Decifrare Promethea, quarta parte: tutto succede sempre

Decifrare Promethea, quarta parte: tutto succede sempre

La magia, l'Eternalismo e la teoria dell'universo blocco, secondo Alan Moore e J. H. Williams III nel loro Promethea, opera/saggio poco conciliante verso il lettore ma molto preziosa.

Come raccontato nelle parti precedenti di questo approfondimento, Promethea, pur presentandosi come un’opera di nicchia, è qualcosa di unico e importante per la cultura in generale. È la prova che si può realizzare un saggio di alto livello utilizzando il fumetto, fondendo narrazione, informazione e spunti di riflessione, senza sfociare nel didascalico.

Proprio grazie alle peculiarità del medium fumettistico, le informazioni possono diventare esperienziali e penetrare la sfera razionale. Il fumetto ci parla, al di là delle parole, anche con colori e immagini. Il connubio delle tre, sostenuto dal processo che si innesca nella mente nel tentativo di sintetizzarle insieme, provoca un’esperienza intellettuale ed emotiva unica che ha la possibilità di far giungere le informazioni più in profondità nella coscienza e -questa è solo una supposizione- essere foriera di più fertili intuizioni.

Un esempio perfetto di questa attitudine viene proprio dall’ultimo volume della serie, che raccoglie gli episodi dal #24 al #32 (in Italia, Promethea Deluxe #3, RW Lion), in cui, come annunciato nei numeri precedenti, arriva l’apocalisse, la fine del mondo. E, proprio come ci avevano detto Alan Moore e Promethea, questa non è altro che una “rivelazione”. Il velo sulla realtà viene tolto.

Dopo che Promethea ritorna dallo psichedelico viaggio sull’Albero della Vita, il tono della narrazione cambia completamente. Basta con le informazioni fiume e basta con le dissertazioni esoteriche (almeno per un po’). Gli albi #24 e #25 sembrano segnare un ritorno della serie alle atmosfere dei primi numeri, quelli in cui l’acqua era “poco profonda” e si tentava di non alienarsi il lettore. Ritornano tutti i personaggi messi in disparte durante il viaggio mistico nella Cabala, ritornano l’azione e le botte in perfetto stile comic book. Ma (ovviamente) è solo un’illusione. Moore è infatti intenzionato, oltre che a terminare la serie, a mettere fine all’intero universo ABC e coinvolge nella festa tutti i suoi personaggi, Tom Strong in primis.

L’atmosfera che si respira in questi albi è strana. Tutto sembra costruito, in maniera più meccanica del solito, per arrivare ad un punto preciso. Ci sono echi del suo stile seminale (cfr. Promethea #26 e un qualsiasi numero di Watchmen), momenti di dialogo tirati un po’ per le lunghe e strane forzature narrative che non si è abituati a riscontrare nella scrittura di Moore. D’altra parte sta arrivando la fine del mondo e probabilmente anche lui ne risente.

Ma qualcosa sulla pagina, e oltre la pagina, comincia a succedere. In Promethea #29, d’un tratto, l’agente federale Karen Breughel (che da tempo insieme alla sua collega Lucille Ball sta indagando sulla nostra eroina), cade fuori dalle vignette. Proprio così: mentre Promethea ha dato il via alla fine del mondo, l’agente Breughel esce dalle pagine del fumetto, presa da alcuni esseri giganteschi che sembrano la versione greco-romana dei Celestiali di Jack Kirby. Queste divinità con la tunica blu stanno sedute sopra un tetto le cui tegole sono le vignette dell’episodio che stiamo leggendo. Sul tetto è rappresentata tutta la storia, le pagine che abbiamo già letto e quello che leggeremo dopo (un effetto simile ci viene mostrato dall’inizio dell’albo, per rafforzare la sensazione reale e materica del nostro fumetto-tetto). Ecco che si svela così una doppia operazione: da una parte il lento convergere della realtà fumettistica in una realtà reale (la nostra?) e dall’altra il dispiegarsi del concetto di universo blocco di matrice einsteniana.

Moore e J. H. Williams III hanno deciso di rappresentare l’apocalisse che avanza trasformando piano piano la città intorno ai protagonisti in un immenso collage psichedelico. I palazzi e le strade disegnati vengono sostituiti da fotocopie colorate con tinte acide e fluorescenti, facendoli sembrare davvero finti. Invece Promethea e chi le sta vicino, chi è insomma vicino alla “rivelazione”, cominciano a essere investiti da una bolla che li trasforma in persone reali, resi sulla pagina con un effetto “fotografie dipinte” simile allo stile di Alex Ross (che infatti viene omaggiato con un cameo).

Dice Williams III parlando di questo processo:

Visto che i fumetti sono solitamente costituiti da disegni a matita che rivelano una storia, potevamo utilizzare alcuni aspetti di questo concetto procedendo a transizioni tra immagini realizzate in modo più sofisticato e con effetto da collage. I disegni reali sarebbero stati lievemente più morbidi e onirici, a rafforzare l’idea dei confini sfumati che separano la realtà, i fumetti e la nostra immaginazione. Tutto questo avrebbe arricchito le domande filosofiche del nostro lavoro a proposito di cosa costituisca la realtà così come la percepiamo, sfruttando il sottotesto tematico del rapporto tra il disegno e il contenuto della storia.”1

Il mondo quindi sta cambiando e con esso sembra trasformarsi anche il nostro atteggiamento nei confronti dei personaggi. Di colpo non siamo più di fronte ai Promethea, Jack Faust, Stacia Vanderveer e gli altri che abbiamo conosciuto. Viene quasi da chiedersi chi siano queste figure che impersonano i “nostri” personaggi. La sospensione dell’incredulità vacilla ma senza spezzare l’incantesimo del racconto, bensì producendone uno nuovo e sconosciuto. È difficile dire con certezza a cosa stiamo assistendo.

Le cose comunque procedono. E poco dopo che Karen Brueghel è uscita per un attimo dalla vignetta dicendo che non respira (e come si può respirare all’interno di una pagina?) e che ha paura di scivolare nel pavimento (d’altronde tale pavimento è una pagina di fumetto di carta lucida), l’appartamento in cui si trovano Promethea e i suoi amici diventa come la casa di un sogno, con un lunghissimo corridoio pieno di porte, illustrata con l’effetto realtà.

JACK FAUST: «Quello che abbiamo dentro la testa e quello che c’è fuori… ormai sono la stessa cosa. Forse è sempre stato così.»

TRISH BANGS: «Sophie… è-è tutto diverso…»

PROMETHEA: «Sì. Lo spazio e il tempo, noi, tutto il nostro mondo… tutto quanto esisteva solo nelle nostre percezioni. Ora queste percezioni stanno cambiando.»

TRISH BANGS: «M-ma, voglio dire, qui a casa. È come nei nostri sogni… è come se ora la stanza, il palazzo, fossero infiniti e ci fossero porte dove non ci dovrebbero essere…»

(…)

DENNIS DRUCKER: «L’ho fatto anch’io. Lo stesso sogno. Il sogno della casa. E-e alcune stanze sono come la casa dei miei genitori o la scuola dove sono andato…»

STACIA: «Sì. La casa… è la nostra vita, vero? È come se tutta la nostra vita avvenisse in un momento solo, con tutte le stanze messe insieme.»2

Ecco che si presenta il concetto di casa come totalità che comprende l’universo conosciuto (o per lo meno l’universo conosciuto dai personaggi di Promethea). Stacia dice che la casa è “la nostra vita”. Jack Faust che “quello che abbiamo dentro la testa e quello che c’è fuori ormai sono la stessa cosa”. E l’agente Breughel, quando cade fuori dalla pagina, scopre che le pagine di Promethea sono le tegole di un tetto. Il tetto di una casa, ovviamente.

Sembrerebbe allora che l’apocalisse messa in atto da Promethea porti il tutto verso un’iper-realtà racchiusa in una “casa”. L’esterno è la pagina del fumetto da cui ormai si può anche uscire o cadere, mentre l’interno, il profondo, è un’accogliente focolare domestico dove si svolge la vera esistenza, quella più intima e interiore, esoterica, rispetto all’altra essoterica, ovvero esterna. Le pagine del fumetto sono il tetto della casa, sono l’involucro, mentre la casa di Promethea, illustrata con l’effetto realtà, è il mondo nuovo che si sta manifestando.

Mentre ci avviciniamo alla fine Promethea, ormai totalmente immersa nel suo ruolo di Grande Madre, si siede sopra una sedia a dondolo accanto al fuoco, in attesa del sorgere del nuovo sole e a uno ad uno i personaggi della storia arrivano da lei. Fra questi c’è anche Painted Doll, l’assassino psicopatico che in quel momento prende coscienza di essere il personaggio di un fumetto.

PROMETHEA: «Ah. Sei tu. Bene. È tanto che aspettavo di parlare con te

PAINTED DOLL: «Con me? Ma… Un momento. Ma queste… ? Queste non sono le mie mani. O… o lo sono? C-che sta succedendo?»

PROMETHEA: «In un sogno è utile guardare le proprie mani. Non temere. Qui è solo dove finiscono le nostre storie. Qui accanto al focolare della nonna. Non ricordi? È sempre qui. Sempre ora. Non è mai esistito altro che questa stanza, questo focolare. Nessun’altro. Solo io e te.»3

E mentre l’apocalisse si svela, anche noi, insieme a Moore e Williams III, veniamo visitati/andiamo in visita nella casa di Promethea dove, come dice Dennis Drucker, tutte le stanze sono messe insieme e tutta la vita avviene in un momento solo.

Questa idea di eterna compresenza di tempo e spazio è alla base sia di Promethea che di Providence, opera per certi versi gemella e opposta ,come le Qelipot sono i contrari delle Sephirot.

In un’intervista del 2017, a proposito del suo romanzo Jerusalem, Moore dice:

La mia concezione di un’eternità immediata e presente in ogni istante (una visione che ho poi appreso è chiamata Eternalismo) deriva anch’essa da molte fonti ma una definizione dell’idea dovrebbe probabilmente partire da Albert Einstein. Einstein ha postulato che noi esistiamo in un universo che ha almeno quattro dimensioni spaziali, tre delle quali sono l’altezza, la larghezza e la profondità delle cose così come le percepiamo, e la quarta, anch’essa una dimensione spaziale, è percepita dall’osservatore umano come il passaggio del tempo. Il fatto che questa dimensione non possa essere significativamente separata dalle altre, porta Einstein a chiamare il nostro continuum spaziotempo. Questo conduce logicamente al concetto di universo blocco, un immenso solido iperdimensionale in cui ogni momento che è mai esistito, o che mai esisterà dal principio alla fine del nostro universo, è compresente: un vasto globo innevato di esistenza in cui nulla si muove e nulla cambia, per sempre. (…) È solo il punto luminoso della nostra coscienza che, muovendosi inesorabilmente lungo il corso della nostra esistenza, dal passato al futuro senza altre possibilità, ci dà l’illusione del movimento, del cambiamento e dell’impermanenza. Una buona analogia potrebbe essere la striscia di pellicola di un vecchio film: la pellicola stessa è un mezzo statico e immobile, in cui le scene iniziali e finali coesistono nello stesso oggetto. (…) Naturalmente, un’altra buona analogia, forse più attinente a Jerusalem in sé, sarebbe con un romanzo. Mentre lo si legge, c’è la sensazione del passare del tempo, dei personaggi che attraversano vari stadi della loro vita, eppure quando il libro è chiuso è un blocco compatto in cui eventi che possono distare secoli in termini narrativi sono pressati insieme nello spazio di pochi millimetri, a distanze comparabili con lo spessore di una pagina.4

Un universo blocco dunque, dove tutto succede sempre. Una casa il cui tetto sono le pagine di un fumetto. Un luogo circolare (o cubico) ed eterno dove il dentro (la storia, la casa) e il fuori (il fumetto, il tetto e noi che lo leggiamo) sono la stessa cosa.

Credo che Hawking5 parli dello spazio tempo come di una sorta di gigantesco pallone da football stellato… o da rugby, se preferite. A un’estremità c’è il Big Bang e all’altra estremità tutto ritorna di nuovo insieme nel Big Crunch, ma l’intero pallone è sempre presente per tutto il tempo. Un gigantesco iper-momento in cui tutto accade. Questo significherebbe che sono solo le nostre menti coscienti che mettono in ordine passato, presente e futuro” dice ancora Moore.

E a questo proposito Promethea, sotto l’influsso di Hod, sottolineava che: “il linguaggio plasma la nostra coscienza, il modo in cui mettiamo insieme le idee. Anche il nostro concetto di tempo”.

Il modo in cui noi percepiamo il tempo è unicamente legato al modo in cui la nostra coscienza, plasmata dal linguaggio, lo percepisce. Per questo la fine del mondo in Promethea è rappresentata come il mutamento totale di un paradigma, il cambio radicale di tutti gli stati di coscienza umani.

Le nostre strutture politiche e filosofiche, le ossature ideologiche, le economie sono in realtà cose immaginarie eppure costituiscono il fondamento su cui abbiamo costruito il nostro mondo. Mi affascina il fatto che un’ondata di informazione sufficientemente potente potrebbe spazzare via e distruggere completamente tutto questo. Un’improvvisa consapevolezza capace di ribaltare la nostra prospettiva su chi siamo e perché esistiamo.6

Alla fine Promethea, la Grande Mama di tutti noi, lettori, personaggi e autori, mentre seduta accanto al fuoco della nonna mette fine al mondo, ci dice:

«Noi siamo gli organi sensoriali dello spaziotempo, la sua mente. I nostri pensieri e le nostre vite sono solo l’espressione materiale e tridimensionale della sua anima infuocata e immortale.»7

L’idea di un dio è il dio stesso che tramite il linguaggio entra nella realtà e noi, secondo Moore, potremmo essere l’idea realizzata dello spaziotempo.


  1. da A. Moore, J.H. Williams III, PrometheaDeluxe3, RW Lion, 2018 

  2. da A. Moore, J.H. Williams III, PrometheaDeluxe3, RW Lion, 2018 

  3. da A. Moore, J.H. Williams III, PrometheaDeluxe3, RW Lion, 2018 

  4. da Alan Moore:5 interviste, DIART DIGITAL ART, 2019, a cura di smoky man 

  5. Stephen Hawking (1942-2018), fisico teorico. 

  6. da Nella mente di Alan Moore, Oblò APS, 2018, a cura di smoky man 

  7. da A. Moore, J.H. Williams III, PrometheaDeluxe 3, RW Lion, 2018 

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