Discepoli: l’horror di Marra sbarca in Italia.
“Discepoli”, fedele traduzione del titolo originale “Disciples”, é un fumetto pubblicato in origine dalla prestigiosa Fantagraphics e portato in Italia da D Editore, nella collana D Pressa curata da Valerio Bindi, realizzata in collaborazione con Fortepressa e dedicata a opere incentrate su “incertezza, fragilità, resistenza del futuro”, che vedrà altre opere internazionali come Alienation di Inés Estrada e L’era del ratto di Martin Lopez Ram.
Ma veniamo a “Discepoli”. Il volume è molto curato e permette al meglio di apprezzare il fumetto, che ha varie ragioni per essere particolarmente interessante. L’opera vede la collaborazione di Benjamin Marra, tra i più importanti nomi del fumetto indipendente americano, con due registi dell’horror del calibro di David Birke – autore di Slender Man (2018), uno degli ultimi mostri dell’horror a divenire iconici – e Nicholas McCarthy, autore di “The Prodigy” (2019). La cosa rilevante è che si tratta della prima opera tradotta qui da noi di Marra, nome di assoluto rilievo della scena indie americana, giunto in nomination ai Grammy Awards per la sua attività di illustratore e fondatore del brand di fumetto underground “Traditional Comics”.
L’iconico Slender Man di Birke, coautore di “Discepoli”.
L’opera è quindi, come ci possiamo attendere, un horror estremamente potente, che gioca con grande abilità coi classici del genere sviluppandoli in una sintesi originale e con un occhio di riguardo al linguaggio cinematografico: un dialogo che non è certo una novità per il fumetto ma che viene qui esaltato dalla collaborazione di Marra coi due registi per la sceneggiatura.
Iniziamo nella California del 1978, in quel crogiolo di sette esoteriche, new age e talvolta apertamente sataniche che era divenuto lo stato americano. Un calderone esoterico che ha il suo acme nella fondazione della Church Of Satan di Anton Szandor La Vey a San Francisco nel 1966, punto di incontro tra figure del milieu occultistico, controcultura hippie e scena musicale e cinematografica di primo livello. Un “coagulo” che si dis-solve inevitabilmente dopo il 1969, quando la setta di Charles Manson compie la catena di delitti rituali che culmina con l’uccisione di Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, che nel 1968 aveva gettato un fascio di luce sul mondo occulto col suo film “Rosemary’s Baby”, tratto dal romanzo di Ira Levin del 1967. La scena di cui parla Quentin Tarantino con il suo “C’era una volta a Hollywood”, incentrandosi più sulla nostalgia di quella (allora) “nuova Hollywood” che sul coté esoterico, pur presente.
Ma la scena esoterica, più che sparire, “entra in sonno” e viene rifondata da un lato con la nascita di nuove organizzazioni più sistematiche quale il Tempio di Set (1975) del colonnello Michael Aquino, di occultismo razionalista, dall’altro con schegge impazzite di “occultismo acido” quale quella che è al centro, fin dall’esplicito titolo, della nostra storia.
La raffinatezza di Marra si nota fin dall’adozione di un segno che, pur connesso anche con la sua produzione in generale, riflette lo stile fine anni ‘70 in un certo cinema di exploitation (quello appunto caro anche a Tarantino) e nel parallelo “fumetto nero” e underground di allora, a partire dalla magnifica cover, in stile pittorico, che richiama analoghe locandine di film dell’epoca, introducendo mirabilmente, ma senza svelare nulla, tutti I principali elementi di tensione e terrore della storia.
La prima sequenza, carica di ineffabile tensione, mostra fin da subito l’abilità dell’autore nella costruzione di dialoghi raffinati, che introducono perfettamente I personaggi tramite una conversazione apparentemente quotidiana; anche qui viene in mente, appunto, il cinema tarantiniano, ma anche tanto grande fumetto. La traduzione di Alice Amico, fluida e scorrevole, consente di apprezzare al meglio gli scambi di battute tra personaggi, fondamentali per la costruzione della tensione che sfocia poi, inevitabilmente, in esiti orrorifici.
La griglia adottata, notiamo, si sviluppa su tre strip, a volte con un montaggio “italiano”, basato su un modulo 2X3 e variazioni; a volte appare la griglia a nove vignette, 3×3, resa celebre da Watchmen e congeniale, ovviamente, per scene di dialogo. La griglia è comunque molto variata, aprendosi a soluzioni più ampie specie nelle scene d’azione, e anche a splash pages perfettamente calibrate nei momenti più iconici.
Dopo la prima sequenza dialogata, la storia entra subito nel vivo con un brusca accelerazione e netti salti temporali che ci conducono al presente: la protagonista è apparentemente sfuggita al suo passato di orrori, rapita dalla setta (passato di cui, come gli altri personaggi che la circondano, sappiamo pochissimo) ma chiaramente il lettore sa che quel passato non incombe solo come passato psicologico, ma come minaccia concreta ch si appresta a tornare.
Marra e i suoi coautori si dimostrano magistrali nell’usare lo specifico del linguaggio fumettistico nella costruzione della tensione, che è il vero punto di forza di quest’opera: non si rinuncia, come nell’orrore indie, allo splatter anche accentuato, ma la forza dei momenti “gore” acquista potenza grazie alla suspense accumulata. Ed è una suspense che deve molto allo specifico fumettistico, perché è una suspense di ellissi, di non detti, di “delitti che avvengono nello spazio bianco di una vignetta”, come teorizzato da Scott McCloud in Understanding Comics, la pietra miliare della comprensione moderna nel medium. La letteratura e il cinema, che hanno ovviamente potenti punti di forza, non hanno a mio avviso al pari del fumetto la possibilità di richiedere al lettore un completamento del non-detto tramite interpolazioni di ciò che avviene negli spazi vuoti tra una vignetta e l’altra. Ovviamente, nell’horror ciò punta a una sensazione angosciosa, il “piacere di avere paura” teorizzato da Bruno Bettelheim e altri. E qui vi si riesce benissimo.
Ovviamente, come detto già all’inizio, il disegno è determinante alla costruzione delle atmosfere. La composizione di una griglia squadrata, spesso affollata di vignette, rara nel fumetto di oltreoceano, crea un senso di claustrofobia che risuona in uno dei temi orrorifici della storia. Il ritmo scandito rende impeccabili le sequenze di azione (si veda ad esempio p.21, tavola muta dove il terrore sale palpabile senza versare una goccia di sangue). Anche il disegno ha un che di volutamente antiquato, evocato dalle insistite retinature, e ovviamente dalle abbondanti masse di china nera che rendono sempre più o meno cupa la tavola: senza però limitarsi a una semplice ripresa del segno spesso grezzo dei fumetti ’60-’70, e con una certa raffinatezza dissimulata.
Notevole lo studio d’espressione, lievemente parossistico ma sempre accurato, a mostrare personaggi sempre inquieti, sempre coi nervi a fior di pelle, anche indipendentemente alle tensioni prodotte dall’irrompere dell’orrore nelle loro vite (che scardina ogni apparenza di normalità e scatena I conflitti psicologici sopiti).
Al di là di questa voluta enfasi delle espressioni, il segno è realistico, ma con un certo grado di sintesi che mette al centro o I rapporti tra personaggi, o le scene di orrore e azione; tuttavia, in modo discreto sono ricostruiti gli interni borghesi, simili a quelli del lettore ideale, per calare il terrore in ambientazioni quotidiane e renderlo più spaventoso.
Tra le scelte tecniche più interessanti quella della resa del ricordo, da 37 a 41, in cui il contorno tremolante delle vignette (un elemento iconico dei ricordi nel fumetto) si fonde in modo inquietante con la resa del sangue che – ora sì – scorre a fiumi in una scena disturbante, resa più forte dalla variazione grafica della griglia. Anche l’uso dell’onomatopea, discreto nella quotidianità, diviene qui elemento grafico potente, che si fonde col disegno e scandisce il terrore nella mente del lettore (tornerà, circolarmente, nel finale).
Insomma, Marra e i suoi riescono qui a sviscerare – letteralmente – un grande mito dell’immaginario collettivo, quello della setta diabolica, certo un topos del cinema orrorifico dai ’70 in poi, ma ben radicato nelle paure generali del deviante. Il tutto condotto con una grande cultura dell’immagine, usando con magistrale consapevolezza, come abbiamo cercato di mostrare sopra, lo specifico del linguaggio fumettistico.
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