Durante il BGeek 2019, svoltosi a Bari nei giorni 1 e 2 giugno, si sono tenuti diversi incontri. Uno di questi, dal titolo L’anima di una storia: dal seme originario alla tipografia, ha visto coinvolti Barbara Baldi, Onofrio Catacchio, Igort e Sebastiano Vilella che hanno risposto alle domande di Paolo Pugliese.
Barbara Baldi, celebre illustratrice e colorista, ha al suo attivo numerose pubblicazioni per il mercato italiano, americano e francese, tra le quali si ricordano le recenti graphic novel Lucenera e Ada per Oblomov Edizioni, Sky Doll e Monster Allergy. Alterna alla sua attività nel mondo editoriale l’altra sua grande passione: il cinema. Per la Rainbow CGI, il più grande studio europeo nella produzione di film di animazione 3D, lavora come color key artist per il film Winx 2. Attualmente è anche illustratrice e colorista per diverse realtà internazionali, tra le quali Pixar, Disney, Marvel, Eli Edizioni, DeAgostini e tante altre.
Onofrio Catacchio è nato a Bari nel 1964. Agli inizi degli anni Novanta ha creato il fumetto Stella Rossa, poi ha sceneggiato e illustrato le storie dell’ispettore Coliandro, tratte da soggetti di Carlo Lucarelli (Granata Press, BD e Cosmo Editoriale). Dal 1995 per Sergio Bonelli Editore ha realizzato diversi episodi di Nathan Never. Su testi di Luigi Bernardi, oltre alle illustrazioni per il libro Gaijin! (Black Velvet Editrice) e ai disegni di scena per l’omonimo spettacolo teatrale, ha illustrato la graphic novel Fantomax dedicata al più grande cattivo di tutti i tempi (Fandango/Coconino Press, 2011). Ha scritto e disegnato La Mano Nera per la collana Le Storie della Bonelli e sempre per l’editore milanese ha disegnato due episodi del pluripremiato Mercurio Loi, scritto da Alessandro Bilotta. Per l’inserto Alias Comics del quotidiano Il manifesto realizza nuovi episodi di Stella Rossa. Insegna Arte del Fumetto presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Su Giornale Pop porta avanti le sue Matite Blu, vignette cariche di nonsense e giochi di parole, raccolte su carta da Passenger Press.
Igort è uno dei più importanti autori italiani di fumetti. Nel corso degli anni Ottanta collabora con alcune delle principali riviste nazionali e internazionali tra cui Linus (del quale è attualmente il direttore editoriale), Alter, Frigidaire, Metal Hurlant, L’echo des Savanes, Vanity, The Face. Nel 1983 fonda con Brolli, Carpinteri, Jori, Kramsky e Mattotti il gruppo Valvoline. Nel 2000 fonda la casa editrice Coconino Press e attualmente dirige la casa editrice Oblomov, da lui fondata in collaborazione con La nave di Teseo.
Il suo romanzo a fumetti 5 è il numero perfetto è stato pubblicato in 15 paesi ed è diventato un film diretto dall’artista stesso. I Quaderni ucraini e i Quaderni russi nascono dalle sue esperienze di viaggio nell’est Europa, mentre i Quaderni giapponesi sono un compendio del suo decennale rapporto col Giappone, ampliato dal volume Kokoro.
Sebastiano Vilella scrive e disegna fumetti da oltre 30 anni ed è considerato uno dei maestri del fumetto italiano.
Esordisce, come molti suoi coetanei, sulle principali riviste illustrate italiane – Frigidaire, Comic Art, Splatter – misurandosi poi con il racconto di genere: il noir “politico” del Commissario Italo Grimaldi (2006), la biografia d’artista di Interno metafisico con biscotti (dedicato a Giorgio De Chirico), L’armadio di Satie e Friedrich: lo sguardo infinito, che omaggia il pittore che più ha influito sulla grafica e sullo stile dell’autore.
Paolo Pugliese: Sono molto felice di dare il benvenuto a quattro artisti che non hanno bisogno di presentazioni: Onofrio Catacchio, Igort, Barbara Baldi e Sebastiano Vilella.
L’incipit della chiacchierata con questi quattro colleghi e amici è l’anima di una storia: come nasce una storia? Voi nell’arco delle vostre carriere avete costruito tante storie e tanti personaggi. Qual è lo spunto? Da dove nasce? Da qualcosa che si vede per strada, da un sentimento?
Onofrio Catacchio: Io non so da dove nasca una storia, sono curioso anch’io di sapere da dove venga. Ho un metodo: ci sono delle idee, dei tormentoni che restano nella testa e a un certo punto si incrociano con la realtà, con la possibilità di realizzare le idee in forma di storia. Lo spunto è una cosa che hai in te e ti resta in testa in mezzo alle tante idee che ti possono passare. Quella che ti resta in mente è quella che può diventare produttiva.
Igort: Non riesco a non raccontare, mi annoio moltissimo in vacanza, al punto che non riesco a fare una vacanza normale. Ricordo che quando ho finito il lavoro sul Giappone sono andato in Indonesia: mi imposi di non portare i pennelli e la carta, per fare una vacanza vera. Ma dopo due giorni chiesi al personale dell’albergo un block notes e iniziai a prendere appunti per un nuovo libro. Io ho un metodo per il quale preferisco andare in discesa piuttosto che in salita, sono discepolo di Picasso quando dice: “Io non cerco, trovo”. Per far sì che le idee si trovino ho una gran quantità di block notes e lavoro contemporaneamente a molte storie, prendo continuamente appunti di diverso tipo. Per esempio, adesso sto scrivendo una storia ambientata nel 1938 a Hong Kong e bisogna studiare per sapere che cos’è successo in quell’anno, in quel luogo. È venuta fuori una sorta di intuizione e mi sono messo in cammino, ho già preso degli appunti, ho idea di come muovermi e di alcuni dialoghi, si stanno delineando personalità molto precise. In questo caso mi interessa una scrittura un po’ ironica, però contemporaneamente sto prendendo appunti per altri cinque libri dal tono diverso. Filtro e scrivo. Quando si cattura un’intuizione, bisogna capirla, lasciarle tempo e poi tornare a lavorarci. Mi è capitato diverse volte nella mia carriera che un libro diventasse due libri, con fili narrativi separati.
Barbara Baldi: Io ho un metodo particolare, ma so che anche altri colleghi lo usano. Mi sdraio sul divano in un dormiveglia durante il quale mi arrivano, probabilmente dall’inconscio, scene molto forti. Sono i traumi che ho avuto nella mia vita o anche quelli della vita di altri. Metto insieme le scene e racconto la storia nella mia mente, fingendo di vedere un film. Fisso le scene nella mia testa, scrivo una sinossi a cui poi lavoro, senza una vera sceneggiatura, ma passando direttamente alle tavole. È un lavoro che faccio in modo spontaneo. Sono una colorista, ma dopo una brutta esperienza è scattato qualcosa in me, ho raccontato quello che era successo attraverso un fumetto e ha funzionato.
Sebastiano Vilella: Quello che dice Barbara è interessante, perché a volte ho la sensazione di essere scelto dalla storia. Non posso parlare di un vero e proprio metodo, per quanto io sia abbastanza preciso, scrupoloso e ordinato. L’idea può essere coltivata nel tempo e può esserne necessario molto. Le mie storie possono sgorgare abbastanza complete nella mia testa, con la sensazione di non poter controllare tutto. Poi, quando decido che è la storia giusta, mi siedo e scrivo. Ho scritto L’armadio di Satie in pochissimi giorni, non ho fatto alcuna correzione e stranamente non ho ricevuto obiezioni. Ho avuto la sensazione che la storia andasse bene e fortunatamente ha convinto senza problemi. È stata una storia già pronta, però non l’ho realizzata subito: l’ho scritta mentre ancora ne realizzavo un’altra e ho impiegato diversi anni per completarla. È una cosa un po’ ingarbugliata, ma non c’è mai un percorso lineare da seguire. Ho finito Interno metafisico con biscotti e mentre lo stavo concludendo avevo la sensazione che ci fosse già una storia successiva da raccontare e l’ho scritta. Generalmente faccio subito un breve soggetto e poi realizzo la sceneggiatura vera e propria, che però non è tecnica ma scritta in forma di racconto. Non scrivo quali inquadrature e quale montaggio devo usare, perché alla fine sono io a realizzare il fumetto. Questa storia, che a mio avviso era nata già pronta, ha atteso anni per essere realizzata e, quando è arrivato il momento, non aspettavo altro: nel tempo ho maturato il desiderio e la necessità di raccontarla, come se non potessi farne a meno.
I: Da quello che è stato raccontato, l’impressione è che sia tutto molto facile e naturale, ma mi piacerebbe che parlassimo anche del sano artigianato che c’è dietro una storia, perché è un lavoro che richiede enormi sessioni sulla sedia, ogni giorno, con grande costanza. Quando siamo rigorosi c’è la volontà di buttare e rifare, perché non c’è solo la scintilla che anima l’idea, ma questa va levigata, seguita. Nonostante siano quarant’anni che pubblico storie, quando cerco un certo tipo di sintesi, non la trovo subito, oppure la trovo per inquadrature che però suonano false, allora oso cancellare delle parti e queste sono le cose che amo molto del nostro lavoro, cioè l’artigianato vero e proprio. C’è questa componente da amanuensi che è intrinseca del nostro lavoro, che non possiamo non raccontare: ci sono vari livelli di raffinamento, di messa a punto, di creazione dell’atmosfera.
PP: Questo è molto importante: si parlava prima del progetto, della scelta della storia da raccontare, poi ci sono tutte le fasi successive, quelle tecniche, più pratiche, in cui l’idea deve prendere forma e ci sono molti modi per farlo.
I: Ci sono anche molti modi di guardare la stessa idea da punti di vista diversi.
SV: Nel mio caso, in tanti anni di lavoro, mi accorgo che ogni storia pretende di essere raccontata e sviluppata a suo modo. Non esiste un solo modo di raccontare, non inseguo un solo stile, perché ogni storia ha in sé il linguaggio giusto, tanto nella scrittura quanto nella parte visuale, nel ritmo e nelle luci.
OC: Ho un metodo per vedere se un’idea riesce a camminare. La forma dell’idea non è mai quella che progetti o auspichi, la devi trasformare in qualcosa. Ho scritto sceneggiature per altri e ho disegnato sceneggiature di altri e ogni volta ho adottato metodi diversi. Bisogna quindi vedere come l’idea si adatta a come la vuoi proporre. Per esempio: devo fare una storia di sei tavole per l’inserto a fumetti de Il Manifesto, sono solo sei tavole e devono andare a parare sul quotidiano, quindi devo fare una storia che abbia densità e fulmineità, come faceva Will Eisner con The Spirit. Contemporaneamente devo lavorare a un libro di centoventi pagine, per cui devo avere un’idea che le regga. La stessa idea, lo stesso concetto deve durare sei tavole e centoventi pagine. Parlo dell’idea, non della storia. Se manca l’idea non riesci a fare né sei tavole né centoventi. Io provo a raccontare l’idea e, se vedo che suscito interesse e curiosità, allora cerco di lavorarci. Ovviamente dev’essere un’idea che l’autore sente molto, perché deve lavorarci per tanto tempo.
I: Per me un’idea non basta per fare un racconto di centinaia di pagine, a meno che non sia un’idea che genera un universo. Con le idee c’è una verifica costante. Il metodo di cui parla Onofrio è il più sano che mi sia capitato di verificare ed è una cosa sulla quale insistono molto i giapponesi. Loro dicono che quando hai un’idea di una struttura di racconto, questo va buttato giù senza disegnarlo completamente. Poi quando c’è il testo, va fatto leggere ad almeno dieci persone che non sanno niente di fumetto, per capire con grande onestà cosa loro capiscano e cosa non capiscano. Se non capiscono cose che per te sono importanti, vuol dire che c’è un problema, che devi lavorare ancora. Io, per esempio, continuerei a lavorare all’infinito su un libro e ho bisogno che qualcuno mi dica “basta”. Le idee, come dice Onofrio, si modificano sempre. Una volta feci una pagina di una storia e mi sembrava finita, ma quando l’ho rivista dopo un anno mi sono reso conto che avevo disegnato poco, anche se nella mia testa vedevo già tutta la scena. È un cammino: insegui un filo senza sapere dove ti porterà e, più sei disponibile a farti trasportare, più vai lontano, più sei aperto e più trovi.
SV: Sono d’accordo. Tu sei l’unico ad avere il controllo sulla storia, però devi sempre avere presente che poi saranno in tanti a leggerla, quindi l’esecuzione della storia pretende un controllo affinché non prenda il sopravvento sull’autore. Una storia fuori controllo non può essere percepita come tale dal lettore, quindi è necessario che, nel passare dal livello ideativo a quello esecutivo, l’autore si chieda se la sua storia può funzionare o meno. È necessario che abbia la capacità di capire se quello che vuole raccontare e il modo in cui lo farà può arrivare ed essere controllato da lui, senza che ciò che vuol dire diventi altro. Per me è la fase più complessa, perché mentre si scrive e si disegna si deve poter controllare, mantenendo l’atteggiamento giusto rispetto a quello che si sta raccontando. I tempi di realizzazione, che non sempre sono chiari ai lettori, non sono sempre rapidi: a volte c’è bisogno di tempi che sembrano incredibili, perché è necessario il giusto controllo per fare in modo che tutto funzioni come si desidera.
OC: Da un lato abbiamo la nostra idea, dall’altro abbiamo l’editore. Quando ho raccontato la storia su Petrosino, l’hanno scambiata per una storia di gangster e mi hanno detto che ne avevano già due in magazzino. Io ho detto che non era una storia di gangster, ma che riguardava l’immigrazione: ci sono i gangster, perché quando ci siamo trasferiti negli Stati Uniti abbiamo portato anche le nostre peculiarità buone e cattive. Allora la storia è passata.
Non c’è una storia migliore dell’altra, è come la racconti che conta. Poi ci sono idee sulle quali ti devi impuntare e sulle quali non devi mollare.
I: Io faccio anche l’editore e dopo l’esperienza in Giappone ho capito che sono il primo lettore di un libro. Ho messo a punto un lavoro che per me forse è il migliore per consentire ai libri di diventare quello che dovrebbero essere. Come primo lettore, devo entrare in un prodotto che abbia già delle pagine pronte. C’è un lavoro di messa a fuoco per il quale serve una disponibilità enorme sia da parte dell’editore che da parte dell’autore, un lavoro di lima, in cui identificare un linguaggio preciso. Occorre sempre una grande consapevolezza. Ho appena pubblicato un libro in cui racconto il metodo di lavoro di una delle maestre della storia del manga, Rumiko Takahashi. È una grandissima story-teller, vuole lavorare con un editor giovane, perché non si accontenta di quelli che sono cresciuti leggendo le sue storie. Vuole trovare nuovi lettori e l’editor giovane rappresenta lo sguardo di una nuova generazione sul suo lavoro. Questo metodo fa sì che il fumetto giapponese continui a vendere milioni di copie, mentre il fumetto italiano in edicola è in crisi. Noi ce ne lamentiamo, ma in Italia nessuno investe in questo modo. In Giappone gli editor sono obbligati a leggere il giornale, perché è da lì che vengono gli stimoli per produrre le storie. Questo forse è uno degli elementi per cui in Giappone il fumetto è così popolare e vende così tanto.
PP: Ci sono storie che suscitano non solo interesse, ma anche emozioni: quanto è importante l’emotività per costruire una storia?
BB: Faccio fumetto da poco tempo, quindi mi adatto come posso, prevalentemente seguendo le emozioni. Quando provo qualcosa di forte, mi dico di fidarmi di me stessa, perché il lettore saprà capire ed emozionarsi. Quando immagino delle scene, finché non mi danno un colpo al cuore le boccio, tengo solo quelle che mi danno qualcosa.
I: Per me l’emozione è quello che ognuno di noi cerca.
SV: Per me non è molto diverso, l’aspetto emozionale è importantissimo. Devo essere sicuro che quello che mi interessa raccontare e il modo in cui mi interessa raccontarlo possano essere capaci di coinvolgere e di sconvolgere. Le mie storie non sono lineari, i miei personaggi non hanno due dimensioni. Mi sono avvicinato anche ad altri linguaggi, ho messo tutto insieme e ho deciso di portare tutto questo nel fumetto, il linguaggio che preferisco e con il quale mi sento più a mio agio. Quando racconto non posso compiere un percorso perfettamente lineare, è una ricerca che presuppone momenti in cui si ha la sensazione di aver raggiunto un buon risultato, ma subito dopo ci si accorge che bisogna lavorare ancora tantissimo. Devi scegliere dei personaggi in cui tu per primo ti identifichi, se vuoi portare poi gli altri a identificarsi. Non è un metodo scientifico, c’è dell’irrazionale, però è importante che abbia consapevolezza nella mia capacità di osservare con distacco quello che avviene. Se io non ci riesco, è importante che qualcuno lo faccia per me, cosa che rientra nelle fasi preliminari di cui parlava Igort: cercare quello che sta in mezzo tra l’autore e il lettore.