X-Force – O di come Rob Liefeld cambiò il mondo dei supereroi
“Con il suo cappello da baseball e la sua candida passione per la cultura trash, Liefeld era il portavoce di una nuova generazione di ragazzini americani. Non punk, non hippy o geek; appartenevano alla Generazione X, il settore demografico dimenticato, i ragazzi troppo ordinari per meritare un movimento loro, troppo depoliticizzati per un manifesto. Le loro fantasie di potere non riguardavano giustizia sociale o riforme utopistiche, ma edonismo e vignette nichilistiche e prive di alcuno scopo. Tuttavia, come molti dei miei gruppi punk preferiti, l’entusiastico e arrogante dilettantismo di Liefeld infiammò una generazione di giovani disegnatori […] tutti lo prendevano in giro, ma il suo era uno stile personale.” (Grant Morrison – Supergods)
Con queste parole Grant Morrison riesce a sintetizzare efficacemente la divisività del lavoro e del personaggio di Rob Liefeld: un autore tanto denigrato quanto determinante nella storia del fumetto supereroico americano.
È fin troppo semplice aprire un albo di Liefeld e trovare dei difetti, delle anatomie scorrette, delle scelte di layout incomprensibili e una generale approssimazione.
“I suoi disegni non perdevano mai l’occasione di infliggere qualche nuova ed elaborata deformità al fisico umano. Le sue idee erano di seconda mano, le sue ricerche inesistenti, la sua visione eccentrica e singolare da qualsiasi punto di vista. Era una superstar.” (Grant Morrison – op. cit.)
Rob è un assoluto autodidatta, privo di alcuna preparazione artistica formale, che all’età di 24 anni riesce a vendere quattro milioni di copie di un singolo albo a fumetti (X-Force # 1): spesso viene rimarcato questo dato come il fattore principale che ha impedito al disegnatore californiano di sviluppare uno stile formalmente “corretto” – con anatomie proporzionate e tutto il resto. Dopotutto se disegnando male si vendono quattro milioni di copie che motivo c’è a impegnarsi oltre. Giusto?
Sbagliato.
La verità è che quello di Liefeld è uno stile fortemente voluto e ricercato dall’autore, è il frutto di una progressiva evoluzione che parte da un’impostazione sostanzialmente ordinata e attenta alla forma per arrivare nel tempo alla forma che conosciamo oggi. Se prendiamo infatti alcune pagine a caso della miniserie Hawk & Dove del 1988 (con Barbara Kesel ai testi) non troviamo traccia dei capolavori di grossolaneria presenti nella produzione successiva di Liefeld.
Sebbene il segno sia un po’ acerbo e sicuramente migliorabile, mancano in queste pagine i tropi che hanno reso Liefeld famoso e famigerato allo stesso tempo: nessuna anatomia deformata in maniera inverosimile, layout ordinati, sfondi presenti e una leggibilità generalmente agevole.
Come si è arrivati dunque allo stile che ha permesso a Rob di imporsi sulla scena fumettistica americana anni ’90 vendendo milioni di copie? Paragonando le tavole qui sopra con quelle di X-Force non possiamo che concludere che sia stata una scelta deliberata del disegnatore.
Pur difettando di una formazione canonica Liefeld era consapevole di quello che faceva colpo su di lui e di conseguenza sul suo pubblico di riferimento, sapeva bene cosa cercasse la sua generazione in un fumetto di supereroi: vedeva Arthur Adams, Frank Miller e dozzine di manga (da poco sbarcati negli negli USA grazie alla Viz Comics) e rubava tutto quello che poteva rubare riversandolo sulle proprie tavole senza preoccuparsi di rielaborarlo troppo. Riportava nei suoi fumetti tutto quello che riteneva cool.
Come ad esempio la famosa tavola del Ronin di Frank Miller.
La vulcanica creatività di Liefeld riflette ed è rappresentativa del decennio che rappresenta: gli anni ’90 erano il periodo in cui si prendeva indiscriminatamente tutto quello che c’era in giro, lo si copiava, lo si elaborava, lo si frullava e si vedeva cosa usciva fuori. Tiravano roba a caso contro un muro per vedere cosa si attaccava.
E Rob Liefeld era quel muro.
È impossibile capire Liefeld e il suo successo senza fare un passo indietro per capire una tipologia di rappresentazione artistica determinante nel mondo del fumetto: quello della caricatura.
“La caricatura è infatti quel modo di rappresentare personaggi e oggetti che carica certe loro caratteristiche, deformandoli in modo da fare apparire più evidente qualche loro aspetto a svantaggio di altri. Più che il comico, è il grottesco ciò che caratterizza le caricature, e il grottesco può a sua volta venire utilizzato per diversi scopi espressivi: situazioni umoristiche, situazioni marginalmente ironiche, situazioni da incubo, da allucinazione, esasperazioni espressive” (D. Barbieri – I Linguaggi del Fumetto)
Il Fumetto, figlio naturale delle vignette satiriche, è legato a doppio file alla caricatura sin dalle sue origini, tanto che questa risulta per molti versi la caratteristica fondante di molti dei codici dello stesso. Sebbene spesso associata al fumetto umoristico la caricatura non è limitata a questo genere, l’uso di questo tipo di “sintesi selettiva” permette al disegnatore di evidenziare alcuni dettagli allo scopo di rendere più immediata la comunicazione con il lettore e viene utilizzata nel fumetto supereroico sin dalla sua nascita.
Abbiamo già visto (QUI) come il Superman di Siegel e Shuster traesse gran parte della propria forza comunicativa dalla sua essenzialità che si contrapponeva al segno ricercato ed elegante di autori come Alex Raymond (Flash Gordon) e Milton Caniff (Terry e i Pirati) riuscendo così a far presa sul pubblico più giovane.
Il Batman degli suoi esordi è ben lontano dall’essere un fumetto umoristico ma Bob Kane e Bill Finger – facendo tesoro della lezione del Dick Tracy di Chester Gould – caricano i tratti significativi di eroi e villain (ma anche gli oggetti) in funzione espressiva riuscendo così a restituire al lettore le personalità e le atmosfere tensive tipiche dei thriller nel giro di poche pagine: una sintesi espressiva e narrativa che porta al successo immediato le avventure del Cavaliere Oscuro.
Gli stessi Stan Lee e Jack Kirby negli anni ’60 e ’70 sono i rappresentanti ideali di uno stile che predilige l’esasperazione delle scene d’azione e la magniloquenza delle tavole alla correttezza formale di corpi e oggetti.
A guardare bene possiamo dire che tre dei team creativi più importanti della storia del fumetto hanno costruito le proprie fortune disinteressandosi del realismo fine a se stesso per concentrarsi su una rappresentazione mediata e caricaturale della realtà.
Con il passare del tempo nel mondo dei supereroi si impone progressivamente uno stile più realistico e raffinato, attento alla correttezza anatomica e alla descrittività degli ambienti: l’influenza di artisti come Joe Kubert e Neal Adams si riverbera nei lavori di gran parte della produzione a fumetti statunitensi degli anni 80.
È proprio in questo momento che esplode al cinema un fenomeno con cui il fumetto non può fare a meno di confrontarsi: l’arrivo di Arnold Schwarzenegger e Sylvester Stallone sulla scena cinematografica cambia totalmente il paradigma dei film d’azione. La fisicità dei due attori cambia definitivamente la percezione che l’uomo comune ha dell’Action Hero.
Se nel 1938 gli ordinari eroi dei fumetti, una volta messi a confronto con la realtà, non riuscivano ad affascinare i più giovani – che quindi preferivano leggere le gesta straordinarie di un alieno totalmente fuori dall’ordinario – anche adesso i corpi dei supereroi sembravano davvero decisamente poco “super” una volta che li si paragonava ai fisici incredibili e muscolosissimi dei protagonisti di questi film.
Ed è qui che entra in campo la scelta consapevole e geniale di Rob Liefeld.
Stallone ha muscoli enormi? I miei eroi ne hanno di più. Schwarzenegger ha un giubbetto con venti tasche piene di armi? I miei eroi hanno tasche e sacchette portaoggetti ovunque. Rambo ha un mitra più grosso di lui? Cable ha un fucile che non s’è mai visto da nessuna parte (e che cambia da una tavola all’altra ma vabbè, sono dettagli).
Rob Liefeld fa esplodere di nuovo il fenomeno della caricatura proprio come fece Shuster con Superman, come Kane e Finger con Batman e come Kirby con… beh, con tutto.
Non si limita alla sola deformazione delle anatomie ma declina la caricatura espressiva in tutti i livelli della narrazione a fumetti a partire dai layout drogati, sempre e comunque scomposti, frammentati ed esplosi in vignette dalle forme più improbabili.
È negli anni ’80 che i manga cominciano a fare breccia nel mercato americano e i primi a subirne un’influenza decisiva sono proprio i giovani disegnatori che, come Liefeld, sono alla ricerca di nuove soluzioni da mettere nel proprio lavoro: se Frank Miller si fa rapire dalle inquadrature di Goseki Kojima per Lone Wolf & Cub, Liefeld è indubbiamente affascinato dalla “new wave” di mangaka che infarcisono le proprie tavole di retini e linee cinetiche.
Esattamente come succedeva in Ken il Guerriero (allora pubblicato negli usa dalla Viz Comics come “Fist of the North Star”) anche in X-Force le dimensioni dei vari personaggi cambiavano a seconda della necessità e la maggior parte delle tavole veniva impaginata verticalmente in modo da evitare quella “stabilità” normalmente indotta dalla narrazione canonica orizzontale (l’abbiamo accennato QUI)
Nella tavola qui sopra corpi e vignette si intersecano e si sovrappongono costringendo l’occhio del lettore a un movimento continuo e caotico all’interno della tavola.
Il layout porta all’estremo l’uso degli inserti (che avevamo già visto QUI) e la pagina bianca diventa il supporto di vignette che sembrano impilate una sopra l’altra piuttosto che disposte in un senso orizzontale: sul foglio bianco c’è la pagina con la vignettona dallo sfondo azzurro e Deadpool in basso, sopra c’è la vignetta con le linee cinetiche e in cima alla pila – messa di traverso – c’è l’a vignetta con il primo piano di Kane. Su tutto si stagliano le figure dei due protagonisti.
In pratica le vignette non sono disposte da sinistra verso destra (e neanche da destra verso sinistra come fosse un manga) ma dal fondo in avanti, come se fossero livelli di Photoshop, la narrazione procede direttamente dalla pagina verso il lettore.
Come abbiamo visto (QUI) i disegnatori utilizzano l’espediente dello sfondamento della griglia per facilitare il passaggio da una vignetta all’altro guidando l’occhio del lettore: in questa tavola il corpo di Kane nella parte superiore infrange quasi ogni vignetta facendo transitare il nostro occhio dallo spazio bianco in alto a sinistra alla “vignetta contesto” per poi, tramite un’altra invasione di campo, arrivare a quella che dovrebbe essere la vignetta in cui è effettivamente presente (quella con le linee cinetiche) e infine sfondare col piede nell’inserto diagonale a destra.
Alla stessa maniere il corpo di Deadpool invade il campo di tre vignette separate venendo proiettato verso chi legge in un’inquadratura in soggettiva, altro espediente che aumenta ulteriormente il coinvolgimento dello spettatore.
L’ assenza nella maggior parte delle tavole di sfondi propriamente detti – sebbene io creda che dipenda maggiormente dalla scarsità di tempo e voglia a disposizione di Liefeld – riesce a convogliare l’attenzione del lettore sull’azione in sé, senza che ci siano distrazioni di sorta, raggiungendo livelli di sintesi che prediligono sempre e comunque la funzionalità al realismo, la narratività alla descrittività.
Tutto concorre a sottolineare, esagerare e (appunto) caricare l’azione: l’obiettivo dichiarato è quello di travolgere il lettore con quante più trovate possibili libere da ogni vincolo imposto dai canoni di verosimiglianza o correttezza formale.
Che sia frutto di una ricerca consapevole o di una serie di fortunate coincidenze, lo stile di Liefeld è stato in grado di catturare e affascinare tutti quei lettori più giovani lettori che negli anni ’90 non si sentivano rappresentati dal fumetto supereroico contemporaneo e seppure, a livello storico, l’impatto non sia paragonabile a quello del Superman di Shuster possiamo però individuarne delle dinamiche molto simili che ricollocano Liefeld qualche gradino più in alto nella graduatoria degli autori più influenti della storia del Fumetto.
Leggo i suoi fumetti con lo stesso appetito con cui guardavo da bimbo i giocattoli in negozio . È come un gelato al cioccolato variegato al cioccolato, su un cono di cioccolato.
Forse è semplice fare i fumetti così, ma così li fa solo lui (Maicol & Mirco)
Spesso si parla del lavoro di Liefeld nel fumetto decontestualizzandolo, privando dunque l’analisi di un elemento di indagine importante, che ha come conseguenza – estremizzando – l’arrivare alla semplicistica conclusione: “Liefeld è un cane con la matita in mano!”
Il tuo pezzo, Andrea, ha il pregio di inquadrare l’autore nel clima da lui assorbito tanto negli anni della sua formazione che in quelli della sua esplosione sulla ribalta del mondo dei comics statunitensi. Dunque, lo spiegare il perchè Liefeld disegni in quel modo, a prescindere che il suo stile possa legittimamente piacere o meno.
Senza scordare che un’immagine, un’illustrazione, una tavola a fumetti (ma anche un film, una fotografia…) sono rappresentazioni, interpretazioni, sostituzioni. Un disegno non mostra la realtà, bensì rappresenta l’idea della realtà (realtà che può essere fittizia, narrativa) che ha negli occhi colui che lo realizza. Basterebbe questo, a prescindere da canoni di bello standardizzati, a dare valore a quel che Liefeld fece a inizio anni ’90: e la tua analisi lo spiega molto bene, Andrea.
E non dimentichiamoci anche del valore e delle legacy “narrative” lasciate da Liefeld (dando ovviamente a Fabian Nicieza quello che è di Nicieza): look come quelli di Cable e Cannonball sono ancora oggi iconici e punti di riferimento: personaggi come Deadpool sono diventati elementi fondanti dell’immaginario collettivo del fumetto (e poi del cinema) supereroico.
Commento puntuale e arguto come sempre. Mi fa piacere sapere di aver quantomeno centrato l’obiettivo che mi ero proposto, ho visto tanti articoli su Liefeld dire sostanzialmente “sì, era scarso ma…” o cose del genere e volevo invece scrivere un pezzo che non avesse un sapore “giustificativo” ma che fosse centrato su quello che di fatto questo autore porta e portava sulle sue pagine e – di conseguenza – nel mondo del Fumetto.