Nel labirinto di Kafka, gli incubi di Kuper.
Come noto, su questo blog mi occupo del rapporto tra letteratura e fumetto: il che implica non solo gli adattamenti letterari, ma anche le altre liason possibili tra questi due ambiti. Il caso di Peter Kuper e Franz Kafka rientra a un primo livello in un adattamento piuttosto tradizionale: l’autore statunitense infatti ha avviato una rigorosa opera di studio e adattamento sui più importanti lavori kafkiani, che è forse la parte più nota e rilevante della sua produzione.
Naturalmente, il lavoro su Kafka non costituisce che una parte del lavoro di Kuper, che ha realizzato anche opere originali (Lo Spazio Bianco ne ha parlato ampiamente) e un notevole adattamento di Cuore di Tenebra. Tuttavia, il lavoro su Kafka è quello che più lo contraddistingue, forse anche per la comune “chiave di K” che segna i cognomi dei due autori (entrambi di cinque lettere, come pure i loro nomi).
Il suo lavoro più noto, forse, è quello sulla più celebre opera kafkiana, la Metamorfosi (vedi qui), che è stata affrontata da molti autori. Kuper, però, ha condotto il suo studio più a fondo, e ha indagato anche racconti “minori” (se questo termine si può sensatamente applicare a Kafka).
La recente raccolta “Gli incubi di Kafka”, edita da Tunué all’inizio di questo 2022, può essere un buon punto di partenza, con i suoi 14 racconti, brevi e brevissimi, trasposti nel tipico stile kuperiano. Naturalmente, potrebbe costituire un’ottima occasione per scoprire i racconti originari e confrontarli con l’adattamento: in particolare, potrebbe essere opportuno come lavoro scolastico di una scuola superiore (o per singoli allievi molto brillanti di una terza media), sia per approfondire Kafka, sia per condurre un’analisi di un adattamento a fumetti, che è più agevole in questa forma breve.
Lo stesso Kuper spiega il punto di forza del suo lavoro: aver utilizzato uno stile che, in una amalgama personale, attinge a quegli autori che, nello stesso periodo e luogo di Kafka, rappresentavano le stesse inquietudini della Mitteleuropa della prima metà del ‘900, tra crisi dell’io su base freudiana ed enormi sconvolgimenti sociali.
Otto Dix e George Grosz sono rivendicati come numi tutelari che vengono subito in mente, anche per il loro muoversi tra arte e caricatura (amarissima, come si confà al periodo), usando quindi spesso, se non il fumetto, il cartoon, in una sintesi potente e direi quasi atroce nella forza espressiva.
Kuper cita anche, e vengono in effetti altrettanto rapidamente in ment, Frans Masereel e Lynd Ward, autori di fumetti xilografici “d’arte”, antesignani del moderno graphic novel che andrebbero recuperati con forza (ne avevo parlato qui).
Kuper si interroga anche sul fatto che Kafka, anche se non è attestato (sarebbe interessantissimo, e penso che Kuper abbia cercato, sia pure invano, di appurarlo), potrebbe aver visto il fumetto popolare di allora, dove non mancavano autori volti all’esplorazione dell’inconscio: McCay con Little Nemo, su tutti, ma anche Feininger.
Dato che Kafka compì anche un viaggio in Italia, nel 1911, mi piacerebbe pensare (è quasi impossibile) che abbia sfogliato anche il Corriere dei Piccoli, e abbia visto le storie di Attilio Mussino, mio conterraneo cuneese illustre, illustratore di Pinocchio e del primo fumetto italiano, Bilbolbul (1908): due eroi incentrati entrambi su metamorfosi sottilmente inquietanti.
Tra i riferimenti che lo stesso Kuper fornisce, e che sono particolarmente rilevanti per il suo lavoro, vi è quello a Kathe Kollwitz, artista tedesca che si distinse in particolare per l’uso della xilografia, con un segno nervoso che si avvicina molto a quello di Kuper (che ovviamente adotta comunque una sintesi personale e più fumettistica).
Dati i presupposti di questo lavoro di scavo rigoroso, gli adattamenti risultano molto belli e significativi.
Il libro si apre con “Viaggio in montagna”, che si ricollega (e Kuper lo sottolinea con forza nelle scelte di questa storia brevissima, di tre pagine) ai graffiti preistorici: la prima fonte a cui si può far risalire l’arte sequenziale di cui il fumetto moderno è l’incarnazione novecentesco. Una storia perfetta per aprire il volume.
“Una favoletta”, incentrata sul tema del labirinto (e, di nuovo, è Kuper che sceglie di evidenziare questo aspetto, naturalmente presente e tipicamente kafkiano) offre il destro a una soluzione visiva particolarmente elegante e di nuovo, per certi versi, programmatica: il labirinto in cui si muovono i personaggi viene a coincidere con la struttura delle pagine, sottolineando come il fumetto sia particolarmente adeguato alla rappresentazione di storie labirintiche, oppressive (come sempre quelle di Kafka), con i suoi personaggi chiusi in una griglia che può aprirsi, ma più spesso e facilmente farsi soffocante, come qui.
Una claustrofobia labirintica che ritorna in “La tana”, dove i cunicoli che proteggono/imprigionano il protagonista diventano la struttura della storia. In queste due storie, La tana e Favoletta, ritorna un altro tema tipicamente kafkiano e al tempo stesso tipicamente fumettistico: il protagonista, come nelle Metamorfosi, è raffigurato come un animale, ma riflette chiaramente la natura psicologica umana. Abbiamo una talpa nella Tana, un topo in Favoletta.
Il piccolo roditore, come è noto, è il protagonista prediletto dei fumetti, da Ignatz di “Krazy Kat” (1910) di George Harriman (di nuovo, un autore che potenzialmente Kafka poteva ipoteticamente conoscere) a, ovviamente, Mickey Mouse. Interessante notare che uno stile “quasi xilografico” è anche quello adottato in Maus di Art Spiegelman, una altra grandissima “storia di topi”, che viene ormai usualmente letta in ambito scolastico (o, comunque, è l’opera a fumetti che più di tutte meriterebbe un inserimento obbligatorio in un canone di letture, secondo un parere condiviso da molti che propongono il fumetto in classe) e che quindi si presterebbe a un analisi comparata.
Una menzione particolare merita poi “L’artista del digiuno” è un racconto come al solito bello e terribile, che permetterebbe di affrontare un tema difficile come quello dell’anoressia (anche nel suo rapporto complesso con la nostra società, che la impone come modello estetico, pur combattendo poi formalmente la patologia).
Anche in altre storie brevi tornano temi che possono ritrovarsi nelle opere principali di Kafka: il tema della giustizia insensata, arbitraria, che è il tema costitutivo del “Processo”, ritorna in vari modi in “Lascia stare”, “Un fratricidio”, “Gli alberi” e, soprattutto, “Davanti alla legge”. Se si affrontasse il Processo in classe (anche con letture antologiche e una presentazione del docente, essendo un testo corposo e ovviamente difficile, difficilmente assegnabile tout court come approfondimento autonomo) la lettura di questi racconti offrirebbe lo spunto per una comparazione dei vari aspetti della violenza asettica della legge (e, ovviamente, si presta a numerosi spunti, ahimé, su casi di cronaca, che rendono l’aggettivo “kafkiano” purtroppo sempre attuale: dal recentissimo caso di Patrick Zaki in giù).
Un altro parallelo interessante sul tema della giustizia kafkiana, in ambito scolastico, potrebbe essere un ampliamento rispetto a un autore molto trattato nel canone scolastico, specie al biennio: Dino Buzzati. L’autore italiano ha sempre rifiutato, giustamente, una pura derivatività del suo lavoro da quello di Kafka, ma proprio per questo sarebbero stimolanti da cogliere paralleli e differenze. All’insensatezza del sistema giudiziario, Buzzati contrappone quella di un’altra “istituzione totale”, quella medica, che ritorna in “Sette piani” (noto anche per la trasposizione in film) e in numerose altre opere meno note.
Una menzione a parte la merita poi una delle più angosciose rappresentazione del delirante sistema giuridico kafkiano, “Nella colonia penale”, dove il sistema di punizione per i detenuti pare uscito dalle più folli pagine del “divino marchese” De Sade, con una macchina per scrivere che incide la sentenza sul corpo dei condannati, che così apprendono la loro colpa dal dolore tattile dell’esecuzione della penitenza. Uno dei più disturbanti, e perciò significativi, incubi kafkiani, che quasi chiude (segue ancora la breve “L’avvoltoio”) degnamente questo volume.
Nel complesso, quindi, ci pare di aver evidenziato l’interesse particolare del lavoro di Kuper nell’ambito dell’adattamento fumettistico, anche per la sua possibile spendibilità in un percorso didattico delle superiori. Ma, su tutto, resta la cupa, nera ed essenziale bellezza di queste pagine.