Da cartoonist raffinato a prolifico scrittore per la televisione e co-sceneggiatore del film italiano del momento, ovvero Lo chiamavano Jeeg Robot. Abbiamo incontrato Roberto Marchionni, alias Menotti, e in questa seconda parte parliamo con l’autore del suo percorso di autore fumettistico e del suo rapporto con il medium oggi.
Da quasi quindici anni, hai scelto di scrivere solo per TV e cinema. Ti manca il fumetto?
Certo che mi manca. Ma non sono mai stato un “feticista” del mezzo! Non amo – e non ho mai amato – i fumetti per i fumetti o il cinema per il cinema. Mi interessa raccontare storie e questo puoi farlo con molti mezzi diversi. Ovviamente, non sto dicendo che pensare una storia per il fumetto sia la stessa cosa che farlo per il cinema. Ogni linguaggio ha le sue peculiarità, le sue tradizioni, i suoi canoni però non credo che ci sia in assoluto un mezzo migliore di un altro. Per esempio, io non frequento i videogames, ma non escludo che si possano creare anche lì delle belle storie…
Ma storie a fumetti, a un certo punto, hai smesso di farle…
Questo perché nella seconda metà degli anni Novanta, il medium che avevo conosciuto e amato stava cambiando in Italia. Io appartenevo a un filone anche generazionale di autori definito dai critici post Valvoline ovvero il gruppo artistico soprattutto bolognese che in precedenza aveva contribuito a ricodificare il contesto del cosiddetto fumetto “d’autore”. Ma quel modo di fare fumetto era legato alla dimensione delle riviste (Frigidaire, Comic Art, Nova Express, etc.) che in quegli anni stava morendo.
Perché le riviste erano così importanti per voi?
Perché gli autori di Valvoline avevano definitivamente dimostrato su quelle riviste che i fumetti potevano parlare di tutto, ma proprio tutto, non solo di paperi e cowboy. Come mi è capitato di dire già in precedenti occasioni, i Valvoline avevano mostrato ad esempio che si poteva ambientare una credibile storia gialla in Russia o in Italia invece che a New York. Senza le riviste, chiamiamole d’autore, non c’erano altri spazi editoriali per proseguire quel discorso in maniera libera, in termini di formati e contenuti.
L’ultimo tentativo fu Cyborg, pubblicata prima da Star Comics e poi da Telemaco?
Sì. Come in parte anche per la rivista Fuego diretta da Igort, anche Cyborg – diretta da Daniele Brolli – cercava di coniugare la ricerca con il genere della fantascienza, per trovare nuovi sbocchi. Lì sopra, insieme a Massimo Semerano, pubblicai le prime puntate di Europa, che nel volume della Black Velvet, molti anni dopo, sarebbe diventato il mio ultimo lavoro fumettistico.
A dire la verità, non mi ritrovavo del tutto nell’impostazione della rivista. Perché cercando di tenere insieme il popolare e l’autoriale, Cyborg perdeva molto in termini di contenuti senza peraltro guadagnare abbastanza in termini di pubblico. Anche quell’iniziativa, infatti, non trovò un bacino di lettori sufficiente ad alimentarla ed alla fine chiuse.
A quel punto, mi sono detto che se dovevo dedicarmi a una dimensione “mainstream” come quella del fumetto popolare, tanto valeva farlo per le platee più grandi della televisione. E da Bologna mi sono trasferito a Roma.
Come è stato il passaggio alla serialità televisiva?
Traumatico. Immagina che sono passato dalla posizione di autore unico che progetta e realizza le proprie storie al tavolo da disegno, senza interferenze o preclusioni di sorta, alle riunioni di sceneggiatura con la Rai o Mediaset, affollate di editor, produttori, registi, dirigenti, tutti titolati a chiedere modifiche sulla storia!
Anche in questo contesto si può trovare soddisfazioni come autore?
In qualsiasi contesto espressivo esiste un modo di far bene le cose, diciamo che lavorare così ti spiana la strada per ottenere il contrario. Per fortuna non è andata sempre così. Per farti un esempio, tra i miei primi lavori c’era qualche puntata di Un posto al Sole e, pur dovendo rispettare le regole narrative e la dimensione industriale della soap opera, mi sono divertito come scrittore.
In realtà, i progetti che procurano frustrazione in TV e al cinema non sono quelli chiari fin dall’inizio, ma quelli più ambiziosi che promettono tanto e poi naufragano perché vittime dell’approccio italiano, più attento alla “gente da far lavorare” che alla qualità delle storie. Ovviamente il metodo non è garanzia di risultato, ma la comparsa sul mercato di nuovi committenti internazionali (SKY e Netflix in primis) ha sicuramente migliorato le cose. Personalmente sono convinto che privilegiare la scrittura, come si fa negli USA, sia fondamentale per produrre serie TV migliori.
Prima o poi ti rivedremo alle prese con i fumetti?
In realtà, come illustratore non ho mai smesso di partecipare a mostre ed eventi (proprio adesso sto disegnando una copertina in omaggio al fondo Bernardi). Quello che mi manca in televisione è lavorare a storie più personali, come riuscivo a fare nei fumetti anni fa e spero presto anche al cinema (questo, per esempio, è un film che prima o poi vorrei fare: Echo Hotel. Quindi non escludo che, trovando l’occasione giusta, possa tornare anche dietro il tavolo da disegno.
Quindi, se capitasse, sarebbe come autore sia dei testi sia dei disegni?
Scrivere per altri è divertente, ma certo avendone la possibilità sfrutterei anche la mia esperienza di autore grafico. Anche se non sono un disegnatore veloce e devo comunque pagare le bollette!
Che rapporto hai con il mondo del fumetto oggi?
Da credente non praticante. Quando posso lo frequento: di recente sono stato alla mostra di Roma “Fumetto italiano. Cinquant’anni di romanzi disegnati” e senz’altro andrò a Romics per Go Nagai. Non è facile però. Da molto tempo avevo smesso di andare alle fiere, perché mi deprimeva gironzolare tra gli stand senza avere storie mie da presentare. Quindi si può dire che il mio sia stato un distacco per struggimento.
Che fumetti leggi?
Per gli stessi motivi “struggenti” ho diminuito il numero di letture… Ma resta l’amore per il medium. Anzi, quando devo fare un regalo a qualcuno, finisco sempre per regalare fumetti, in particolare di quegli autori con cui sono cresciuto e che in molti casi ho conosciuto: Gabos, Igort, Toffolo, Ghermandi. E saccheggio il catalogo di editori come Coconino Press – per esempio ho trovato delizioso Dieci elegie per un ossobuco di Leila Marzocchi e Pinko Zeman.
Intervista realizzata a Roma il 3 marzo 2016
Ringraziamo Roberto “Menotti” Marchionni per la sua disponibilità e simpatia. Di seguito una breve biografia dell’intervistato.
Menotti, al secolo Roberto Marchionni, è uno sceneggiatore e autore di fumetti, televisione e cinema. Laureatosi al DAMS di Bologna agli inizi degli anni Novanta, studia fumetto alla scuola Zio Feininger e disegna illustrazioni per Il Gambero Rosso, Il Manifesto, La Repubblica, L’Espresso.
Esordisce nei fumetti su Frigidaire con L’uomo degli addii. Su Comic art pubblica la serie Storie tapine e poi Dream drama, insieme a Ottavio Gibertini. Su Mondo Naif, con Gabos, disegna Ladri di Lunarie, quindi passa a Vinicio, una serie erotica per Blue. Spostatosi a Berlino per proseguire gli studi, illustra libri e completa la pluripremiata graphic novel Europa, insieme a Massimo Semerano, già uscita parzialmente su Cyborg.
Trasferitosi a Roma sul finire del millennio, scrive sceneggiature per numerose serie televisive di RAI e Mediaset, quali Un posto al sole, Incantesimo, Onore e Rispetto, La squadra, 7 Vite. Nel 2005 si diploma in Filmmaking alla New York University e a Los Angeles vince il Gimme Credit Screenwriting Contest con il corto My Wife is a Zombie.
Nel 2010 è finalista del Premio Solinas e vince il concorso Serial Writer per piloti TV, rispettivamente con Guerra e Principi e Peones. Insieme a Marco Marchionni viene selezionato in numerosi festival internazionali per il soggetto cinematografico Echo Hotel. Nel 2015 con Nicola Guaglianone firma il debutto cinematografico di Gabriele Mainetti, Lo chiamavano Jeeg Robot.