Francesco Savino (classe 1986) laureato in psicologia, fa il suo esordio nel mondo dei fumetti nel 2009 co-sceneggiando – insieme ad Adriana Coppe – un numero della serie Nemrod, edito da Star Comics. Nel 2010, insieme ad Adriana Coppe, Giuseppe Acquaviva e Dario Marzadori, riceve una menzione speciale al Lucca Project Contest per il fumetto Equilibrio. Con Diego Cajelli, è stato sceneggiatore dell’ undicesimo numero della serie Long Wei, edita da Editoriale Aurea. È editor e traduttore presso la casa editrice Bao Publishing. Per Giunti Editore, in collaborazione con l’associazione onlus Plain Ink, ha scritto il libro per bambini La banda dell’elefante rosa. È autore del webcomic Vivi e Vegeta, che prossimamente sarà edito da Bao Publishing in una versione cartacea. Al momento è a lavoro su Il cuore della città.
Giulio Rincione, in arte Batawp, è un fumettista palermitano. Esordisce nel 2012 su Verticalismi con il fumetto C. Ha collaborato con Lelio Bonaccorso e Marco Rizzo, realizzando i colori di Jan Karski, l’uomo che scoprì l’olocausto. Nel 2013, con Fancesco Chiappara (Prenzy) e Lucio Passalacqua (Luciop) ha fondato il collettivo artistico Pee Show. All’interno di quest’esperienza ha realizzato tre storie brevi raccolte sotto il nome di Storielline. Per l’editore Shockdom ha disegnato e colorato i primi due numeri di Noumeno, pubblicato come autore completo Paranoiae, e ha disegnato la Trilogia dei Paperi, sceneggiata dal gemello Marco Rincione. Per Bonelli Editore ha lavorato su Orfani, Dylan Dog e 4Hoods. Con Francesco Savino è a lavoro su Il cuore della città, disponibile su Wilder
Benvenuti su Lo Spazio Bianco. Com’è nato Il cuore della città e la vostra collaborazione?
Francesco Savino Si tratta, come nella migliore delle collaborazioni, di una serie di fortunati eventi. Per quanto mi riguarda, lo spunto de Il cuore della città vagava nella mia testa da anni. Era tutt’altra cosa rispetto al risultato che avete letto, ma conteneva le stesse premesse di base. Quando ho scoperto i disegni di Giulio, ho capito immediatamente di aver trovato il disegnatore perfetto per la storia. Ma non ci conoscevamo: io a malapena commentavo i suoi disegni su facebook per non sembrare invadente e in più sono sempre stato una frana negli approcci. Poi però è nata l’etichetta Wilder e, preso in un delirio di incoscienza dato dall’influenza, mi sono fatto coraggio e ho contattato Giulio per chiedergli se gli andasse di fare qualcosa insieme. Contro tutte le aspettative, Giulio mi ha detto di sì. Qualche settimana dopo ci siamo conosciuti, e Giulio ha fatto la cosa migliore che potesse fare: dirmi il numero di tavole massimo che poteva concedermi. Mi si è aperto un mondo: consapevole dei limiti che avevo, ho imbastito una serie che rispettasse la sua indicazione e al tempo stesso il numero di tavole per capitolo richieste da Wilder. Da lì è nato tutto. La sintonia che ho sentito con Giulio chiacchierata dopo chiacchierata ha fatto il resto.
Giulio Rincione Il cuore della città è sicuramente un’opera figlia di Francesco, almeno per ciò che riguarda la storia e l’idea. Ma l’ho subito adottata con enorme gioia, principalmente per due motivi: quando osservavo Francesco parlarmene, ho visto l’entusiasmo e la passione che vorrei avesse sempre una persona con cui voglio collaborare. Non una passione mossa da manie di successo, ma mossa dalla smania di narrare. Il secondo motivo è che ero stanco. Mi stavo lentamente fermando, reiterando uno stile o un processo creativo e avevo bisogno di un nuovo stimolo. Qualcosa da poter fare da zero, senza dovermi riferire a un mio lavoro passato.
Francesco, rispetto al tuo precedente lavoro (Vivi e Vegeta) che aveva molti tratti ironici, colori vivi, giochi di parole, qui si respira un’atmosfera molto più cupa, com’è stato cambiare così drasticamente il tuo modo di narrare e il suo oggetto e cosa ti ha spinto a farlo?
F.S. Per me è stato un passo importante, che sentivo in qualche modo necessario. A un certo punto ho avvertito il bisogno di scavare più a fondo, di mettere per iscritto tutte quelle sensazioni ed emozioni che fino a quel momento avevo deliberatamente evitato di raccontare. La percepivo come un’evoluzione del mio modo di scrivere, ma al tempo stesso come un movimento parallelo: da un lato la narrazione più ironica (anche se in realtà in Vivi e Vegeta non c’è poi molto di ironico), dall’altro una scrittura più intima, personale. Entrambe le sfaccettature mi appartengono, e l’idea di aver finalmente lasciato spazio anche alla seconda mi rende particolarmente orgoglioso di questo lavoro.
Giulio, penso che anche per te Il cuore della città rappresenti in qualche modo una novità nella tua produzione. In Paranoiae e nella Trilogia dei Paperi, al centro di tutto ci sono i personaggi, la loro interiorità con tutte le paure, le paranoie e le ossessioni. Qui mi sembra che per un verso si esca fuori da loro, che l’ambiente abbia quasi un ruolo preponderante. Come hai creato visivamente la città e com’è stato farlo?
G.R. Come accennavo sopra, si tratta assolutamente di una novità, o meglio di un ritorno alle origini. Per ciò che riguarda il luogo, come elemento centrale della storia, in realtà non l’ho vissuta come qualcosa di nuovo. Ho sempre amato gli sfondi e non sopporto invece i fumetti dove al centro di tutto ci sta un personaggio e magari lo sfondo è fatto con una semplice sfumatura. Voglio sempre sentire, percepire il luogo in cui si svolge la cosa. La città che ho creato insieme a Francesco è improvvisata. Non vuole farsi scoprire, ha dei tratti di Milano, dei tratti di Hell’s Kitchen, dei grattacieli neozelandesi. Cambia. È a tutti gli effetti un’entità. Inutile dire che lavorarci sta essendo stimolante e credo che il meglio debba ancora venire.
Mi permetto: negli esterni, la città sembra una tela surrealista sovrapposta a una neo-impressionista nello stile dei Landscapes di Jeremy Mann. Hai guardato a qualche autore e a qualche scuola in particolare nella realizzazione questo lavoro?
G.R. Mi servo molto di fotografie che mi passa Francesco, poi ho un archivio mio dove vado a ripescare particolari palazzi che sovrappongo fotograficamente alla pittura di base. Mann è da sempre fonte di grandissima ispirazione, e credo di averlo osservato così tanto che qualcosa deve essermi rimasta dentro per forza. Diciamo che cerco un medium tra la pennellata grezza e un iperdettaglio, magari fotografico.
Vivete ai capi opposti dell’Italia, in città molto differenti, quanto c’è delle vostre città e del vostro rapporto con loro nella città protagonista del fumetto?
F.S. Per quanto mi riguarda, devo confessare di essere in difficoltà nel rispondere a questa domanda. La genesi della storia è sicuramente legata al mio trasferimento a Milano di qualche anno fa, e il modo in cui l’ho pensata e l’ho sentita deve molto al mio vagare iniziale senza una meta per la città. Eppure, al tempo stesso, nella serie c’è poco di Milano e poco del mio personale vivere la metropoli. Mi piace pensare che ne Il cuore della città ci sia tanto di ogni città e di ogni persona che si sia mai trasferita in un contesto urbano. Che sia una storia fruibile a tutti, perché tutti, in qualche modo, trovano tra le pagine un pezzetto della loro esperienza e delle loro sensazioni.
G.R. Di Palermo molto poco. Non nascondo mai il fatto di non amare o vivere a pieno la mia città (a parte che per il cibo). Di conseguenza non mi ha mai ispirato più di tanto. Però porto con me vari scorci d’Italia che ho potuto ammirare durante i miei spostamenti.
Una delle cose che più ho amato di questo fumetto è la vostra capacità di far “sentire i suoni”, cosa non facile in un fumetto. È un’esplosione di ronzii, fulmini, voci, rumori. Come ci siete riusciti?
F.S. La verità è che né io né Giulio abbiamo mai esplicitamente parlato dell’importanza dei suoni in questa storia, ma è come se entrambi ne fossimo stati già consapevoli ancora prima di iniziare. Mi piace pensare che il nostro modo di lavorare, da parte mia basato essenzialmente nel descrivere atmosfere e le sensazioni che dovevano emanare le tavole, nascondesse tra le proprie pieghe i ronzii, fulmini, voci e rumori di cui parli.
La scena del frigo per me ne è l’esempio più calzante: fin dall’inizio della storia avevo ben chiara in mente l’idea delle voci che uscivano dal frigorifero. Sono chiaramente una metafora, ma non credo di aver mai detto né scritto che cosa rappresentassero. Quando Giulio mi ha mandato le tavole della sequenza, ho provato l’esatto brivido di inquietudine che volevo provassero i lettori. Giulio non aveva solo reso la mia idea alla perfezione, l’aveva elevata in terrore allo stato puro.
G.R. Di solito non sono un amante delle onomatopee o dei suoni. Mi sembrano finti. Forse è proprio grazie a questa mia antipatia che ho cercato di creare un rumore vero. Il rumore non riesci a leggerlo in modo chiaro, devi stare lì a sforzarti un po’.
Parliamo delle scelte cromatiche, altro aspetto molto interessante di questo primo capitolo e componente essenziale dello stile di Giulio. Chi ha scelto cosa e quali logiche dietro queste scelte?
F.S. Fin dall’inizio, io e Giulio sapevamo che si trattava di una storia “emotiva”. Giulio mi ha subito parlato di quanto avrebbe voluto far corrispondere a ogni sequenza un colore diverso, in base all’emozione a essa collegata. E di fronte a questo manifesto di intenti non potevo che fidarmi e affidarmi alle sue scelte. Sono stato ripagato più di quanto sperassi.
G.R. Le scelte cromatiche sono molto pensate e faccio un sacco di prove. Ma c’è una bella differenza rispetto ai miei lavori passati: e cioè che inizialmente ho lavorato in monocromia di grigio. La tavola è totalmente neutra e solo in un secondo momento ho deciso di vestirla con sfumature e tinte che rendono l’atmosfera. È un metodo di lavoro che ho accantonato per fin troppo tempo, ma devo dire che mi piace particolarmente, mi permette di essere più diretto sulla narrazione.
Cosa potete dirci del personaggio che compare nel finale, “La signora degli insetti”. Chi è, com’è nato, anche visivamente?
F.S. “La signora degli insetti” è un’appendice della città, una metafora nella metafora, e mi piaceva l’idea di sovrapporre la sensualità della donna a una delle fobie più comunemente diffuse. Per quanto riguarda l’aspetto visivo lascio la parola a Giulio, che ne è il diretto responsabile. Anche in questo caso mi sono fidato di lui: volevo che questa serie fosse anche sua, e uno dei modi per farlo era lasciargli campo libero nella caratterizzazione grafica di tutti i personaggi.
G.R. Un po’ di gnoccanza non fa mai male. Quando in un episodio ci sono due donne e una è una vecchietta che sorride sempre, l’altra deve per forza gnocca. È un po’ uno stereotipo, ma credo che ci si accanisca fin troppo contro gli stereotipi. Nella realtà sono molto più frequenti di quanto non vorremmo credere.
Trovo molto d’effetto la scena finale con l’arrivo delle mosche. In Phenomena di Dario Argento, Sergio Stivaletti svelò il suo trucco per creare gli sciami presenti nella pellicola: caffè macinato. Tu, Giulio, come li hai creati, hai usato qualche tecnica particolare?
G.R. Del caffè macinato in digitale.
Un pennello particolare che mi riesce a dare questo effetto, a cui poi sovrappongo diverse texture “poverose”.
Giulio, so che la musica ha un ruolo importante nella tua fase creativa, hai ascoltato qualcosa in particolare durante questo lavoro?
E tu, Francesco, preferisci il silenzio o un accompagnamento quando scrivi?
F.S. Con la musica ho un rapporto particolare: non riuscirei a creare senza la musica, e al tempo stesso non riuscirei a scrivere con la musica. Quando sviluppo una storia (o meglio, quando sono nella fase in cui sviluppo una storia nella mia testa), tutto parte quasi sempre dalla musica. Mi suggerisce immagini, suoni, sequenze, emotività dei personaggi. Quando mi siedo al computer, invece, ho bisogno di assoluto silenzio. Per Il cuore della città ho voluto tentare un esperimento: ho creato una playlist su Spotify in cui ho inserito i brani che mi hanno accompagnato nella creazione della serie e che potrebbero accompagnare allo stesso modo il lettore nel viaggio.
G.R. Questa volta ho voluto che scegliesse Francesco per me. Ascolto quindi la playlist che lui mi ha suggerito. Ma non sempre. Le parti più ostiche e complesse hanno sempre bisogno di assoluto silenzio
Cosa fa de Il cuore della città un fumetto Wilder e com’è stato lavorare con questa nuova realtà?
F.S. Ancora prima che io contattassi Giulio, ero stato a mia volta contattato da Jacopo Paliaga e French Carlomagno. Tra i mille progetti che avevano in mente, i due stavano pensando alla creazione di una nuova etichetta, e – cosa che mi ha reso molto orgoglioso – volevano che io fossi tra i primi a farne parte.
Sapevo di dover ricambiare, e volevo farlo con una storia profonda e – almeno per me – importante. Sapevo di potermi fidare di loro, così come sapevo che avrebbero coccolato il progetto e l’avrebbero trattato come se fosse loro. A quel punto, la serie di fortunati eventi di cui sopra ha fatto sì che si unisse a noi Giulio, artista che Jacopo e French stimavano tanto quanto me. Insomma, da un punto di vista emotivo, che per me è sempre il più importante, Il cuore della città è un progetto Wilder a tutti gli effetti.
A questo aspetto, però, se ne aggiunge anche uno tecnico: la serie deve la sua struttura anche all’esigenza di “foliazione” di Wilder. Quindi, anche solo a livello pratico, è una serie che ha preso forma in base al modo in cui si sviluppava questa nuova realtà.
G.R. Il cuore della città fa parte di Wilder e lo completa al 25%, fornendo una storia dal taglio psicologico e più intimo. Dal canto loro, le altre serie danno all’etichetta il loro personale carattere. Credo che il principale obiettivo di Wilder non sia quello di avere un lettore che legge tutte le serie, ma molti lettori che scelgono la propria o le proprie serie in base alle loro esigenze.
Poi, personalmente parlando, sta essendo molto particolare tornare al webcomic dopo un paio d’anni di silenzio e dopo soprattutto aver iniziato così (storielline, ddt). È un po’ come tornare a casa. Ma una casa sempre diversa.
Si ringraziano gli autori per la disponibilità.
Intervista realizzata via mail, gennaio-febbraio 2017