Due domande sul Rorschach di Tom King ad Antonio Solinas
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Due domande sul Rorschach di Tom King ad Antonio Solinas

La prima volta che ho incrociato Tom King è stato grazie al suo The Sheriff of Babylon, storia uscita per Dc Comics in cui lo sceneggiatore americano, forte della sua esperienza come agente della CIA, raccontava una sorta di thriller di guerra/spy story teso ed elegante, in cui c’era già il germe di uno dei suoi grandi temi: dov’è, qual è, la verità?

Questa ricerca rimane un filo conduttore di buona parte delle sue opere successive, soprattutto quelle in cui è più libero, meno legato a dinamiche editoriali, storie precedenti, cronologie decennali di supereroi narrativamente intoccabili. E, in parte, è anche il tema di Rorschach, opera uscita in Italia nel 2022 per Panini Comics in cui King sfrutta in maniera strumentale la figura di uno dei più incisivi antieroi della storia del fumetto americano.

Dopo aver riletto il fumetto di King qualche settimana fa però, lo ammetto, mi sono ritrovato con più domande che risposte. E con più domande di quante ne avessi prima della lettura. Che forse è proprio quello che deve fare un buon autore, ma ho sempre odiato fluttuare a mezz’aria, senza sapere dove poggiare i piedi, così ho deciso che, almeno in parte, per quel che mi era possibile, avrei cercato le tanto agognate risposte.

Da qui nasce questa chiacchierata tra me e il gentilissimo Antonio Solinas, editor Panini e curatore della serie di Tom King e Jorge Fornès, con un’esperienza di lunga data nel settore del fumetto e una conoscenza seminale dei supereroi, soprattutto della grossa biblioteca di storie scritte da autori britannici per il mercato americano (di cui fa parte Alan Moore, il sommo padre di Watchmen, linfa da cui nasce questa miniserie di Tom King).

Antonio è stato molto disponibile e molto paziente, quindi gli ho posto qualche domanda per soddisfare alcune mie curiosità personali che spero, in qualche modo, possano impreziosire anche per voi la lettura dell’opera di King e Fornès.

Partiamo dalla fine. Il detective senza nome, senza identità, la maschera senza maschera che si trasforma in Lee Harvey Oswald. Partiamo dall’intuizione di Riccardo Galardini. Un uomo che uccide il presidente, che si fa strumento della paranoia e poi si rinchiude in un cinema. Nella lavorazione, e nella lettura in presa diretta, del Rorschach di King, come arriva questo processo di disvelamento (almeno delle intenzioni) del protagonista?

Antonio: Alcuni punti (paranoia, verità, eroismo), sono temi che King aveva già toccato e, insieme alla caduta del sogno americano, sono centrali anche in Watchmen. Nel momento in cui devi rapportarti a un’opera così grande hai due possibili approcci: o rifare Alan Moore (approccio non saggio) oppure utilizzare l’opera per fare qualcosa di nuovo.
King sceglie un approccio quasi speculare: siamo nel futuro, ma l’atmosfera rimanda agli anni ’70, periodo in cui l’innocenza degli anni ‘60 è perduta e, così, protagoniste diventano la follia e l’alienazione. Alla fine di Watchmen, Rorschach è l’unico vero “eroe”, nel senso che non accetta il compromesso e sceglie il sacrificio della vita piuttosto che cedere al complotto.
L’”eroe” di King invece si fa boia e non agnello sacrificale, diventando quasi speculare (oltre che complementare) rispetto al lavoro di Alan Moore. Quando guardi Arancia Meccanica non puoi non restare colpito dall’orrore e dalla violenza, ma la violenza è talmente stilizzata da sembrare un sogno, ed è simile al finale di Rorschach che, in questo senso, richiama proprio alle atmosfere del cinema americano anni ’70, come una sorta di novello Travis Bickle che si butta a capofitto nell’abisso.

Durate il gioco della bottiglia (leggete il fumetto!), personalmente ho compreso cosa rappresentasse il nostro detective. Prende una scelta precisa, diretta, decisa. In alcuni numeri però mi è sembrato che King forse sia stato costretto (ma riesce a giocare comunque alla grande, anche con i paletti che ha, come un vero mvp) a lavorare di compressione e decompressione dei dialoghi. Forse per il tempo (spazio) che aveva a disposizione, forse per una sua volontà. Come è stato l’approccio a questa non linearità dell’opera che invece diventa un binario drittissimo nella direzione narrativa degli ultimi tre o quattro numeri?

Antonio: Bisognava stare molto attento ai rimandi, ai dialoghi, ai termini usati da King durante la lavorazione. Non mi sono posto il problema riguardante la direzione fino agli ultimi numeri, forse addirittura all’ultimo. Lì lo sceneggiatore dimostra di essere un grande affabulatore, capace di creare aspettative per poi sovvertirle. In questo senso, mi solleticava tantissimo l’idea di un autore americano che volesse confrontarsi con il lavoro di Alan Moore: io sono un grandissimo appassionato del lavoro degli autori britannici nel fumetto americano, ho bazzicato le fiere inglesi e sono sempre stato interessato all’idiosincrasia nell’approccio britannico. King riesce a essere se stesso e non una brutta copia di quel modo di porsi british.
Un aspetto pratico importante nel lavoro all’edizione italiana è che ho avuto il piacere di lavorare con Leonardi Rizzi, uno dei migliori traduttori italiani, sempre un valore aggiunto per l’editor. Il nostro lavoro è iniziato quando in USA erano usciti solo tre o quattro numeri e quindi dovendo adattarci, lavorando senza un quadro completo, collaborare con uno come Leonardo facilita le cose anche se a volte si volteggia senza rete.
Per tornare alla tua riflessione sul fatto che poi Rorschach vada dritto, la domanda centrale è: quanto ci ha imbrogliato King con l’identità del detective, col farci credere che potesse essere un punto centrale dell’enigma? Il secondo imbroglio: quand’è che il detective diventa pazzo? Non conosciamo i germi della sua follia. Non capiamo le sue motivazioni reali. In questo senso, c’è tanto di “smoke and mirrors”, come dicono gli americani… e funziona, visto che ne stiamo parlando, no?
Per quanto riguarda invece il discorso della compressione e decompressione dei numeri, direi che bisogna anche tener conto della periodicità e dello spazio delle uscite che caratterizza le uscite americane: è chiaro che nessun autore fa una miniserie così importante e ambiziosa come questa senza sapere cosa sta facendo, ma a volte ci sono aggiustamenti che vanno fatti in corsa. E questo può avere condizionato anche il finale, forse il punto meno forte dell’opera. Incidentalmente, sono spesso i finali a entusiasmarmi meno nel lavoro di King, comunque un grande autore.

King, in un punto chiave della storia, fa comparire una spilla insanguinata che richiama al simbolo stesso di Watchmen, la famosa spilla del comico. Lo sceneggiatore americano utilizza un espediente, un’immagine, simmetrica ma con un significato opposto, continuando il rapporto dialogico con Moore.

Antonio: I rimandi sono molteplici, come ci si aspetterebbe da un’opera inquadrata nell’universo di Moore, ma la volontà di non scimmiottare l’opera originale forse era la spinta primaria di King. Turley, il politico di destra, richiama anche tutto il discorso sul Vietnam, molto importante in Watchmen, con tutto il discorso della fine del sogno americano. Ecco, realizzare un’opera come Rorschach mentre al potere c’è Trump, con il suo modo di utilizzare il linguaggio per sobillare l’elettorato e la narrazione per riplasmare la realtà, creando un fanatismo inconcepibile anche per noi italiani che ai fanatismi siamo abituati… è significativo. È rappresentativo della volontà di inviare un messaggio, di calcare la mano sulla miopia di un popolo, sulla sua incapacità di interpretare la realtà e la politica stessa, oggi, in America.

King sceglie di impelagarsi in un’avventura che lo mette a rischio: non solo “dialogare” con quello che forse è il più grande sceneggiatore che si sia mai espresso con il media fumetto, ma sceglie di chiamare la serie “Rorschach”, anche se il personaggio di Moore in questi dodici numeri è centrale solo come idea, come ideale, come vessillo, e poco altro. Che ne pensi?

Antonio: Per me ha fatto una buona scelta, aiutato anche dalla serie tv uscita poco prima che utilizza lo stesso titolo dell’opera originale ma andando da tutt’altra parte. Nel fumetto di King, Rorschach siamo tutti noi, quando la paranoia ed eventi traumatici ci tramutano in quel personaggio. Quando riapriamo gli occhi dopo aver sferrato il colpo, sotto la maschera non c’è più un Kovacs, c’è Rorschach.
Il personaggio di King viene posto, come quello di Moore, davanti a un’epifania. Scopre una verità e si trova davanti alla necessità di una scelta che in qualche maniera, nella sua essenza estrema e netta, diventa “eroica”. Credo che uno degli aspetti di questo fumetto sia anche metterci davanti al fatto di quanto siano semplicistici, a volte, i fumetti americani di super eroi nella loro rappresentazione del bene e del male, dei problemi e della risoluzione di tali problemi, anche di quelli che hanno un risvolto etico importante. Penso che sovvertire il classico lieto fine (che in sostanza vale anche per Watchmen) con un finale più estremo abbia anche una valenza simbolica. Una personale perdita d’innocenza, forse, anche da parte di Tom King.

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