Dentro Dogmadrome: intervista a Lorenzo Mò

Dentro Dogmadrome: intervista a Lorenzo Mò

Al Salone del Libro di Torino 2019 abbiamo intervistato Lorenzo Mò, autore e ospite di Eris Edizioni, per farci raccontare qualcosa sul suo fumetto recentemente uscito.

Lorenzo Mò nasce in una calda notte d’estate del 1988. Inizia a guardare i cartoni animati quando è ancora molto piccolo. Appena scopre che non potrà mai essere uno di loro decide di darci dentro con i fumetti e creare dei personaggi tutti suoi. Ha collaborato con LÖKzine, Canemarcio, Lucha Libre, B Comics, Prismo, Sciame, Linus. Una delle cose che gli piace di più è fare lunghe passeggiate in campagna e immaginare storie lunghissime.

Ciao Lorenzo e grazie della disponibilità!
Ciao e grazie a voi!

Per quale motivo hai deciso di fondere lo spirito dei giochi di ruolo e i mezzi operativi del fumetto per creare un’opera ibrida: la passione smisurata per entrambi i campi, la volontà di sperimentare o ambedue i fattori?
Volevo fare qualcosa legato ai giochi di ruolo, perché il periodo in cui io, mio fratello e i miei amici giocavamo è un periodo a cui sono particolarmente legato. Al tempo stesso volevo realizzare un racconto fantasy legato a qualcosa di reale e creare un cortocircuito, cosa che spero di aver fatto, attraverso i nomi: un mastino della guerra di nome Fede, un incantatore chiamato Gianni e un folletto chiamato Edo, all’interno di un mondo fantasy con influenze cyberpunk. Anche il modo di comunicare è completamente avulso da un normale fantasy, quindi in sostanza si viene a creare un contrasto tra quello che è il contenuto e il linguaggio. Ero interessato a mostrare il master come un demiurgo che riesce a plasmare il mondo all’interno del quale i giocatori si muovono e vedere come sarebbe stato se un amico d’infanzia avesse preso questo ruolo.

Il rapporto tra realtà e finzione è uno dei temi fondamentali del tuo libro. Quanto pensi sia diventata sottile la barriera tra realtà e finzione in un mondo in cui si è costantemente pervasi da narrazioni di fantasia e immaginari irreali e a cosa credi sia dovuto questo assottigliamento?
Penso sia dovuto allo sviluppo del web e a quanto noi siamo all’interno di Internet. Il continuo bombardamento di serie televisive, di videogiochi e anche di fumetti, è stato portato all’esagerazione e questo ha come conseguenza l’assottigliamento della sfera del reale e della sfera della finzione. Molte volte, secondo me, quello che facciamo su Internet non pensiamo abbia delle conseguenze nella realtà, perché sembra un mondo parallelo: noi pensiamo sia solo qualcosa di virtuale e che una volta usciti di lì finisce, ma non è così. È qualcosa che continuerà ad evolversi e che avrà risvolti interessanti nei prossimi 5/10 anni.

Il potere della narrazione è l’altro tema cardine dell’opera, che si lega anche al ruolo della condivisione, sia di un’avventura da parte di quattro amici sia di una storia vera e propria raccontata da un master. Ritieni che nel contesto attuale, nel quale il peso del giudizio immediato del pubblico è aumentato a causa dei social e le distanze tra autori e lettori sono diminuite, sia più facile condividere i propri contenuti o più difficile?
A una prima analisi potrebbe sembrare più facile, perché, ad esempio, una persona ha a disposizione la chat e può parlare liberamente. Però forse i social network presentano ancora dei filtri, quindi poi il confronto a tu per tu, con le interviste o con gli incontri, approfondisce meglio questo tipo di discorso.

In Dogmadrome hai dimostrato un uso della lingua sprezzante, che rende in maniera efficace il gergo giovanile quotidiano, avvicinandosi quasi all’uso che ne faceva Andrea Pazienza. In che modo hai lavorato sul linguaggio utilizzato dai personaggi?
Il modo di comunicare arriva dalle campagne di Dungeons & Dragons che facevo con mio fratello e i miei amici e poi anche di un gioco a tema supereroi che avevamo inventato noi, perché D&D aveva troppe regole. Il linguaggio era quello: innanzitutto, per far prima, ci si chiamava con i nostri veri nomi e questo è rimasto dentro Dogmadrome, diventando così un modo per banalizzare i personaggi; in secondo luogo, il dire le parolacce fa capire al lettore che c’è questa specie di scarto tra quello che vede e quello che loro sono realmente, ovvero dei ragazzini che parlano come fanno ogni giorno. Inoltre i protagonisti, nella loro natura di giovani adolescenti, parlano citando quello che hanno visto o letto, quindi film, libri e anche videogiochi.

La costruzione delle tavole di Dogmadrome risulta particolarmente strutturata, meditata. Cosa ti ha spinto a utilizzare quasi sempre la gabbia a sei vignette?
Anche questo l’ho pensato per creare un contrasto: volevo creare qualcosa che fosse perfettamente ortogonale, in contrapposizione con il disegno morbido, colorato e il più esplosivo possibile. Cercare di tenere tutto in una gabbia molto regolare mi ha dato modo di generare un senso di spaesamento

Riguardo ai disegni, chi sono i tuoi autori di riferimento o le opere che più ti hanno influenzato?
Tutto quello che mi è piaciuto da piccolo l’ho raccolto come una spugna. Prima di tutto l’animazione Disney: se ti piacciono i disegni o ti piace disegnare, di solito quella è la prima influenza che ricevi durante l’infanzia. Poi c’è la controparte demenziale della Warner Bros, Hanna e Barbera, i fumetti di Topolino di Floyd Gottfredson, che è uno dei miei autori preferiti in assoluto, Jack Kirby, Jacovitti, Akira Toriyama, Ortolani e tanti altri. C’è anche un certo tipo di animazione giapponese, in particolare lo Studio Ghibli, che mi influenza soprattutto nella colorazione.

Intervista rilasciata dal vivo al Salone del Libro di Torino 2019

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