La rabbia e il coraggio: Zehra Dogan, Prigione n.5.
Prigione Numero 5 è il diario dal carcere, a fumetti, dell’artista, attivista e giornalista curda Zehra Doğan, pubblicato in Italia da BeccoGiallo e uscito di recente, il I aprile 2021. L’opera è una testimonianza autobiografica potentissima, che narra con tavole dall’incredibile – e sanamente disturbante – forza comunicativa gli orrori della prigionia della protagonista – e degli altri attivisti come lei.
I disegni che compongono l’opera, difatti, sono stati realizzati da Zehra Doğan nel periodo di detenzione a Dyarbakir, nella Turchia Orientale, dove l’autrice si trovava dopo essere stata condannata per aver pubblicato un disegno raffigurante la città distrutta di Nusaybin.
La storia
Nel 2016 Erdoğan infatti dichiara lo stato di emergenza a seguito del golpe, cosa che causa un inasprirsi dell’autoritarismo turco, anche se gli abusi di potere nelle regioni curde si registrano già un anno prima. Zehra Doğan in quell’anno si trova a Nusaybin, una piccola cittadina turca, al confine con la Siria, prevalentemente abitata da curdi. Per tale ragione la città viene ridotta in macerie dai militari del governo. Travolta dalla rabbia, Zehra, armata di tavoletta grafica, raffigura ciò che vede: edifici semidistrutti dalle cui finestre sventolano bandiere turche. Il disegno, postato su Twitter, fa il giro del mondo e la sentenza di propaganda terroristica non tarda ad arrivare: per quasi tre anni Zehra rimane in carcere, nella prigione numero 5 di Diyarbakir.
Doğan viene imprigionata, dunque, per la sua arte, in cui narra l’oppressione del suo popolo, e continua a fare questa attività in forma clandestina nel carcere in cui è rinchiusa (tolto l’ultimo foglio, come suggello all’opera, tutte le pagine che la compongono sono uscite segretamente dal carcere politico dove la protagonista è rinchiusa).
Il lavoro ostinato e creativo dell’autrice ha così trasformato i tre anni di reclusione in resistenza disegnata, una testimonianza unica della tragedia di un popolo, diffusa in contemporanea in tutto il mondo.
La prigione da cui scrive Doğan è inscritta nella storia del paese come un luogo di persecuzione, ma anche di resistenza e di lotta del popolo curdo. Come spiega l’efficace comunicato stampa di BeccoGiallo, da cui abbiamo tratto queste informazioni materiali sull’opera, “nonostante la mancanza di materiale, sfidando muri e divieti, Zehra continua a disegnare, i suoi lavori vengono fatti uscire clandestinamente dal carcere. Per realizzarli, l’autrice utilizza materiali di fortuna, come gli avanzi di cibo, i capelli, il tè, il caffè e il sangue mestruale”.
Le sue opere sono state esposte al Peace Forum di Basilea, al Drawing Center di New York, alla Tate Modern di Londra, al Museo di Santa Giulia di Brescia, al PAC di Milano, all’Opéra de Rennes e alla Biennale di Berlino. Nel 2020, ArtReview l’ha inserita tra i 100 artisti più influenti al mondo. Anche il dissidente cinese Ai WeiWei, molto famoso anche in Occidente per le sue opere d’arte che denunciano l’autoritarismo della Cina, ha avuto parole di grande elogio per l’arte di Doğan, in cui egli rinviene un parallelo con la sua (vedi qui). L’autrice gli ha risposto con un’altra lettera aperta, in cui ha spiegato come “l’arte è il miglior strumento di battaglia” (vedi qui).
Il graphic memoir
La pubblicazione di quest’opera da parte di BeccoGiallo è particolarmente indicata e coerente con la tradizione di questa casa editrice. Nata a Padova nel 2005, e oggi parte del gruppo Fandango, BeccoGiallo ha infatti portato in Italia una sistematica tradizione di graphic journalism e biografie a fumetti. Il nome omaggia lo storico foglio satirico antifascista “Il Becco Giallo”, operante dal 1924 al 1926 negli anni di consolidamento del regime fascista, e dopo il Delitto Matteotti e il pieno dispiegarsi della dittatura pubblicato clandestinamente fino al 1931. Un’origine quindi perfettamente coerente con questa attuale pubblicazione.
Inoltre, di recente BeccoGiallo sta operando in favore della diffusione di una forma relativamente nuova di graphic journalism, per quanto ovviamente in continuità con le simili esperienze precedenti. Si tratta del Graphic Memoir, di cui abbiamo avuto modo di parlare più ampiamente qui, trattando di “Patria” di Bruna Martini, sempre per BeccoGiallo, cui rimandiamo per una riflessione introduttiva al genere specifico. Si tratta, in sostanza, di un fumetto che traspone, quasi diaristicamente, le esperienze dirette del suo autore, secondo le modalità del classico “memoriale” letterario: una serie di appunti grafici e testuali – che possono talvolta includere anche elementi fotografici o altri inserti documentali – di una esperienza individuale dal valore storico.
Per quanto la sistemazione del materiale sia poi stata preminentemente diversa, ovvero soltanto testuale o soltanto grafica, questo tipo di documentazioni scritte e visive riprendono quanto compiuto dai narratori dell’orrore della Shoah, le cui testimonianze si compongono sia di testi che di raffigurazioni di quanto accaduto.
Analisi dell’opera
Venendo all’opera specifica in questione, colpisce fin da subito la scelta della carta di stampa, sia per la copertina ma poi anche per tutto il testo, ovvero una carta che ricorda nella texture la carta da pacchi, per rimandare alla carta di riuso – e non pensata per il disegno artistico – su cui l’autrice ha concretamente operato. La drammatica immagine di copertina, in sanguigna, rimanda a quella – simile, ma a becco spalancato in quello che si può immaginare un grido di dolore – che apparirà nel finale, contribuendo all’interpretazione simbolica dell’opera, in questa tormentata figura femminile che però, col disegno, si dota di ali con cui far sfuggire il suo pensiero alle catene con cui viene oppresso.
Significativa anche le immagini speculari degli interni della copertina, dove un filo spinato collega vari tipi di uccelli, che divengono antropomorfi – come quello della cover – nella tavola finale. L’ottima introduzione di Elettra Stamboulis – sceneggiatrice e critica fumettistica – contestualizza perfettamente il lavoro dell’autrice nella gineologia della cultura rivoluzionaria curda, volta a ripensare il ruolo della donna nell’ideare una nuova società. In modo diverso, in parte, ciò traspare anche nell’operazione di Kobane Calling, il fumetto di graphic journalism realizzato da ZeroCalcare con uno sguardo esterno, è vero, ma attento e rispettoso sulla rivoluzione curda.
Dogan, classe 1989, si era imposta nel 2015 col premio Metin Goktepe per il suo lavoro sul campo delle donne yazide. L’autrice della prefazione collega con grande precisione l’autrice a un filone di arte e testimonianza al femminile trasversale agli “storici steccati” (da ritenere ormai da tempo superati) tra fumetto e arte. C’è quindi l’operato giornalistico di Naada El Saadawi tra le fonti, ma anche quello di Marijane Satrapi (forse il più influente autor3 della memorialistica del nuovo millennio) e, in altra direzione, il lavoro di Francesca Alinovi come curatrice d’arte nel fumetto italiano: le sue parole per Jori, in cui tratta di “penetrazione dentro il grembo della terra come utero materno” si attaglia perfettamente a quest’opera.
Dopo una cartina che ci aiuterà a collocare i luoghi trattati, l’opera ci appare nella massima fedeltà possibile all’originale. La traduzione è dell’agenzia Scibbolet, tradotto dal francese, ma spicca in particolare l’accuratezza di rendere il lettering a matita dell’originale, così come a matita appaiono in disegni in una gabbia fumettistica tracciata a spesso pennarello nero. Le occasionali note di colore sono, come detto, realizzate con pigmenti di fortuna.
Il testo corsivo è fitto e denso, alternato a immagini di incredibile potenza visuale, che ci conducono gradualmente in una discesa agli inferi. Nelle prime pagine possiamo cogliere ancora elementi di serenità che le prigioniere scavano, a fatica, nella gabbia carceraria che le imprigiona. Il segno di Dogan ha una certa naïveté che fa parte del suo fascino, ma al tempo stesso una potenza drammatica incredibile e momenti di autentica, alta bellezza, pur nella raffigurazione dell’inferno o del poco che, come diceva Calvino, riesce a non essere inferno nell’orrore che lo circonda. Particolarmente accurato è lo studio dei volti, delle espressioni in particolare – è purtroppo ovvio – del dolore, di cui si colgono le numerose sofferenti sfumature.
Nel prosieguo dell’opera, quando con tavole genuinamente disturbanti, eppure necessarie, ci si introduce agli aspetti più tremendi di questo arcipelago concentrazionario, traspare anche la grande efficacia dello studio sui corpi.
Una proposta didattico – letteraria.
“Prigione n.5” è, dunque, opera potente, tragicamente necessaria, che non avrebbe bisogno di ulteriori contestualizzazioni per rimarcarne l’importanza e, anche, l’uso didattico, aspetto a cui abbiamo sempre cercato di riservare uno spazio, quando opportuno e possibile, nelle analisi di questo blog. La meritoria durezza di certe pagine ci fanno pensare l’opera congeniale per l’utilizzo nel triennio delle superiori, come approfondimento storico (specie nel caso di proposte differenti, consigliamo come al solito all’insegnante di leggere prima il testo per calibrare meglio la proposta).
Del resto, nelle superiori è stata introdotta da quest’anno l’Educazione Civica, con un congruo numero di ore spesso afferenti a storia: e un possibile percorso utile in queste ore può essere l’esame di temi storici trasversali, anticipando in terza o in quarta ragionamenti su passaggi del Novecento che in quinta non possono essere trattati tutti con il giusto approfondimento per ragioni di tempo, e che si possono così poi richiamare. Di questi temi, la questione curda è certo un argomento cruciale, e quest’opera può essere un ottimo approccio tramite il Graphic Memoir, più agevole forse da dare in lettura diretta agli allievi (sufficientemente maturi) che non un analogo documento testuale.
Il parallelo con l’educazione civica (le norme di civiltà giuridica sul processo e sulla detenzione, alla luce dell’analisi della carta dei diritti dell’Uomo e del Cittadino dell’ONU e della Costituzione) ci paiono evidenti. Ma, nel caso si ritenesse proficuo, esistono numerosi paralleli letterari possibili, da indagare magari alla finalità di proporre il percorso di educazione civica in italiano e giungere, magari, alla valutazione con una prova scritta.
Già l’introduzione di Stamboulis chiarisce un primo riferimento importante, Marco Polo, che nel 1298 fu fatto prigioniero dai genovesi durante la battaglia navale di Curzola e durante l’anno di carcere a Genova elaborò il suo Milione. Un testo talvolta tenuto a margine dal canone scolastico, ma che sarebbe utile – nei limiti del possibile – reintegrare, anche per il parallelo col “diverso viaggio” di Dante (in cui non mancano terribili pagini carcerarie, come quelle del Conte Ugolino, al termine di un Inferno che, purtroppo, spesso si è incarnato nella storia). Nel secondo quadrimestre, uno spunto potrebbe essere la tragica vicenda carceraria di Torquato Tasso, che pagò così le sue inquietudini di paranoia religiosa pericolose alla ragion di stato degli Este.
Nel programama di quarta, indubbiamente, potrebbe essere utile un parallelo con la lettura dei “Dei delitti e delle pene” (1764) di Cesare Beccaria, apice dell’illuminismo italiano, e magari anche con qualche pagina del Candide (1759) di Voltaire, dove si fustigano con sferzante ironia anche i processi e i supplizi dell’inquisizione e dell’ancien regime. In un periodo successivo, magari trattando l’opera nel secondo quadrimestre, viene in mente “Le mie prigioni” (1832) del saluzzese Silvio Pellico, che ricostruisce il lugubre carcere austriaco dello Spielberg (si potrebbe accostare alla visione di “Noi credevamo” di Martone, magnifico film sul Risorgimento dove, intenzionalmente, la prigione del lungo episodio carcerario centrale è quella di Saluzzo, e si vedono anche, per un attimo, elementi architettonici di un carcere moderno, per la scelta stilistica di introdurre il perdurare dell’oppressione e non per un blooper (vedi qui).
Nel programma di quinta, poi, l’opera si può collegare centralmente a storia, e il parallelo che sorge spontaneo è quello con l’universo concentrazionario dei totalitarismi del Novecento, dalle mille ottime pagine sulla Shoah (a partire da Primo Levi, ovviamente) agli orrori staliniani dell’Arcipelago Gulag, con Aleksandr Solzhenitsyn. Questi rimandi novecenteschi (o molti altri: pensiamo alle lettere dal carcere di Mandela) possono essere ugualmente utilizzati in una eventuale riproposta al biennio, dove come noto il lavoro di italiano è slegato dalla proposta di un canone letterario. In questo caso, la proposta va calibrata e campionata con cura dal docente.
In conclusione, dunque, un testo di indubbia potenza, salutarmente disturbante nelle sue sequenze più dure, che costituisce un elemento irrinunciabile per approfondire la questione curda anche oltre la sfera del fumetto. Per la sua maturità, in generale, questa proposta di BeccoGiallo sul graphic memoir può fare molto bene al medium, contribuendo a mostrarne l’ampliamento delle possibilità narrative e la compiutezza artistica ormai da gran tempo raggiunta.
Abbiamo parlato di:
Prigione N.5
Zehra Doğan
128 pp.
€ 20,00
ISBN 978-88-3314-148-0
BeccoGiallo – 2021
www.beccogiallo.it