In gabbia! – Mister Miracle e la griglia a nove vignette
“Quando è obbligata a operare all’interno di limiti rigorosi l’immaginazione è spinta al massimo e produce le sue idee migliori.
Se le viene data completa libertà è probabile che l’opera si disperda” (T.S. Eliot)
Durante i primi anni ’90 noi lettori di fumetti americani, supereroi perlopiù, venimmo travolti dal “fenomeno Image Comics”. Un nutrito gruppo di artisti, tra i quali alcune superstar, dallo stile spettacolare rivendicava a gran voce il proprio diritto a non avere limiti di alcun tipo (e anche quello di incassare cospicue royalties ma questo non ci interessa al momento) tanto da decidere di abbandonare il proprio posto di lavoro nelle major, principalmente la Marvel Comics, per fondare la propria casa editrice.
Una delle conseguenze più facilmente percepibili fu quella della totale rottura delle canoniche gabbie narrative e l’adozione di layout sempre più liberi e dalle composizioni via via più ardite. Il successo commerciale della Image fece sì che presto tutti gli editori si accodassero a questo particolare stile narrativo mettendo in secondo piano quegli autori che invece prediligevano un’impostazione narrativa più solida. Anche qui in Italia il fandom, abbagliato da questi nuovi “effetti speciali”, cominciava a storcere il naso di fronte all’ortodossia grafica della Sergio Bonelli Editore, anche il sottoscritto.
Per uno strano scherzo del destino (e dell’editoria italiana) nel 1993 arrivò in libreria il volume di Watchmen della Rizzoli: il capolavoro di Moore e Gibbons era già stato pubblicato in fascicoletti su Corto Maltese ma l’edizione che fece percepire alla maggioranza dei lettori la grandezza dell’opera fu quella in volume (anche perché i fascicoletti di Corto Maltese erano privi degli inserti testuali presenti nell’opera originale). La serie ideata dal bardo di Northampton aveva un’impostazione rigidissima: una rigorosa gabbia a nove vignette che raramente ammetteva deroghe.
Noi lettori italiani ci trovavamo pertanto a confrontare, quasi simultaneamente, due visioni diametralmente diverse dello stesso genere fumettistico: da una parte avevamo tavole roboanti legate tra di loro da una sceneggiatura spesso esile e dall’altra il massimo della formalità, ben più rigido di un Tex qualunque, al servizio di una storia dai contenuti stratificati. Il messaggio, per chi lo voleva cogliere, fu più che chiaro: la totale libertà di layout non garantiva un fumetto migliore, anzi.
“Suddividere un testo vuol dire scandirlo. Il “testo” del fumetto obbedisce a un ritmo che gli viene imposto dalla successione dei quadri”
(Thierry Groensteen – Il sistema fumetto)
In questi ultimi anni abbiamo avuto modo di vedere come alcuni tra gli autori più importanti nel panorama dei comics abbiano deciso di ricorrere a questa ortodossia formale per poter raccontare le proprie storie in maniera più efficace. Si veda la gestione del ritmo studiata da Geoff Johns e Gary Frank nella recente miniserie Doomsday Clock ad esempio.
Un altro scrittore particolarmente attento alla composizione della tavola è indubbiamente Tom King che già in Visione, Omega Men, Sheriff of Babylon e Batman ha ricercato, e richiesto ai disegnatori di turno, approcci visivi accuratamente studiati.
In Mister Miracle, in coppia con Mitch Gerads, l’approccio alla griglia a nove vignette si fa ancora più rigido e inflessibile che non in passato: in Watchmen (e nel suo sequel Doomsday Clock) infatti la griglia è sempre presente ma è spesso nascosta e in un certo senso indebolita.
Nel caso di Mister Miracle invece abbiamo una gabbia onnipresente che non accetta alcun compromesso e anche dove, come nelle vignette 4 e 5 qui sotto, l’inquadratura potrebbe essere rappresentata da un’unica vignetta più grande King e Gerads optano per frammentarla in un polittico.
“…un tale scostamento dal modello dominante è generalmente motivato dalla volontà di un’escalation nell’espressione di un momento cruciale del racconto […]. Quando il formato del quadro si scosta dalla norma, osserviamo così che la sua funzione strutturante tende a confondersi con la funzione espressiva”
(Thierry Groensteen – Il sistema fumetto)
Pare chiaro quindi che il layout non venga interpretato solo in maniera strumentale (funzione strutturante) dai due autori ma che sia parte stessa del fatto narrativo (funzione espressiva). In genere l’uso di una impostazione ortodossa è infatti figlia della necessità di far concentrare il lettore sugli eventi narrati all’interno delle vignette senza distrazioni di sorta. La funzione classica della famosa “gabbia bonelliana” è infatti quella di sottolineare il racconto senza farsi vedere.
In questa tavola di Tex si nota come Stefano Andreucci faccia di tutto per evitare un “effetto griglia” creando un layout leggermente asimmetrico. In questo modo la lettura procede in maniera “normale” senza che nulla, oltre ai disegni nelle vignette, balzi particolarmente all’occhio.
Di contro invece la gabbia in Mister Miracle è assolutamente ostentata, è parte stessa del racconto.
“Dopo pagina quattro, tutto è raccontato nella griglia a nove vignette, e serve a dare un senso di claustrofobia. Per rendere la sensazione di essere intrappolati, non solo nei temi e nelle parole, ma nella stessa struttura delle vignette” (Paste Magazine)
La griglia è quindi una gabbia fisica che imprigiona lo stesso Scott e lo isola dal resto del mondo. In Mister Miracle #3 Scott viene contattato da Forager, i due sono nella stessa stanza, seduti sullo stesso divano, ma separati da questo invisibile spazio bianco che non lascia passare neanche i segni grafici dei baloon. Nulla riesce a passare l’isolamento del protagonista
L’isolamento di Scott Free è anche sapientemente sottolineato dall’uso del colore di Gerads: Forager, con i suoi colori caldi e sgargianti, sembra quasi posticcio, un’allucinazione del protagonista. La gabbia di Mister Miracle è dunque una gabbia dalla quale lo stesso Scott Free, e noi lettori, dobbiamo riuscire ad evadere se vogliamo scoprire il vero significato della storia.
Ma andiamo con ordine: quali sono i punti di forza di questo impianto registico?
Per ogni pagina abbiamo tre strisce suddivise in tre vignette ciascuna, quindi, come abbiamo visto, tre potenziali unità narrative.
Preparazione – pausa – risoluzione
Oppure pausa – pausa – risoluzione
Oppure una lunga sequenza di pause che servono a enfatizzare la risoluzione finale che sarebbe altrimenti innocua
Ovviamente ci sono dozzine di altre soluzioni ma credo di aver reso l’idea.
Le strisce così scandite permettono di sottolineare i singoli momenti all’interno di ogni sequenza, il lettore viene chiamato a concentrarsi sui beat, sui singoli istanti, che invece si perderebbero all’interno di vignette più ampie cariche di dettagli e dialoghi. Grazie a questa scansione della tavola ogni baloon, ogni espressione facciale acquisisce un significato specifico e ben evidenziato.
Le vignette sono tutte simmetriche e tutte della stessa dimensione. Si potrebbero avere vignette di dimensioni diverse tra loro, dando così maggiore o minore importanza ai singoli eventi, invece si assegna a ogni unità lo stesso identico peso. Potremmo quindi sostenere che tutte le vignette hanno la stessa funzione all’interno della tavola? Ovviamente no.
La posizione che queste hanno all’interno del layout ne determina anche la funzione e la gabbia così composta “regala” all’autore un congegno narrativo molto interessante e utile: la vignetta centrale.
La quinta vignetta infatti si pone esattamente al centro della tavola, il punto che maggiormente attira l’attenzione del lettore al momento in cui dà la primissima occhiata alla pagina, e può (ovviamente non è obbligatorio ma è un’ottima opportunità) essere sfruttata dagli autori per evidenziare il tema portante di tutta la composizione. Il suo fulcro narrativo.
Come espresso in maniera esemplare da questa tavola presa dal Moon Knight di Doug Moench e Bill Sienkiewicz.
Da parte loro King e Gerads sfruttano questa opportunità in maniera quasi sistematica all’interno dell’albo facendo convergere molti dei momenti determinanti della storia proprio in questa porzione di layout.
Tutta la serie è punteggiata dal reiterato tormentone “Darkseid is” introdotto da Grant Morrison durante la sua gestione della JLA negli anni ’90 a ribadire che, a differenza di altri villain supereroistici, Darkseid è l’incarnazione del male, quello che è dentro ognuno di noi. Nel terzo albo, la sola evocazione del nome, nella vignetta centrale, cambia il mood intero della sequenza.
Nelle prime quattro vignette abbiamo uno Scott Free innamorato, che si avvicina alla sua compagna per abbracciarla ma poi, come un tarlo che rode dentro, centrale e inevitabile, arriva il tormentone e Scott si ritrova di nuovo isolato dal mondo che lo circonda. “Darkseid is” è il perno attorno a cui ruota tutta la tavola ed è anche uno dei fili conduttori di tutta la serie.
Ci sono poi due vignette che assumono un ruolo particolarmente significativo all’interno delle tavole: e sono la prima, in alto a sinistra, e l’ultima, in basso a destra. L’entrata e l’uscita dalla pagina.
La vignetta che ci presenta la situazione e quella che, a meno che non si tratti di quella che conclude definitivamente la storia, è la vignetta che ci deve convincere a girare pagina o addirittura a comprare l’albo successivo. Anche qui il layout a nove vignette facilita, in un certo senso, il lavoro dello sceneggiatore che può mettere tutti i dati fondamentali della composizione lungo la diagonale che va da vignetta 1 a vignetta 9.
Preparazione – azione – risoluzione
Sembra quasi un paradosso ma questa impostazione così ferrea e rigida si dimostra di una duttilità ed efficacia impressionante: tutti questi strumenti permettono agli autori di avere un controllo significativo del mezzo sul quale lavorano permettendo loro di influenzare il tempo di lettura, le cadenze, le risposte emotive ecc…
A questo si aggiunge, in Mister Miracle, la valenza narrativa della gabbia stessa come sottolineatura degli altri elementi: l’isolamento, il tormentone di “Darkseid is”, la scansione di ogni attimo, il ritmo ossessivo e martellante. Tutto converge verso un unico punto: il racconto dell’isolamento e della depressione di Scott Free.
Si pensi che normalmente, nei fumetti mainstream, le psicosi sono sempre incarnate da personaggi pittoreschi (non ultimo il Joker) e quasi sempre malvagi; raccontare la depressione in maniera credibile, empatica, senza banalizzare o enfatizzare, senza alcun espediente sopra le righe è un compito arduo e assolutamente coraggioso. Ancor più se si pensa che Mister Miracle è, all’interno della nuova mitologia americana pianificata da Jack Kirby, la versione supereroica di Gesù Cristo.
Può Scott Free fuggire da questo isolamento? Potrà vincere la sua lotta contro un mondo che fatica a comprendere? C’è speranza per il nostro eroe? Lo sapremo alla fine della miniserie (al momento in cui scrivo siamo al sesto numero di dodici previsti).
Ma abbiamo già un indizio:
L’unica volta in tutta la serie in cui lo iato viene sfondato, in cui i baloon riescono a passare l’isolamento, è quello in cui Scott si apre con la compagna e racconta un momento significativo di sé stesso e della sua infanzia.
Probabilmente alla fine, come sempre, l’Amore ci salverà tutti.
Complimenti, molto interessante e sono d’accordo con te. A questo proposito mi ricordo anche l’arco narrativo “Five Years Later” della Legion of Super Heroes”, spesso Giffen fa uso di questa impostazione.
Vero. Mi è stato fatto notare anche da altri oggi e potrebbe essere un bello spunto per un altro articolo.