeno la disamina critica di tutti i meriti artistici di Berlin. Questa è la pagina di un diario. Qui sono raccolti i pensieri di un lettore, nulla di più. Qui però c’è anche l’umile ma accorato invito ad accostarsi ad un’opera che, con uno sguardo puntato su un passato non troppo remoto, ha molto da dire sull’oggi e sulle sue contraddizioni.
Ritengo che sulla lettura in chiave politica di Berlin sia stato già detto tutto: inutile ripetere ancora quanto Jason Lutes sia stato abile nel fotografare i vari stadi attraverso cui il linguaggio dell’odio sia capace di innervare, laborioso e strisciante, le piccole storie quotidiane di cittadini comuni, creando nel piccolo le premesse ai grandi drammi della Storia dell’uomo. Ed è inutile ripetere della sua straordinaria intelligenza, nell’intercettare in quali infinità di forme gli errori di ieri rischino di ripetersi oggi. La verità è che tutte queste considerazioni rischieranno sempre di essere bacate da un subdolo vizio di forma se dimenticassimo che lo sguardo impietoso dell’autore riguarda noi. Noi comodamente convinti di essere dalla parte dei buoni, noi quando guardiamo con sufficienza verso chi abbocca agli slogan di ieri e di oggi, noi quando riteniamo di aver capito di più ma che non riusciamo a condividere nulla dei nostri pensieri fuori dalle catacombe del nostro salotto buono.
La borghesia di Weimar fotografata in Berlin, anche quella più illuminata, è drammaticamente smarrita. Sognatrice, inseguitrice del buono e del giusto, vivace nel suo sguardo raffinato verso la Bellezza, eppure tristemente fallimentare al momento di lasciare un solco nella società. Berlin per me è stato questo: una meravigliosa tragedia a fumetti sullo smarrimento impiantato dall’enigma che è in ciascuno di noi.
La Berlino di Weimar, a ben vedere, non era un coacervo di beceri inneggiatori all’odio. La Berlino di allora era una città certamente piagata dalla miseria, ma anche vivacemente animata da un inestinguibile spirito di ricerca. Straordinario come Jason Lutes sia stato, nel corso della trama, capace di fotografare a tutti i livelli infiniti archetipi di ricerca di senso: nell’amore, nell’arte, nella fede, nella battaglia politica. Non voglio fare esempi concreti, mi sono imposto di non anticipare nulla, vorrei tanto che alla fine di queste poche righe chi legge abbia desiderio di scoprire le vite narrate in questo straordinario romanzo.
Parlavo di tragedia, appunto. Perché sappiamo tutti quale fu il triste epilogo di quel tratto di Storia. Lutes racconta
in un’intervista di aver iniziato a meditare sulla Seconda Guerra Mondiale quando il suo insegnante di Storia lasciò la sua classe a guardare un video in cui un mezzo meccanico ammassava i cadaveri di un campo di sterminio. Curioso che proprio lui, che iniziò il suo viaggio con modalità tanto spiccatamente emotive, abbia preferito alla definizione di artista quella di ingegnere. Alludeva con ogni probabilità all’approccio scientifico ed equilibrato attraverso cui ha progettato e intessuto l’intero telaio della sua storia. Ma la storia di Berlin non è solo una tessitura organica e precisa. Berlin è piuttosto la narrazione del dramma che incombe su ogni nostra scelta e ogni nostro tentativo di lottare, e tanto equilibrio ha saputo evitare che neanche in una sola vignetta si presentasse lo scivolone della retorica.
Ma quello di Lutes è solo pessimismo? C’è solo sfiducia nell’uomo a valle della lettura di questa storia? Personalmente non riesco proprio a leggerla così. In Berlin si concretizza la straordinaria capacità dell’Arte di trasfigurare in bellezza perfino i tratti più sinistri dell’animo umano. Berlin è il racconto del dramma della miseria, dell’odio, della sconfitta. Ma è anche la bellezza della giovinezza, l’amore per l’Arte, il calore di un incontro tra innamorati nel buio di una solitaria notte di neve. A pieno titolo Berlin è anche una ennesima e forzuta dimostrazione delle possibilità artistiche del Fumetto.
In tutto questo non c’è solo la coltre funerea del fallimento: c’è un rigoglioso canto all’Umanità e alla Vita.