La grandezza di un eroe si misura dallo spessore dei suoi nemici.
Può essere questo l'assunto dal quale sono partiti lo showrunner e gli sceneggiatori del Marvel's Daredevil di Netflix per caratterizzare il personaggio di Wilson Fisk, il Kingpin che anche in ambito fumettistico è diventato la nemesi per antonomasia del Diavolo rosso. Il boss criminale di Hell's Kitchen, interpretato da Vincent D'Onofrio, è senza ombra di dubbio uno dei maggiori punti di forza del serial tv, merito della prova fornita dall'attore e grazie anche al modo in cui gli sceneggiatori hanno saputo costruire e far evolvere il personaggio nelle tredici puntate della prima stagione.
Frank Miller e la “rinascita” di Wilson Fisk
“Abbiamo bisogno l'uno dell'altro, Devil. Siamo soci in qualche modo. Siamo il potere in questa città.”
(DD Vol.1 #190 Jan. 1983)
Vincent D'Onofrio ha ripetuto in alcune interviste che, per la sua interpretazione di Wilson Fisk, si è ispirato all'immagine del personaggio costruita nei fumetti da Frank Miller. È stato proprio grazie a questo autore che Kingpin ha subito una profonda trasformazione che lo ha portato a essere uno dei criminali più iconici dell'universo Marvel.
Fisk fa la sua prima apparizione nel 1967 su Amazing Spider-Man #50, dove Stan Lee e John Romita Sr. lo presentano come un avversario dell'Uomo Ragno. Il personaggio, dotato di un'imponente stazza fisica, viene modellato sulle fattezze di Casper Gutman, interpretato dall'attore Sidney Greenstreet nella pellicola di John Ford del 1941, Il Mistero del falco.
Lee caratterizza il personaggio, nelle sue apparizioni come antagonista dell'arrampicamuri, come uno tra i capi della malavita organizzata newyorkese, fino a quando, da Daredevil Vol. 1 #170 del 1981, Frank Miller non decide di trasformarlo nel maggior antagonista di Devil, approfondendo la sua figura di indiscusso boss criminale di Hell's Kitchen.
Nelle mani dello sceneggiatore, Fisk diventa un leader criminale intelligente, subdolo e manipolatore, capace di muovere i fili delle sue trame nell'ombra, grazie a una serie di personaggi corrotti messi in posizioni strategiche nella politica, nei media e nell'amministrazione pubblica.
Ma il colpo di genio di Miller è quello di caratterizzare Fisk quasi come un uomo dalla doppia personalità, tanto efferatamente spietato con gli avversari quanto incredibilmente affettuoso con i proprio familiari, la moglie Vanessa su tutti.
Il culmine di questa ambivalenza psicologica del personaggio lo si trova in Devil: Amore e guerra (1986), graphic novel a firma di Frank Miller e Bill Sienkiewicz nella quale i due autori portano fino all'estreme conseguenze la caratterizzazione di Wilson Fisk, presentandocelo inerme e debole davanti alla malattia della moglie e al contempo spietato e terribile con la sua nemesi scarlatta.
Da allora in poi, qualunque autore abbia avuto a che fare con Fisk nel fumetto, non ha potuto non avere come base di partenza proprio il lavoro di Miller sul personaggio, lo stesso si dica per Vince D'Onofrio e gli sceneggiatori del serial di Netflix.
La costruzione di un criminale
“- Noi due abbiamo molto in comune.
– Non ci assomigliamo per niente.
– Io voglio salvare questa città, proprio come te.
– Dillo a quelli a cui hai fatto del male!
– Ragazzo, la vita non è una fiaba. Non tutti meritano un lieto fine.”
(Marvel's Daredevil – episodio #6 “Condemned”)
La prima mossa vincente degli sceneggiatori del serial Daredevil è stata quella di prendersi tutto il tempo necessario per la costruzione di Wilson Fisk. Il personaggio, pur non apparendo sullo schermo, è presente fin dal primo episodio, ma il suo nome non viene mai pronunciato dai suoi collaboratori, né deve essere fatto dai suoi alleati: contravvenire a questa regola è impensabile, equivale a morte certa. Basta questo semplice artificio per trasmettere la potenza e la spietatezza del personaggio, anche senza averlo mai visto in azione.
Eppure, quando Fisk appare per la prima volta nella scena finale del terzo episodio, di spalle nella galleria d'arte, trasmette una sensazione assoluta di fragilità e debolezza. La sua unica battuta – “Mi fa sentire solo” – in risposta alla domanda della sua futura compagna Vanessa su cosa gli trasmetta il quadro che hanno davanti, ce lo presenta come un uomo immenso fisicamente – quel completo nero sullo sfondo bianco – ma assolutamente introverso e timido.
Questa sensazione è portata avanti e trasmessa allo spettatore per tutto l'episodio successivo per poi, alla fine, venire ribaltata completamente davanti alla ferocia fisica di Fisk.
Gli autori riescono in questo modo a rendere perfettamente quell'ambivalenza psicologica del personaggio creata da Frank Miller nel fumetto e su quella dualità giocano tutto lo sviluppo del personaggio fino all'epilogo. In questa resa caratteriale Vince D'Onofrio si rivela un maestro di recitazione, tanto nella sua aderenza all'aspetto fisico del Fisk dei fumetti, quanto e soprattutto nel mettere in atto il cambio di registro psicologico. D'Onofrio passa con assoluta naturalità, in una frazione di secondo, dalla pacatezza nel tono del discorso e nelle movenze fisiche all'estrema rabbia e brutalità che sembrano quasi “possedere” all'improvviso il personaggio nei suoi scatti d'ira. Tutto ciò rende Wilson Fisk assolutamente imprevedibile all'occhio del telespettatore, mettendolo in tensione ogni volta che il personaggio appare sullo schermo, incapace di sapere cosa aspettarsi da lui.
Gli autori hanno puntato molto sull'attaccamento ai legami affettivi da parte di Fisk e indicativo di questa scelta è che, praticamente, tutti gli scatti d'ira e la conseguente ferocia disumana che egli dimostra nel corso delle tredici puntate hanno sempre come origine un'azione perpetrata a danno di Vanessa o della madre.
L'idea alla base del personaggio televisivo sembra essere quella di volerlo connotare con una propria etica e moralità quasi rispettabili, senza che queste al contempo neghino l'assoluta malvagità e anima criminale di costui.
Fisk è, o quantomeno appare, assolutamente convinto di essere un benefattore per Hell's Kitchen: i suoi metodi sono assolutamente giustificati e giustificabili in vista del fine da perseguire. È chiaro che la sua è una visione assolutamente distorta di una normale etica civile o sociale, ma il personaggio è avulso da questa distorsione ed è questo che nel serial viene sottolineato. Fisk cerca di occuparsi meno possibile delle sue “attività imprenditoriali”, delega per quanto possibile ai suoi collaboratori, in una sorta di negazione anche a se stesso della sua vera natura.
Siamo di fronte di nuovo a un'ambivalenza, carattere distintivo del personaggio fumettistico e televisivo. In ciò è esemplare il monologo tenuto dal personaggio nell'ultimo episodio, quando commenta così la parabola biblica del buon samaritano e alla fine conclude:
“Ho sempre pensato di essere il samaritano in quella storia. È buffo, vero?
Come perfino gli uomini più buoni vengano ingannati dalla loro stessa natura…
Io non sono il samaritano. Non sono il sarcedote, né il levita.
Sono l'uomo malvagio che ha aggredito il viandante su una strada dove non avrebbe dovuto trovarsi.”
Tutta la costruzione fatta attorno al personaggio, dagli autori e dall'attore che lo interpreta, è perfettamente calibrata, in una sorta di crescendo che porta verso l'inevitabile scontro finale tra Fisk e Daredevil. Ma alla resa dei conti non arrivano le incarnazioni assolute del bene contro il male: così come è estremamente efficace la rappresentazione dell'ambiguità morale di Matt Murdock data nel corso del serial, altrettanto lo è quella di Wilson Fisk.
Con semplici ma azzeccati passaggi narrativi, gli autori non ci offrono del boss criminale né uno stereotipo né un archetipo, rappresentazione del male incarnato. Le sequenze dei risvegli mattutini di Fisk, i suoi rituali della preparazione e della consumazione della prima colazione come il rito del vestirsi ci rivelano la metodicità di un uomo quale riflesso della sua estrema solitudine. E le identiche sequenze ripetute alla fine della puntata, con la “variabile impazzita” data da Vanessa, servono per trasmettere l'importanza di quella presenza femminile nella vita di un uomo solo, un uomo che dismessi i panni di boss criminale è, o vorrebbe essere, uguale a qualsiasi persona normale.
Ciò non di meno, la narrazione dell'infanzia e delle “origini segrete” di Wilson Fisk non fanno dimenticare allo spettatore con chi abbia veramente che fare, quasi a sottolineare che la compassione che si può provare per il personaggio non deve venir trasformata in giustificazione per le sue azioni.
La parete bianca che è obbligato a fissare il giovane Fisk pochi attimi prima di “trasformarsi” in ciò che sarà da adulto, si ricollega sia al quadro fissato dal personaggio nella sua prima apparizione, sia a una parete analoga davanti alla quale egli si congeda nella tredicesima puntata. Da un punto di vista narrativo, in questa sorta di loop c'è la rappresentazione di un memento personale che Fisk si autoimpone per ricordarsi ciò che è.
Da un punto di vista tecnico, è la dimostrazione dell'efficace costruzione registica e di sceneggiatura di quello che attualmente si può definire il più riuscito serial televisivo di matrice supereroistica.
Cristian
14 Novembre 2015 a 12:43
Concordo con quanto scritto