Nel numero 87 della rivista Fumetto edita dall’Anafi, Gianni Brunoro proponeva una lettura “cinematografica” della storia Bogart il giustiziere, realizzata da Damiano Damiani. Nel fumetto del regista, Brunoro intravede sia lo sguardo di un occhio già proiettato verso il luminoso futuro cinematografico che verrà, sia i tratti di un potenziale grande autore di soli fumetti.
Bogart, un… film a fumetti
[Articolo pubblicato originariamente su Fumetto n° 87 a firma di Gianni Brunoro]
Quando, lo scorso 7 marzo 2013, si è spento Damiano Damiani, se n’è andato con lui un gran fumettista, anche se fumetti non ne faceva più da decenni. Notevole regista cinematografico, certo, riconosciuto come tale in qualunque storia o enciclopedia del cinema. Eppure la sua attività nel fumetto, quello disegnato, da lui attraversato come una meteora, testimonia che sarebbe stato anche in questo settore una di quelle “grandi firme” quali erano quelle al cui fianco egli aveva operato nel breve lasso di tempo degli anni Quaranta, vale a dire gli Hugo Pratt o i Dino Battaglia, i Paul Campani e così via, che invece nel settore sono rimasti. Gianluigi Bonelli, come ben sanno gli appassionati, affermava di essere “un romanziere prestato ai fumetti e mai più restituito”. Ebbene, per Damiani la stessa affermazione si potrebbe parafrasare come “un fumettaro prestato al cinema e mai più restituito”. E, come per Bonelli la restituzione al romanzo non era avvenuta perché, in fondo, egli era un “uomo di fumetto” quanto mai autentico, così Damiani finì per restare “uomo di cinema”, perché quella era la sostanza di cui era impastato e la sua decisa vocazione. La sua carriera, luminosa nella sua originalità, sta a dimostrarlo. Ma se, come afferma il vecchio proverbio, il buon giorno si vede dal mattino, si può dire in tutta tranquillità che la metafora vale anche per intravedere quale eccellente fumettaro Damiani sarebbe stato, se avesse seguito quella carriera invece che l’altra (alla quale era comunque profondamente e quasi unicamente interessato). Ce lo dice la forse principale fra le sue storie di quel periodo, Bogart il giustiziere, uscita come uno dei supplementi all’Asso di Picche, vale a dire come Albo Uragano n.10, datato 20 ottobre 1945.
È un racconto, Bogart il giustiziere, che – sapendo chi ne è l’autore – si configura quasi come un presagio, grazie al suo intreccio, alla moltitudine di riferimenti trasversali, allo stile narrativo e ad altri elementi ancora, che qui cercherò di puntualizzare. Innanzitutto, sul piano narrativo, il racconto ha la struttura canonica dei polizieschi del periodo, quando il giallo era ancora tipica letteratura di “genere” (a differenza di quello che succede ormai oggi, quando elementi di giallo, ma più precisamente noir, entrano si può dire in qualunque opera letteraria, anche le più ricercate). Lo schema è infatti quello del delitto, successiva indagine, individuazione e cattura del colpevole, con trionfo finale della giustizia. Questo racconto inizia da un set cinematografico e, nel momento in cui il protagonista (un celebre attore) dovrebbe venire ucciso nella finzione cinematografica, in realtà egli viene assassinato per davvero da una revolverata. Spetta dunque all’«eroe» protagonista, il detective Bogart, indagare: approfondimento della personalità di tutti coloro che erano presenti sulla scena (una variegata gamma di personalità e di professioni), con emersione di false piste, ritorno a indizi più credibili e via di seguito, fino alla definitiva scoperta dell’autentico assassino, con le sue ovvie motivazioni.
Il plot evidenzia una coerente fusione tra i gialli d’indagine tradizionali (ma quelli più raffinati, benché ugualmente arzigogolati, come per esempio i romanzi di Rex Stout con protagonista Nero Wolfe o quelli di S.S. Van Dine, dove il gioco è condotto dal sofisticato Philo Vance) e le trame hard boiled della “scuola dei duri”, che dagli anni Trenta in poi hanno inferto una solida sterzata realistica al “genere”, come i romanzi di Raymond Chandler, protagonista Philip Marlowe, i quali, non a caso si svolgono nell’area hollywoodiana e, trasposti al cinema, hanno come eccellente interprete principale un attore che si chiama – ma guarda un po’! – proprio Bogart (però Humphrey, di nome). In effetti, a leggerlo in filigrana, Bogart il giustiziere è una credibile parafrasi di un film sceneggiato e ciò lo configura come un presagio della futura attività cinematografica di Damiani. Anche se – a dire il vero – la faccenda è probabilmente più complessa. Con tutta probabilità, in quel momento è da parte sua soltanto una specie di atto d’amore, vale a dire un omaggio (e, fumettisticamente, un contrappunto) a tante pellicole tipiche di quel tempo, ossia tanti film noir hollywoodiani, che del resto non a caso consideriamo oggi dei capolavori (per convincersene, basterebbe andarsi a guardare una storia del cinema relativa a quel periodo).
Tutto ciò rimane tuttavia a monte della storia, che – com’è ovvio – è un fumetto. Il quale però rimane comunque un fumetto un po’ particolare. Assai dinamico, innanzitutto, rispetto a quelli correnti in quel tempo. Ma anche molto realistico, nel senso di storia apprezzabile da lettori adulti (mentre sappiamo che allora nessuno avrebbe saputo immaginare per le storie a quadretti lettori diversi dai ragazzi). È come dire che la medesima storia, riproposta oggi con solo qualche minima ripulitura nel testo e nel disegno, sarebbe un solido graphic novel, privo di quelle ingenuità e naïveté in generale, di cui si sostanziava invece la quasi totalità dei fumetti negli anni Quaranta, anche negli esempi migliori (stanti i miei amori di allora, citerei, tanto per dire, o la serie Gim Toro o anche le storie autoconclusive di una bellissima collana quale quella degli Albi d’Oro Mondadori).
Se poi andiamo a certi dettagli tecnici, per così dire, questa impressione è ancora più chiara. Per esempio, nelle sequenze di vignette è fin troppo facile intravedere degli autentici movimenti di una macchina da presa. Da inquadrature di dettaglio, a fluidi passaggi verso un primo piano, a un “piano americano”, a un campo lungo; c’è poi qualche inquadratura tipo plongée dal basso o dall’alto, certamente inusuale nei fumetti, per lo meno a quel tempo; e ci sono montaggi di eccezionale concitazione dinamica (come per esempio un inseguimento automobilistico descritto in una sequenza di nove vignette, alla quinta tavola della riproposta editoriale realizzata nel n.18, ottobre 1968, della rivista Sgt. Kirk), che non sfigurerebbe per niente nell’ipotetica corrispondente trasposizione in una di quelle pellicole cinematografiche attuali, tutte azione, spari ed esplosioni, in una ansiogena suspense, come sono ricorrenti ormai da anni.
Inoltre, a un’analisi meno distratta, risulta sorprendentemente chiaro il ruolo delle didascalie. Le quali, in questa storia a fumetti, servono per accelerare l’azione, ché altrimenti la storia sarebbe stata debordante in lunghezza, ciò che negli albi del tempo non poteva essere troppo diluita in tal senso. Ebbene, qui le didascalie sono una ragionevole sostituzione di certi movimenti di macchina cinematografici. Provare per credere, ossia cercare, durante la lettura, di immedesimarsi nella mentalità e nell’ottica di un regista e tale tecnica risulterà piuttosto evidente.
Quanto poi a requisiti strettamente fumettistici, è ugualmente chiaro come lo stile del Damiani fumettista si stacchi nettamente da quello tradizionale dei suoi colleghi di allora. Ancora una volta cito gli esempi migliori, magari Rino Albertarelli, Walter Molino, Raffaele Paparella, Edgardo Dell’Acqua e chissà quanti altri: il cui stile evidenzia in tutto e per tutto la loro discendenza da quegli illustratori del passato che Antonio Faeti – riesumando un’antica espressione – aveva definito “figurinai”.
Damiani, no.
In lui colpisce subito l’ispirazione a maestri dei comics realistici americani, Milton Caniff primo fra tutti: lo denuncia il suo tratto pesante e ben modulato, con qualche venatura di grottesco e cenni di stilizzazione, e comunque con un’esecuzione tipicamente al pennello (a differenza magari del pennino, caratterizzante i citati tradizionalisti) e i forti contrasti di bianco-nero, ancora una volta così tipicamente di ascendenza cinematografica, in rapporto a tanti capolavori del bianco-nero. Se si focalizzano tali elementi, risulta pressoché automatico individuare nella personalità di Damiani quelle componenti per cui, se da una parte il cinema sembra essere stato nel suo destino, dall’altra però egli manifesta tutti i numeri per la possibilità di diventare un autore di fumetti di quella stessa eccellente statura da lui conseguita in tanti anni di attività in campo cinematografico (anche nella sua variante televisiva, a giudicare da esiti eccellenti come in La piovra).
È come dire che con lui il cinema italiano ha acquisito un valido regista, ma il fumetto ha probabilmente perso un autore eccellente.