Chabouté e l’ incubo in bianco e nero
Moby Dick di Christophe Chabouté è la trasposizione del romanzo di Hermann Melville, che l’artista francese ha pubblicato in due volumi usciti in Francia per Glénat nel 2014 e che Mondadori propone in unico volume nella collana Oscar Ink.
L’autore francese sceglie un approccio espressionista e una dominante emotiva di ossessione claustrofobica, trasmessa e amplificata dalla rappresentazione dei volti, quasi sempre in primo piano nelle vignette.
Su questo, si innesta il senso di inevitabile tragedia, che fa leva sulla conoscenza pregressa da parte del lettore del racconto matrice di Melville. Moby Dick è anche racconto di una particolare lotta fra l’uomo e la natura, ma in questo caso lo scenario naturalistico rimane quasi sempre un semplice fondale.
In alcune sequenze Chabouté registra la piccolezza delle figure umane rispetto alle vastità oceaniche, quasi appoggiando le lance da caccia e gli uomini sulla superficie marina, ma queste risultano immagini di promemoria, poiché l’intreccio si svolge pressoché interamente a bordo del Pequod.
Quella ricerca quasi calligrafica della ricostruzione spaziale e architettonica che Chabouté aveva utilizzato in Landru – altra storia di mostri, v. Fig.2 -, qui non serve. In Landru la solidità degli edifici e il realismo urbanistico radicava il racconto nella cronaca, mentre Moby Dick si svolge in una dimensione che fonde epica e incubo.
Eliminati rispetto alla versione melvilliana il naturalismo figurativo, il tecnicismo navale e baleniero, le digressioni zoologiche, Chabouté mantiene una suggestione onnipervasiva: Moby Dick è una caduta accelerata nel buio, nel vortice quasi metafisico che prende forza da un Ordine Superiore del quale Achab è rappresentante e responsabile. E la costruzione serrata di Chabouté genera un’esperienza di lettura che possiamo assimilare a uno scivolamento su una parete senza appigli, verso una catastrofe nota.
I capitoli si succedono brevi e densi, senza dissolvenze né pause né, tantomeno, voci narranti – intra o extra-diegetiche – che consentano di staccarsi dal livello degli eventi. Sta al lettore decidere di sospendere la lettura per riprendere il respiro e meditare su quanto appena visto e vissuto. L’intreccio a servizio di questa suggestione è estremamente lineare, come la rotta che Achab traccia sulla mappa, marcando i luoghi dell’incontro con la balena bianca.
La lettura che di seguito proponiamo nasce specificamente dalla suggestione dei volti e del bianco e nero delle tavole, che non offre respiro ai dubbi, alle posizioni intermedie e ai compromessi.
Ed è una lettura che parte da lontano.
Circa 40 milioni di anni fa, alcuni mammiferi – ramo artiodattili, quindi parenti degli attuali ippopotami, giraffe e bisonti – osservarono le grandi distese d’acqua, dai quali i loro antenati erano usciti 300 milioni di anni prima, e videro grandi possibilità. Ed ecco l’idea: tornare al mare. Lavorarono sodo per alcuni milioni di anni, e i cetacei di oggi sono i discendenti di quei lontani pensatori laterali. Eleganti, spesso maestosi, percorrono i mari e solo l’essere umano è arrivato, dopo 35 milioni di anni di serenità gioiosa, a metterne a rischio l’esistenza e, tanto per aggiungere beffa al danno, a ridurre qualsiasi storia con protagonista il mare a proiezione o metafora del rapporto con il ventre materno e ogni storia con mezzi navali a messa in scena del complesso di Edipo e cose così.
Achab e il Nuovo Ordine Umano
Sia chiaro: nel Moby Dick di Chabouté i mostri siamo noi e Achab è un demone maligno, la cui sete di vendetta nasce per l’affronto subìto dalla balena bianca. Achab agisce come rappresentante della specie umana, che si arroga il privilegio dello sfruttamento e della devastazione, portando agli estremi la direttiva divina “riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra” (Genesi, I, 28).
La caccia a Moby Dick è infatti la caccia del padrone allo schiavo che ha osato ribellarsi. Serve allora una punizione esemplare, per evitare che la ribellione faccia proseliti. Per questo, all’odio è frammista la paura. A dichiararlo la rappresentazione dei volti dell’equipaggio, stravolti in perenni smorfie feroci, alimentate da una frenesia che Achab sostiene e fomenta con astuzia e conoscenza dell’animo umano. Come annuncia a Starbuck, dopo l’ennesimo discorso di fuoco: “Questi uomini mi seguiranno ovunque“. E più che di semplice “discorso” dovremmo parlare di omelia, poiché Achab mette l’equipaggio di fronte all’Ordine Divino, alla natura assoluta del Potere. Il punto è: quali divinità fondano o pretendono quell’Ordine?
Per capirlo, torniamo ai volti degli esseri umani, sia di quelli che incontriamo sulla terraferma sia dell’equipaggio del Pequod o dei marinai che la baleniera incontra nella sua caccia; osserviamo i loro sguardi sempre stralunati e obliqui, i loro occhi come biglie che sembrano voler uscire dal cranio. Chi abbia minima familiarità coi racconti di Lovecraft – e magari con qualche suo trasposizione fumettistica – non faticherà a riconoscere quelle fattezze. Sono proprio quelle degli abitanti di villaggi costieri ibridati con le antiche creature che, dalle profondità marine, reclamano il dominio della terra.
Questa somiglianza innesca l’associazione diretta: gli esseri umani come strumento degli antichi dominatori del mondo, che intendono riprendersi il regno; i grandi cetacei come ostacolo a questa Reconquista, ostacolo da spazzare via. Il giuramento che Achab impone ai ramponieri è giuramento a quelle antiche divinità. E guardate invece, nelle ultime pagine del volume, la bellezza maestosa e pura di Moby Dick. Non c’è ambiguità possibile su chi sia l’angelo e chi il demonio, su dove sia il Bene e dove il Male.
Moby Dick, angelo del mare
Il bianco e nero senza sfumature con il quale Chabouté costruisce il racconto è la manifestazione di questo manicheismo: chi tenta di sfuggirgli, come il capitano Starbuck, non trova, nel momento decisivo, la forza per l’azione decisiva. Non può trovarla perché quell’azione – uccidere Achab – violerebbe i principi fondamentali sui quali ha giurato. Sancirebbe l’espulsione dall’Ordine Divino, l’eterna vergogna e solitudine.
Si può stare con Achab o con Moby Dick, ma non esiste una posizione intermedia: la dimensione etica della realtà è collassata a uno stato binario. Alla fine, Starbuck sceglie di credere in Achab, perché Achab sta difendendo la supremazia dell’essere umano sugli altri viventi. Solidarietà di specie, che altro?
La caccia degli umani contro l’angelo del mare si svolge nel più completo silenzio, lenta e ossessiva. Chabouté elimina onomatopee e sfondi: alle spalle degli uomini e della nave c’è un bianco piatto e abbacinante dove nessun suono si propaga; non le urla degli uomini, non i soffi delle balene, non il vento né le strida degli uccelli che ne divorano le carcasse.
Ci si muove nel racconto come in un incubo, circondati da quei mostri feroci e spietati – gli uomini del Pequod – che non si fermano davanti a nulla. Quel senso di oppressione è lo stesso che deve provare la balena bianca.
Silenzio, morte, volti deformati dall’odio paranoico. Nessun personaggio ha personalità articolata, ciascuno recita un ruolo preciso: nemmeno in questo ambito ci sono sfumature, così come nei dialoghi non ci sono parole sprecate, ma ognuna è distillata dall’animo, piena di energia e pathos, ognuna scava nella pena e costruisce il senso di una missione ineluttabile. Le suppliche di Starbuck ad Achab hanno la tenerezza delle richieste che un figlio rivolge al padre che vede votato al suicidio per il bene di tutti, ma che alla fine accetta il peso del dovere.
In questa lettura, il finale diventa liberatorio: l’angelo bianco del mare sconfigge i suoi carnefici e trascina Achab, perverso servo degli dei malvagi, nelle profondità del mare. Il capodoglio può immergersi fino a oltre 2000 metri di profondità; con tutta la sua ferocia e arroganza, in apnea l’essere umano non può resistere oltre una manciata di minuti.
Abbiamo parlato di:
Moby Dick
Christophe Chabouté
Traduzione di Paola Checcoli
Mondadori Ink, 2017
256 pagine, cartonato, bianco e nero, 22,00 €
ISBN: 9788804680925