Art Spiegelman: la lezione di Maus
“Maus” di Art Spiegelman è una incredibile testimonianza storica. E uno dei fumetti che ha raggiunto uno dei più alti vertici della nona arte. Per questa ragione ritengo che, se si debba iniziare a inserire un primo fumetto come canonico nell’insegnamento delle scuole superiori, questo possa essere il più indicato. Naturalmente, il pregio è anche nel fatto – inutile negarlo – che si occupa, con rigore storico, di un fenomeno centrale della storia del ‘900 come la Shoah. Ma, allo stesso tempo, che lo fa con un radicamento forte nella tradizione fumettistica.
Art Spiegelman, nato nel 1948, emerge nella scena del fumetto underground americano negli anni ’70: Breakdowns (1977) raccoglie queste sue prime produzioni, realizzate dal 1972 in poi, incluso “Prigioniero sul pianeta Inferno” (1975) che costituisce un primo approccio, totalmente diverso, al tema dell’Olocausto, e che viene poi inserito all’interno di Maus.
Il tema è la morte della madre, per suicidio, come conseguenza “a distanza” degli orrori della Shoah, comune in molti deportati (in Italia, non possiamo non pensare al caso di Primo Levi, adattato tra l’altro anch’egli a fumetti) e il difficile rapporto col padre e con l’eredità pesantissima che si porta – nel fumetto, è il protagonista Artie ad apparire con la divisa del detenuto del lager, in modo simbolico (la vicenda è ambientata nella New York dei ’70).
L’opera presenta i tratti stilistici propri dell’underground: un segno cupo, nero, scavato come un’incisione xilografica, basato su una frequente deformazione simbolica dei personaggi.
Tuttavia Spiegelman sente poi la necessità di superare questo approccio per affrontare nuovamente il tema: e nasce così la scelta di Maus.
Nel 1978, intanto, nel fumetto americano si era imposta una svolta rilevante con l’apparizione di “A contract with God” di Will Eisner, altro fumettista di origine ebraica particolarmente importante nell’evoluzione del medium (come la letteratura e il cinema americano, anche il fumetto vede una presenza centrale di autori di origine ebraica). “Un contratto con Dio” non parla – non direttamente – di Shoah: ma certo c’è il tema di un ebreo che ritiene rotto il suo “patto con Dio” in seguito a una terribile sventura (individuale, in questo caso). Un fumetto potente e terribile, realizzato però usando il segno cartoonistico, apparentemente “leggero”, che Will Eisner aveva codificato su The Spirit (1941), il suo fumetto “super-eroicomico”, potremmo dire, garbata parodia del supereroismo americano classico. Non è, in assoluto, il primo “graphic novel”, essendo il termine diffuso praticamente fin dall’esordio del fumetto: ma è quello che porta al successo di questa forma narrativa, analoga al romanzo.
Art Spiegelman inizia così proprio in quel 1978 a intervistare il padre, con l’idea di dedicare la sua prossima opera a questa testimonianza. Intanto, con la moglie Françoise Mouly, da poco sposata, come editore, avvia una rivista centrale nel fumetto underground, Raw (in inglese, “grezzo, non lavorato”), sottotitolata – anche – “The Graphix Magazine of Postponed Suicides”. Raw , edita dal 1980 al 1991, diviene la rivista seminale del fumetto d’avanguardia contemporaneo, ospitando autori come Charles Burns, Chris Ware, José Muñoz, Yoshiharu Tsuge, Jacques Tardi e molti altri.
Sul secondo numero di Raw, a dicembre 1980, appare il primo capitolo di Maus – A survivor’s tale. L’elemento cruciale è la scelta di Spiegelman di utilizzare la nota metafora degli ebrei come topi, ponendo i nazisti come gatti. Le altre nazioni sono poste con altri animali dalla valenza sempre simbolica: gli americani sono cani, i canadesi cervi, gli zingari libellule, gli inglesi pesci, i polacchi maiali. I francesi non sono raffigurati, ma c’è una riflessione – tramite una conversazione con la fidanzata, che appare come personaggio (proiezione della Mouly) – che spiega l’intenzionale valore allegorico della rappresentazione.
In questa tavola, si evidenzia come i francesi sarebbero rappresentati come rane, per un simbolismo poco lusinghiero specie nella mentalità americana (“mangiarane”, come indice di gusti culinari bizzarri e inutilmente raffinati), in virtù del loro collaborazionismo con i tedeschi (i polacchi, centrali ovviamente nella narrazione, incentrata sul campo di Auschwitz, appaiono ancor più spregiativamente come maiali). Perfino gli israeliani moderni, dice tra le righe Spiegelman, li rappresenterebbe come “porcospini” (in modo sofferente, Spiegelman ha criticato la politica israeliana). Non ci sono gli italiani, ma immaginiamo che avrebbero avuto un ruolo sicuramente ancor più negativo (a margine, un pensiero cattivo: se ci fossero italiani in Maus, avrebbe avuto lo stesso successo entusiastico che ha ottenuto nella nostra nazione?).
Lo schema-base è antichissimo, e risale alla notte dei tempi: già la fiaba antica sfrutta il simbolismo del topo come allegoria dell’uomo (si pensi al topo di campagna e al topo di città, fiaba del greco Esopo, del VI secolo a.C.). Ma, come noto anche ai meno esperti del fumetto, è una metafora ampiamente ripresa dai comics e dall’animazione.
Nel 1910, in particolare, nasce il fumetto seminale sul rapporto topo-gatto-cane: Krazy Kat di George Herriman, ambientato nella Coconino County (da cui anche il nome di una delle principali case editrici italiane specializzata nel fumetto d’autore). Il fumetto “moderno” era da poco nato con Yellow Kid, nel 1896 (data convenzionale della fioritura giornalistica del fumetto, che ha una continuità forte con opere precedenti, chiaramente), e Krazy Kat è opera fortemente seminale, quindi. In uno scenario lunare, surreale, una folle gatta è innamorata del topo Ignatz, che tuttavia la prende a mattonate, punito dal cane-poliziotto che lo sbatte periodicamente in galera). Il segno di Maus non è, immediatamente, quello di Herriman, ovviamente. Ma certo ne richiama l’assoluta essenzialità.
Ma, ovviamente, non si può trascurare il topo per eccellenza, Mickey Mouse, nato nel 1928 dal maggiore cartoonist mondiale, Walt Disney (“diverrai famoso come Disney!” augura il padre ad Artie, che abbozza con un po’ di insofferenza). Un cartoon e un fumetto di rilevanza mondiale, e giocato sull’opposizione col gatto Gambadilegno, con una coorte di altri animali antropomorfi.Nel periodo in cui tutti gli eroi del fumetto, in specie i supereroi americani, “facevano il loro dovere” in Europa contro i nazisti, anche Topolino è utilizzato nella propaganda antinazista, con grande efficacia data la sua presa mondiale, sull’infanzia e non solo. Anche in Italia la Mondadori dovette rinunciare alla lunga eccezione censoria nei suoi confronti (come documentato in Eccetto Topolino, eccellente saggio sul rapporto tra fascismo e fumetti).
Nell’opera, appare citato un passo di un giornale d’epoca nazista, degli anni ’30, che condanna Topolino, espressione della decadente cultura americana proprio per l’adozione di un topo come protagonista, un “animale inferiore”. L’ostilità del nazismo è quindi pregressa, da inserirsi nel generale antiamericanismo (in verità, Walt Disney a sua volta non era esente, come la società americana, di un certo antisemitismo: ma questo allargherebbe troppo il discorso).
Inoltre, un elemento sicuramente presente è la sistematica disumanizzazione degli ebrei nella propaganda nazista nella loro figurazione animale. Il film di propaganda nazista “L’ebreo errante” (1937) paragona appunto gli ebrei a ratti, con un rimando alla peste nera di metà ‘300 (non a caso, la diffusione del gatto, dall’oriente, avviene all’epoca anche in connessione a tale piaga, per prevenirla).
Del 1940 è Tom e Jerry di Hanna e Barbera, proprio negli anni delle vicende di Maus, e molti altri casi si potrebbero citare. Ma sopra ogni altra merita di citare un’opera letteraria del 1947, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale (che vi appare allegorizzata): Animal Farm di George Orwell – nel 1954 adattato in un cartone animato inglese, visivamente di marca disneyana. Qui la metafora animale è evidente, ma appare il testo seminale per l’adattamento contemporaneo della metafora animale. I maiali qui sono i leader del partito comunista, i cani l’esercito, i cavalli i tecnici lavoratori ma stolidi, le pecore le masse manipolabili. Non manca il gatto, che ha il compito di rappresentare la borgesia bohemienne e artistoide, che simpatizza con la rivoluzione in modo indolente e opportunista. I topi, come tutti gli animali selvatici, sarebbero il lumpenproletariat, ma restano di fatto fuori della metafora. Orwell, al tempo, ottenne ovviamente contestazioni per il parallelo comunisti-maiali, da cui si difese sostenendo che la metafora non ha valenza spregiativa in sé: il maiale è scelto – sostenne – per la sua alta intelligenza, e “maiali” positivi sono il Vecchio Maggiore (crasi di Marx e Lenin) e Palla di Neve (Trotsky).
Va detto che questo elemento allegorico adottato da Spiegelman ha avuto anch’esso numerose contestazioni: in particolare, sulla scena underground è apparso nel 2011 Katz, che ristampa l’opera (in modo illegale) ma sostituisce tutti i personaggi con dei gatti. Il concetto è il rifiuto della allegoria di Maus che viene ritenuta, in sostanza, se non propriamente razzistica, comunque pericolosa. Lo stesso Spiegelman, nell’introduzione del secondo volume di Maus (quello dedicato ai lager, dopo un primo che narra dell’avvio delle persecuzioni), è costretto ad affrontare tali critiche.
Notiamo qui che i personaggi non sono animali antropomorfi, ma umani che indossano una maschera animale. Il concetto appare essere evidente: la metafora non ha un carattere etnico, ma di spirito nazionale, e comunque una valenza simbolica, non individuale. Non mancano singoli maiali, e singoli gatti, presentati come vittime e quindi – anche graficamente – con simpatia. Inoltre, il tema della maschera ricorre anche all’interno dell’opera, dove i “topi” spesso devono mascherarsi da “maiali” polacchi per sopravvivere. L’identità quindi non è etnica in senso forte: è una maschera, una sovrastruttura immaginaria (così come, in effetti, l’archetipo nazista dell’ebreo “tipico” è puramente allucinatorio: non c’è una possibile distinzione etnica). Un tema, se vogliamo un parallelo con la letteratura, con aspetti pirandelliani, e altri riferimenti alla letteratura del ‘900, come La metamorfosi di Kafka (autore di origine ebraica…) che anche l’autore ha esaminato.
Si sostiene spesso che l’elemento della metafora animale è utile per rappresentare senza eccessiva violenza il lager, e certamente è vero per l’aspetto dell’essenzialità del tratto. Se vogliamo, l’asciuttezza del segno di Maus è un correlativo oggettivo dello stile estremamente sobrio di Levi – e molti altri sopravvissuti – nel raccontarlo. Non c’è necessità di caricare a fosche tinte l’orrore, anzi, si rischia una sorta di “pornografia del dolore” che va invece evitata. Ma, forse, Spiegelman poteva ottenere questo anche senza questa metafora. In fondo, come evidenzia proprio la reazione di Katz, la metafora di Spiegelman semplifica a un primo livello, ma complica in un secondo piano. E la cosa è voluta: frequentissimi sono i momenti in cui la metafora si spezza. Il punto cruciale è forse questo, dove – senza il tema della “maschera” – topi e gatti sono in verità indistinguibili (è solo il delirio nazista ad operare).
Nel 2011 infine Spiegelman realizzò MetaMaus, una analisi del livello metanarrativo e metafumettistico della sua opera: a conferma della sua indiscutibile complessità.
Secondo Spiegelman, la prima pubblicazione di Maus – A survivor’s tale su Raw spinse inoltre Spielberg a produrre An American Tail (gioco di parole tra tale, storia, e tail, coda) di Don Bluth, incentrata sulle vicende del topo Fievel in fuga dai pogrom russi. Il film uscì nel 1986, e Spiegelman, sapendo della lavorazione dell’opera, accelerò il completamento della sua opera, che venne diffusa in libreria (e non nelle fumetterie, nate negli USA alla metà dei ’70), ottenendo una legittimazione nella “cultura alta”. Nel 1992 il secondo volume dell’opera, “E qui cominciarono i miei guai”, vale a Spiegelman il Premio Pulitzer, prima volta in cui veniva concesso a un fumetto. Spiegelman entra al New Yorker, dove nel 1993 realizza una emblematica copertina, dove un ebreo chassidico bacia una donna di colore (è evidente il sottotesto “politico”, sempre sottile e mai urlato nel miglior Spiegelman).
Nel 1999 l’influenza di Spiegelman è tale da fruttargli anche alcune polemiche: definito “The King of Comix” dal cartoonist Ted Rall (su posizioni di sinistra radicale altamente polemica, per usare un eufemismo), in senso dispregiativo, in cui viene anche accusato di vivere alle spalle di una sola buona opera. Ma di lì a poco Spiegelman ne realizza almeno un’altra potente e significativa: In the Shadow of No Tower (2004), dedicato all’attentato dell’11 settembre 2001 (per cui realizza anche la cover del New Yorker, ripresa nella copertina del libro, dove è spezzata, per contrasto, da un’immagine coloratissima tratta dai fumetti classici). La realizzazione di un nuovo fumetto di Spiegelman, che non elaborò altre opere ampie dopo Maus, fu nell’ambito del fumetto un segno dell’eccezionalità dell’evento (Spiegelman disapprovò comunque la reazione repubblicana, come oggi è estremamente attivo contro Trump).
Un lavoro quindi complesso e stratificato, ma che parte da un primo livello accessibile a tutti, e che si presta a numerose riflessioni ed ampliamenti. Su Maus, consiglio anche altri approfondimenti de Lo Spazio Bianco.