Certezze e consapevolezze di un’artista: Mabel Morri

Certezze e consapevolezze di un’artista: Mabel Morri

Intervistiamo Mabel Morri, fresca di pubblicazione de "Il giorno più bello": gli inizi, la crescita personale e artistica, le scelte, i ricordi e Pellegatti.

Mabel Morri nasce a Rimini nel 1975. Nel 1999 fonda la casa editrice indipendente Studio Monkey attraverso la quale pubblica Hai mai notato la forma delle mele?. Nel 2002 vince il “Premio Scenario” al festival di fumetti di Lucerna per la migliore sceneggiatura con la storia 22 e 37 e nel 2004 il “Premio nuove strade” al Comicon di Napoli. Nel 2004 esce l’antologia Vite comuni per il Centro Fumetto Andrea Pazienza. Nel 2009 esce Io e te su Naboo, e nel 2013 Cinquecento milioni di stelle (entrambi Kappa Edizioni). Nel 2014 diventa la prima fumettista a pitturare l’interno di una chiesa, illustrando sulle colonne della chiesa di San Martino in Riparotta di Rimini, in località Viserba, la vita di San Martino. Nel 2017 esce Il giorno più bello edito da Rizzoli Lizard. Le sue storie sono riconoscibili per il suo disegno spigoloso, gli occhi grandi ed espressivi e il gusto per i dettagli (scarpe, magliette, luoghi) capaci di rendere le sue “piccole, grandi storie” di amicizia, amore e vita realistiche e familiari. È patita di sport e di calcio in particolare e i suoi commenti appassionati e appassionanti prendono forma nelle pagine del suo sito/blog www.mabelmorri.it.

Ciao Mabel. In questo periodo sei in tour per presentare Il giorno più bello. Cosa apprezzi di più in queste occasioni, incontrare i vecchi fan (che magari ti conoscono dal tempo dell’autoproduzione Hai mai notato la forma delle mele?) o conoscere nuovi lettori che ti hanno scoperta con l’ultima opera?
Ciao Ettore e ciao a chi ci sta leggendo.
È stato un mese piuttosto impegnativo, tra metà aprile e metà maggio, culminato con il Crepax Award a Firenze.
In queste trasferte, mi sono resa conto di una serie di cose.
C’è stato tanto affetto e tanta stima. Mi sono resa conto che chi mi legge, mi legge a prescindere dall’incontrarmi – capita certo, è accaduto anche in queste trasferte. Ho un pubblico magari non vastissimo, ma che mi vuole bene. È stato importante capirlo. Il mio pubblico è come me, si fa i fatti suoi, ma fa capire come mi apprezza. E a me questa cosa è piaciuta tantissimo. A parte poi che è facile incontrarmi, sono l’unica donna in mezzo agli umarell [ndr: i pensionati bolognesi] che legge la Gazzetta con la birra davanti.
Però, mi sono resa ulteriormente conto che non è solo il mio lavoro che va conosciuto, è proprio il fumetto, questo meraviglioso linguaggio interpretativo, che non è poi così conosciuto fuori dagli ambienti che sono il proprio mondo. Basta solo andare a fare la spesa e c’è tantissima gente che andrebbe educata e non sa cosa si perde.
Ci sono state occasioni nelle quali parlavo del mio lavoro e divulgavo il verbo. In una ho iniziato a correggere la moderatrice che chiamava “libro” il fumetto, e io sottolineavo la differenza perché c’è differenza.
Ho apprezzato tanto questo, però: parlare, guardare i volti delle persone e spiegare loro cos’è questo lavoro e quello che tento di fare io. La luce e la curiosità che si accendevano nei loro occhi sono state impagabili.
Mai come in questo, chiamiamolo, tour ho avuto l’impressione che ci sia ancora tanto da fare.

Quanto è cambiata Mabel dagli anni dei primi fumetti ciclostilati a oggi? Ricordo ancora quando mi raccontavi di non riuscire a portare avanti un fumetto in estate perché eri occupata a fare piadine…
Guarda, persino il Milan è dei cinesi, pensi che non sia cambiata io? Carlo Pellegatti, l’inviato Mediaset, lui sì che è ancora stoico a fare i collegamenti da Milanello e non è cambiato, a parte essere canuto. Ci sono certezze nella vita: Pellegatti è una di queste.
Io mi sento cambiatissima.
Ultimamente poi, dopo Il giorno più bello non so cosa mi sia successo, ma è abissale la differenza tra come sto lavorando sul fumetto nuovo rispetto appunto all’ultimo per Rizzoli Lizard.
Prima ero giovane (si può dire così?), ero poco matura, o semplicemente non pronta per guardarmi bene dentro e capire me stessa, o anche solo dove volevo arrivare. O anche affrontare storie che richiedessero fatica, sofferenza, gioia, con una costante ricerca non tanto della bellezza e del controllo (ce n’è tantissimo ne Il giorno più bello) quanto della “correttezza”. Difficile spiegare questo passaggio, ora. Prima era come se fosse stato un gioco. Adesso no, dopo l’incoscienza più pura degli esordi e anche di qualche anno fa, so chi sono, artisticamente, e ho una consapevolezza che prima non vedevo.
Quindi il mio approccio ora è proprio quello che ritengo professionale: per dirti, nel fumetto che sto disegnando Volevamo essere le Spice Girls, c’è una sequenza che ho disegnato e, riguardandola, l’ho rifatta (e non è l’unica volta), perché la sensazione che volevo far trasparire era di accettazione, malinconica magari, invece veniva fuori delusione e rimorso. Anni fa non ci pensavo nemmeno a rifare le tavole, non mi preoccupavano più di tanto di ciò che provavano i personaggi ed ero pronta a cambiare anche significati pur di non rifare il lavoro. Ero troppo snob, e mi sentivo così. Oggi quasi mi ci spacco la testa sopra. Oggi piuttosto ci perdo settimane ma se nella storia è scritto che deve essere in un modo (sentimento, azione, contrasto), non accetto da me stessa soluzioni di comodo, deve trasparire quello che ho scelto debba essere. Ho rifatto altre sequenze solo perché erano “sbagliate” (su quali crismi poi è da definire) ma nella mia testa non andavano bene.
E…e mi sento viva come non mai.
E non è solo questo: non so spiegare bene esattamente come la mia testa funzioni davanti al foglio bianco, ma c’è più ragionamento, c’è tecnica, c’è una ricerca di un qualcosa di cui mi sfugge il nome. È mestiere anche, e il bello è che non sono arrivata, ho ancora così tanto da imparare che sono quasi entusiasta. Devo migliorarmi, in tutto, sceneggiatura, architettura, struttura, disegno, colore; devo salvare ciò che ritengo sia buono e lavorare ancora e ancora.
Da quando avevo a che fare con le piadine poi sono passati davvero tanti, tanti anni. Funzionavo così, mi stancavo di disegnare e andavo a fare le stagioni. Ero giovane, dai, ma che ricordi, che gatte… (in romagnolo significa sbronze).
Oggi crollo dopo una partita di Champions…

Nella tua produzione è chiaro che prediligi le storie “piccole”, “semplici”. Ma quanto è difficile scrivere personaggi che siano persone, dialoghi che siano realistici e al tempo stesso narrativi (non sempre la realtà la puoi riportare pari pari in un’opera di finzione senza farla suonare… finta)?
Tecnica. E il mestiere di cui sopra, almeno per i dialoghi. Difficile lo è, nel senso che io racconto storie che si possono sentire al bar o nei racconti di qualcuno che si conosce. E io lo trovo un gran esercizio di stile.
E poi sai, la mia produzione è particolare. Prima era una scelta venuta così, inconsapevole, oggi è diventata una caratteristica. Io ho sempre scelto storie piccole e semplici (grazie per le virgolette), apparentemente tali, perché vivere è una meravigliosa avventura e niente è più spettacolare della vita stessa. E poche cose sono difficili come vivere. Per cui, raccontare le donne, il loro universo, lo si considera talmente scontato che in realtà non lo è affatto.
La scelta della semplicità poi, almeno ne Il giorno più bello, è stato proprio un atto di ribellione, che, se “me la credessi”, griderei all’avanguardia pura: le storie oggi cercano di essere a effetto, c’è questa ricerca costante della chiave di lettura profonda, alta, geniale anche. Sia chiaro: io sono la prima che gongola, adoro questo modo di costruire i fumetti, mi abbatte anche perché l’autostima da queste parti è zoppicante, però mi è presa questa cosa della leggerezza, avevo voglia di “respirare”, o forse di vacanza, non saprei, e di cose normali, scontate magari, ma che facciamo tutti, più o meno.
E avevo bisogno di esaurirla, questa vena leggera.
Anche perché credo che imparare a leggere un fumetto, che ha dei codici di accesso, non sia proprio banale: prima di passare ai capolavori, il rodaggio è necessario. Non puoi mettere in mano a un bambino Watchmen o anche Morti di sonno e pretendere che capisca. Educandolo con i Disney, i Bonelli, piano piano, seguendolo, spiegandogli i perché, poi si passa ai leggeri e poi vai in Champions.
Oggi, poi, i fumetti sono in mano a più gente, ma non tutti sono in grado di comprenderli. Anche voi, con il sito, avete scritto degli articoli molto, molto interessanti, ma capisci che un minimo di base e di competenza bisogna averla.
Non sai sciare e ti butti a 100 all’ora su una pista nera? Non credo.
Saper usare le semplicità, apparente per altro, è un esercizio notevole; la semplicità non è facile, e saperla utilizzare avvicina alla completezza, nel mio caso artistica.
Come gli umarell al bar, una sera (in realtà i giovani sono i peggiori): non ricordo chi ha sbagliato un gol e tutti a urlare (gente con i bastoni e le dentiere) “Quello lo facevo anche io con una gamba sola!” (le iperboli poi sono meravigliose). E io siccome sono milanista in un paese di juventini, me ne sto sempre zittina, e penso: ma fallo te, vai a correre chilometri con gente che ti fa fuori le caviglie e ti spinge e devi avere la concentrazione necessaria anche per un piattone a porta vuota, ma fallo te se ti sembra tanto facile e semplice… Questo è sempre il mio metro di misura.
Comunque, per chiudere sulla semplicità, c’è stato un commento di una lettrice che credo racchiuda molto del mio lavoro: mi ha detto che ama leggere delle mie protagoniste perché le sembra di rivivere la sua vita e le sue esperienze, le mie storie crescono con lei, ci si ritrova sempre. E questa chimica è bellissima.
E poi sono contenta perché questo fumetto sta andando in mano a persone che un fumetto non lo hanno mai letto. Spiegare loro cos’è, i procedimenti e la Storia anche del linguaggio è fantastico. E importante.

Lavorare al pubblico ti ha aiutata nello scrivere i dialoghi dei tuoi fumetti?
Mah… più che aiutata ha ridotto la mia già esile fiducia nei confronti del genere umano. È stata una scuola chiaramente: guarda come mangia la gente e come si comporta con i camerieri e capirai tante, tante cose su di loro. Quanti ne ho osservati… quante cose che mi sono passate davanti… Che poi i clienti sono a volte anche il meno, sono altri gli aspetti che inaridiscono dentro. Però no, quasi mai mi è stato di ispirazione. I libri, i fumetti, De Luca, Tacconi, Pratt, Dall’Agnol, Reviati, Gipi, Fior, Neri, Antonella Toffolo, Canottiere, Pedrosa, Cauuet, quelli che – se non vengo fulminata all’istante da qualcosa di poco definito che c’è lassù – definisco colleghi, loro sono e sono stati di ispirazione. Non fa ridere anche solo il pensiero che faccio lo stesso lavoro di Gianni De Luca? Dovrei tornare a fare la cameriera seduta stante ahah!

Ancor prima dell’amore in sé, due dei temi principali delle tue storie mi sembra siano la complicità e la condivisione (di ideali, di ricordi, di gusti, di sentire) tra persone diverse, indipendentemente che siano amici o amanti. Quando disegni un gruppo di ragazze/i che parlano o scherzano (tra loro) sembra quasi di vederti partecipare in mezzo a loro tanto emerge il tuo vissuto in queste scene. Quanto sono importanti per te i rapporti tra le persone, quanto ti hanno spinto anche nella carriera fumettistica?
Questa è una cosa bella ma anche problematica.
Devo arrivare a spersonalizzarmi. Allontanarmi dal mio vissuto, vero o per sentito dire, e provare a raccontare personaggi lontanissimi dal mio contesto. A me piace, anzi ci provo proprio gusto, omaggiare luoghi e anche sagre (vedi ne Il giorno più bello la scena della Festa dei Becchi a Santarcangelo di Romagna per San Martino), perché creano e fanno parte di una memoria comune che desidero celebrare, ma fa parte della mia crescita capire che posso raccontare in un altro modo.
Ci vuole tempo. Molti, chiamiamoli, difetti è possibile ci siano anche nel nuovo, ma non la vedo come una nota negativa: si arriva alle cose progressivamente. Guarda la Juve: in dieci anni dalla serie B è arrivata negli ultimi tre anni a giocarsi la Champions. La crescita è graduale, e anche la mia non è esente.
I rapporti con le persone, in generale, sono fondamentali. E parla una che anche nei rapporti interpersonali ha dovuto abbassare la cresta e imparare a coltivarli, perché ero una bella stronza.
Poi c’è l’aspetto di unire l’utile al dilettevole. Io ho questa idea qui: un fumetto deve sempre insegnare qualcosa. Nel dopoguerra e negli anni di boom economico, nel Meridione e in generale in tutta Italia, imparavano a leggere con Tex. Per me questa cosa fa il giro, il fumetto aveva un ruolo fondamentale di crescita culturale. Io ritengo debba essere ancora così. Che sia pop, che sia artistico, che sia di nicchia, nella mia testa uno apre un fumetto e impara che il ponte di Tiberio non è crollato sotto le bombe dei tedeschi perché bla bla bla (Io e te su Naboo), come è nato Pac Man (Cinquecento milioni di stelle), sagre romagnole e luoghi della Puglia, la bellezza dell’Italia (Il giorno più bello).
Penso a me stessa, penso ai momenti bellissimi nei quali leggevo, non conoscevo una parola e andavo a sfogliare il dizionario. L’italiano l’ho imparato così – oltre che a scuola, si capisce.
In Io e te su Naboo volevano farmi togliere “imprescindibile” perché era di troppo difficile comprensione e serviva un linguaggio semplice in un fumetto. Non ricordo se l’ho tolto, ma ci ho messo il “pippone” sul ponte di Tiberio, e il pavone.

Negli anni il fumetto a tematica LGBT ha assunto maggiore rilievo e voglia di riconoscimento. Come vedi questo movimento? Senti di farne parte in qualche modo?
Quando ho iniziato con le autoproduzioni, come praticamente sempre mi accade – c’è un senso di incoscienza che pervade la mia vita –, non avevo idea di ciò che avevo scritto; per me erano sogni, trasformavo cose e sentimenti che vedevo, nulla di più.
Poi hanno iniziato ad arrivare lettere e mail di persone che mi ringraziavano. Ne sono arrivate tante. Le conservo ancora quasi tutte. E come sempre, ho misurato nel tempo ciò che avevo inconsciamente fatto: avevo dato voce a pensieri e a persone che avevano bisogno e necessità di urlare ciò che provavano e vivevano, sempre in silenzio, sempre di nascosto. A modo mio, sono stata una sorta di megafono.
Che io sia sensibile all’argomento, non è un mistero, e farne parte a modo mio, sì.
È un movimento poi? Non siamo tutte persone che hanno solo voglia di essere felici e amare chi ci pare? E liberi di esserlo? Poi la gente è cattiva, si sa, è stronza.
Ognuno lotta per qualcosa, ogni giorno.
È che penso sempre che ognuno non debba avere etichette, ma debba essere semplicemente libero.

Nei tuoi fumetti è sempre presente il riferimento a indumenti, scarpe, feticci se vogliamo che appartengono al tuo immaginario e alla tua esperienza. Che rapporto hai con gli oggetti e cosa significa per te riportarli nelle tue opere?
Sono una che conserva persino gli scontrini! Poi sono migliorata, ho iniziato a buttare via. È che sono fortemente legata alla storia: anche nei fumetti, a me dà proprio gusto raccontare il presente perché magari tra vent’anni apri un mio fumetto e c’è una veduta di una città che non esiste più. Il terremoto, poi, mi ha sconvolto. Viviamo in un’epoca nella quale i ricordi sono veloci e sono su una nuvoletta: tra tanti anni, non riusciremo più a ricostruire come si viveva nel 2017. Se sappiamo ciò che sappiamo dei secoli precedenti, è grazie agli oggetti, alle fotografie, a cose concrete che fanno la storia. È l’arte, le opere noiose esposte nei musei, che quando sei al liceo pensi che sia una scocciatura. Sono i carteggi degli scrittori, le lettere diventate libri. Oppure i bozzetti di opere d’arte che sono esposte nei musei del mondo.
Guarda anche solo nel film d’animazione Macross, quando Coso e Cosa (non ricordo i nomi, abbiate pazienza lettori) ritornano sulla Terra senza capire di esserci tornati, poi va be’ fanno anche l’amore, ma è negli oggetti la chiave della fine della battaglia. Più o meno. L’ho spiegata malissimo, ma il senso è quello.
Per il fumetto nuovo ho dovuto aprire un bel vaso di Pandora: cercavo non ricordo cosa e ho trovato i telegrammi di quando io e mia sorella siamo nate nel 1975. Pezzi di carta ingialliti, di un’Italia degli anni di piombo che non esiste più, di gente che nel frattempo è morta.
Che posso dirti, mi sono fissata. Ma è la Memoria. Di tutti. Ricordare sempre da dove veniamo per poter migliorare il futuro. Penso ai giovani. Okay Rovazzi, ma sapere chi sono i Joy Division fa bene uguale. Okay Martoz, ma sapere chi fosse Gianni de Luca o anche solo Ferdinando Tacconi fa bene uguale. La Storia, conoscere la storia, è fondamentale: è l’unico scudo per sopravvivere, insieme all’educazione.

C‘è qualcosa che ti è tanto caro da non riuscire a metterlo in un fumetto?
Marco van Basten. Mai riuscita a scrivere e disegnare una storia su di lui senza piangere o commuovermi. Forse un giorno, da vecchia, ci riuscirò. Spero.

I tuoi personaggi condividono con te l’appartenenza alla una generazione dei quarantenni di oggi, e quindi a un immaginario cultural-popolare (che emerge nelle tue opere). La tua è una certa forma di nostalgia per l’infanzia, l’adolescenza?
Non la chiamerei nostalgia. Sì, certo, sono una persona nostalgica e malinconica, nella miriade di difetti che mi caratterizzano, però credo di essere stata fortemente scioccata dalle morti di mio nonno e di mio zio, per cui non riesco a darmi pace.
Voglio raccontare la vita, com’è oggi e com’è stata. Perché non tornerà più. E il mio tempo, non tornerà più.
Mi volto indietro, ho fatto cose … e Mi sveglio quarantenne, con l’ernia, che fare uno scatto per rincorrere un pallone mi fa fuori un polmone e almeno una settimana a letto, e dentro mi sento ancora ventenne, ma nel frattempo i ventenni non li capisco più e io che pensavo di essere “ggggiovane”, la musica è cambiata ed esiste Rovazzi, quando in un certo senso sono rimasta alle Spice Girls, le mie amiche figliano e si sposano quando eravamo ragazze due minuti fa e parlavamo delle nostre disastrose vite sentimentali sotto il mitico ombrellone 105 al bagno Oasi 15 da Tiziano.
C’è stata un’impennata non richiesta di età e situazioni.
Non voglio che finisca la vita, la mia e delle persone che amo. Non sono pronta a ciò che è ineluttabile. Non lo accetto. Ma tocca farlo.
I fumetti sono l’unico strumento che ho per raccontare storie un po’ di tutti e raccontare questo tempo, quelli passati, poter far dire a qualcuno che legge le mie storie: è vero, era così! Oppure: l’ho vissuto anche io!
E quindi racconto la vita per celebrarla, perché vivere è bello, e prezioso.
C’è una frase in Troy che (incredibilmente) Brad Pitt nel ruolo di Achille dice a Berenice (sorvoliamo sulla realtà storica): “Sai perché gli Dei ci invidiano? Perché siamo mortali, perché ogni momento per noi può essere l’ultimo”.
Forse non dovevo leggere Leopardi subito dopo la morte del nonno chiedendomi che senso avesse la vita se non si possono salvare le persone che amiamo… Però era nel programma di quarta ginnasio…!
So che voglio lasciare qualcosa, un microscopico passaggio di me su questa Terra, anche solo un fumetto seppellito dalle ragnatele e dalla polvere nel fondo di una biblioteca.
E questo è un altro mio grossissimo problema: pensare sempre alla fine invece di godermi il presente, un presente per altro parecchio sereno. Sto cercando di migliorare però.

Credi proverai un giorno ­– sempre che ti interessi – a staccarti da questo tuo “indossare” il fumetto e riversarci il tuo vissuto, diretto o indiretto, per affrontare altre tematiche, opere di fantasia o comunque distanti da te?
Sì. Non oggi, ma arriverà anche questo momento. Per il percorso di crescita nel quale piano piano, renzianamente, arrivo arrivo!
Devo esaurire certe sensazioni, mettere a posto cose dentro di me, espletarle trasformandole. Fa parte sempre di un processo. Ci arriverò.
Se il Milan è tornato in Europa, posso farcela anche io.

Una delle cose più particolari della tua carriera è stata certamente l’esecuzione degli affreschi della chiesa di San Martino in Riparotta di Viserba Monte, alle porte di Rimini, nel 2014. Per te ha avuto un significato particolare affrescare un luogo di fede?
Come scrivevo sopra, ho accettato questa commissione con una incoscienza straordinaria, per cui come sempre non avevo idea di quello che stessi facendo. E come sempre, lo misuro nel tempo.
Non avevo mai immaginato la Chiesa come un luogo diverso dal significato religioso. Io ricordo che entrai, Don Danilo e l’ingegnere Pino Ferri mi mostravano Chiesa e colonne e mi spiegavano la loro idea.
Avevamo l’affresco di ERON su, in alto, a regalarci bellezza e, a me, un po’ di soggezione. Ho sempre visto quelle colonne come il foglio bianco, con quello stimolo di donare e creare colore, cercare di fare del mio meglio per rendere l’atmosfera che mi era stata richiesta.
Quindi, è stato un onore, è stato un lavoro pazzesco, è stato speciale e quella Chiesa è un po’ casa, però non c’è mai stato un momento nel quale la religione o il luogo di fede hanno oltrepassato altri significati, forse per il modo di fare dei committenti, forse perché davanti alla croce e tra le panche ci muovevamo come fosse “altro”. Non ho mai avuto il timore reverenziale dell’acqua santa che evaporava per qualche parolina di troppo, diciamo, e anche parlando con il Don e l’Ingegnere non sembrava mai di stare in Chiesa, ma in un ufficio a parlare di lavoro. Io ero stata chiamata per ciò che ritengo di saper fare meglio: i miei disegni e, soprattutto, “decorare” le colonne raccontando storie in una grande storia, quella di San Martino.
Sembrerebbe essere venuta bene.

Come hai dovuto adattare il tuo stile a questo scopo? Come hai preparato il lavoro, quali riferimenti avevi?
È stata una bella esperienza: ogni immagine aveva delle misure precise, quindi dovevo dimenticarmi il dinamismo del far uscire un personaggio dalla vignetta e quell’architettura con cui cerco di comporre le tavole.
Dovevo realizzare una storia con le espressioni, le prospettive, i paesaggi e in dimensioni standard.
Ho letto quasi tutti i libri dedicati a Martino, poi diventato Santo. Pensavo fosse una storia conosciuta, quantomeno le due che abbiamo scelto per i due lati (il taglio del mantello e quando Martino, imprigionato, compie il primo miracolo attribuitogli e dunque ottiene la vocazione); invece, anche la scena del taglio del mantello che avrebbe dovuto essere quella più famosa era sconosciuta a molti.
Ho disegnato molti bozzetti: li portavo in Chiesa e a quel punto spiegavo io al Don e all’Ingegnere come “vedevo” le colonne. Una delle cose che non si dicono quasi mai è quando si hanno committenti che sono fuori da questo mondo: i codici sono diversi, per cui io “vedevo” il lavoro “già” a colori, nella mia testa aveva un senso che però era di difficile comprensione al Don e all’Ingegnere. Bella palestra comunque.
Che poi la fase più lunga è stata la scelta degli episodi. All’inizio si pensava di raccontare tutta la sua vita, poi io, leggendo e studiando, proposi di sottolineare due scene. Di fatto, Martino, una volta lasciato l’esercito e dedicatosi alla vita monacale non è che abbia avuto una vita da montagne russe, e gli episodi fondanti della sua esistenza sono avvenuti tra i suoi 17 e 22 anni, appena. Così feci ponderare un’idea più “ordinata”. C’erano due lati, quattro colonne per parte; da come la si guarda non si ha mai una continuità, perché ci sono l’abside e l’altare a est e di fronte il portone. Ho immaginato fosse difficile far mantenere l’attenzione di lettura allo spettatore – la sensazione è come lo “stock!” da fine lato delle musicassette quando ci registravi sopra e a volte c’erano le canzoni a metà ma tu eri lì a goderti la musica e poi quello “stock!” che ti distoglieva dalla magia. Non volevo uno stacco radicale simile.
Poi ho realizzato dei disegni preparatori definitivi, indicativamente come dovevano venire sulle colonne.
Per i colori c’è stato un altro scoglio: io da sempre sono legata al realismo, quindi, per esempio, per il primo lato ho anche interpretato e fatto delle scelte: un po’ perché dai libri la verità storica è sempre relativa, un po’ perché nella scena del taglio del mantello avrebbe dovuta esserci la neve, ma 24 disegni con un’ambientazione tutta bianca era azzardata sulle colonne di colore bianco. Così ho scelto colori freddi, bui, che potessero dare la sensazione di ghiaccio senza neve.
L’altro lato invece è stato più semplice: Martino si battezza e poi compie il miracolo. C’era poco da variare: volevo colori vivi, potenti, solari.
Il contrasto finale alla fine mi sembra buono.
Ho ripreso e sfogliato i miei vecchi libri di storia dell’arte e ciò che vedevo lo trasformavo in quello che mi serviva, mantenendo sempre un riferimento al mio segno. Con i nasi c’è stato qualche problema, i fedeli hanno obbiettato e il parroco e l’ingegnere hanno dato risposte superlative. Che anche lì, se i riferimenti sono quelli ciao, vado ad aprire il bar! Della serie: ai Caravaggio o ai Michelangelo avreste detto di cambiare qualcosa dei loro dipinti? Chiaramente zitti. E io ho disegnato i miei nasi. Adesso ho cambiato pure quelli nella trasformazione degli ultimi tempi.

Che rapporto hai con la religione, la fede e la Chiesa?
L’educazione è stata quella di tutti, credo: battesimo, comunione, cresima.
Quando si è piccoli si ha poca scelta, nel senso che ci dicevano che dovevamo andare lì, a fare catechismo per esempio, e io e mia sorella ci andavamo. Eravamo ubbidienti e di certo l’esperienza ci mancava, per cui fai ciò che ti dicono i genitori. Sulla base poi del meglio, nessun genitore dovrebbe volere il male per i figli, quindi stavo lì.
Da adulta la mia fede ha vacillato, poi si è accucciata da qualche parte e sta lì.
Le religioni e la Chiesa mi affascinano, mi piacciono la teologia, le idee, ciò che viene anche predicato: a livello teorico secondo me le religioni sono studi molto belli. Poi purtroppo c’è chi le pratica e spesso, molto spesso, se ne perde il senso e l’interpretazione è a caso e accadono molte cose brutte e incoerenti.

Nel tuo blog parli spesso di sport e di calcio in particolare, con grande passione e coinvolgimento. Anche nei tuoi fumetti il pallone compare più volte. Cosa ti lega a questo sport: il tifo, dei ricordi…
Ero una bambina: cosa vuoi, hai dieci anni, undici. Sei una bambina e giochi a pallone invece di giocare con le bambole. Guardi con il nonno e lo zio “90°  minuto”, il fumo delle loro sigarette e il vino, mentre la nonna finisce di rassettare la cucina dopo il pranzo della domenica. Poi un giorno, un Presidente spavaldo, un omino di Fusignano con la zeta romagnola che fa tanto casa e Dio Marco van Basten che gioca per una squadra dai colori rosso e nero. Decidere di tifare Milan contro i miei juventini, e il nonno e lo zio del Napoli, è stata la prima prova della mia esistenza di essere umano che poteva essere indipendente e poteva scegliere, un essere pensante che aveva un gusto diverso, che poteva non essere omologata a ciò che dicevano di dover essere. Se vogliamo chiamarla ribellione… anche se non credo di essere mai stata una ribelle. Sulla libertà sì, esplodevo se non potevo fare ciò che volevo, nei limiti.
Per me il calcio, questo sì, è stato sempre fede e religione, altro che la Chiesa! Ho sempre pensato di essere una perdente, nel calcio io vincevo, ero brava, il calcio mi ha insegnato ad avere fiducia in me. Perché ero da sola, c’erano solo le mie gambe che mi reggevano, nessuno mi aiutava. Certo, c’era la squadra, facevo parte di qualcosa, ma io meritavo di stare lì, con loro. Non è stato facile giocare con i ragazzi e ed essere più brava di loro, per altro. Mi ha fatto capire che se riuscivo a essere più brava di un ragazzo (che geneticamente non può non giocare a pallone, pensavo, nella mia testa di ragazzina sognatrice) potevo essere brava in tante cose. Ho visto giocare ragazzi che non ho mai capito perché non fossero in serie A, eppure… Non esiste più niente di quando giocavo io, squadre, campi, pseudo società. Poi sono andata a Milano, ho giochicchiato ma ho scelto il disegno. Poi qualche ossicino rotto e fine. Di notte mi capita di sognare di correre, adesso che non posso più. La sensazione è la mia sorpresa con la schiena e le gambe che mi sorreggono ancora.
Poi van Basten l’ho conosciuto, cioè me lo hanno fatto incontrare per esasperazione. Ho portato la famiglia talmente allo sfinimento che la zia mi ha portato a Milanello e ho stretto loro la mano, a van Basten, a Rijkaard, a Massaro.
Stringere la mano a van Basten per me fu folgorante.
Sai, non sono mai stata una di quelle che urlavano per gli idoli musicali o che si strappavano i capelli per qualcuno, l’essere fan a livelli pazzi: mai fregato niente di nessuno, ma van Basten era l’unico per cui urlavo, per cui sì, impazzivo.
A scuola gente che piangeva per la bellezza delle canzoni dei Duran Duran, per la morte di Freddie Mercury, io ero triste se perdeva il Milan, il resto era contorno.
A me non piacevano mai le cose che piacevano ad altri, per cui non facevo che sentire maggiormente la mia diversità. Poi anche a quella mi ci sono abituata.
Mia sorella aveva i poster dei gruppi o gli idoli dell’epoca nel suo angolo di camera, il mio era praticamente rossonero: avevo le foto di van Basten da “Forza Milan!” o dal “Guerin Sportivo”, i poster del Milan che vinse la Coppa Campioni a Barcellona e quella dell’Intercontinentale. Disegnavo e giocavo a pallone: leggevo, studiavo certo, facevo cose, ma se penso all’infanzia, ho tante cose che stanno venendo fuori oggi per lavoro, ma nel ricordo gioioso il disegno e il calcio e il Milan, quel Milan, erano quasi tutto.
Ho fatto robe che a ricordarle adesso… saltavo scuola per seguire il Milan, mancai una settimana per andare a Marsiglia, quella dei riflettori spenti; saltai scuola per andare alla finale ad Atene nel 1994, seguivo il Milan quando potevo, andai anche a Monaco, sempre contro il Marsiglia che vinse quella Coppa. C’era Bernard Tapie presidente che era il Berlusconi francese dell’epoca: di quella notte ricordo l’enorme silenzio della città, non capivo perché ci fosse quella realtà parallela, saremmo dovuti essere allo stadio a festeggiare e invece eravamo nel silenzio di un taxi che ci portava in albergo. Ne ho viste tante di quel Milan, ho fatto la scorta per gli anni a venire e per i cinesi.
Ma c’ero, l’ho vissuto come credo di aver vissuto poche cose pienamente, in una memoria collettiva quantomeno.
Io c’ero. Quando fanno vedere in televisione le rovesciate di van Basten c’è n’è una in particolare: lui calzava già le Diadora con il simbolo arancione e Massaro quella sera Capello lo aveva schierato terzino. Era una partita di Coppa Campioni, contro il Goteborg. Il Milan vinse 4 a 0. Io c’ero, anche lì, quella volta: ho visto quella rovesciata dal vivo, con i miei occhi. È vero, ci sono tante altre cose importanti nella vita, ma io ero lì e a pensarci adesso mi commuovo ancora. Lo so, per una sciocca partita di calcio. Ma.
Sai, il Mondiale è un po’ di tutti, quei festeggiamenti, quell’ “esserci”, ma quel Milan ormai è un ricordo da intenditori, o da vecchi, o da Pellegatti, da me insomma.
Adesso però c’è anche il ciclismo. Ma il calcio è e resterà sempre il grande amore sportivo.
#e*d@ quanto ho scritto. Promemoria per te Ettore: non chiedermi mai più di calcio nelle interviste.

La prima volta che sei andata allo stadio?
Milan – Genoa, a San Siro. 9 settembre 1990.  1 – 0, rete di Agostini.
A San Siro.
Al Romeo Neri di Rimini, con il mio babbo che per risparmiare comprò i biglietti nella curva degli ospiti, Rimini – Palermo di Serie B dei primi anni ’80, 1981 forse, finì in pareggio, 1 – 1 mi pare. Ho il ricordo del pareggio del Rimini e il mio babbo che mi diceva di non festeggiare che se no ci riconoscevano.
Poi il Rimini lo seguivo in C2 girone B con gli umarell che urlavano bestemmie e sputavano dagli spalti, quei distinti di cemento che essendo in C2 avevano tolto pure le seggiole. Rimini – Vis Pesaro erano sempre emozioni forti. Poi quando tornò in B il Rimini, andare allo stadio era come andare a fare aperitivo nel posto figo. Smisi, ma disegnai lo stemma dell’associazione giovanile Bellavista, l’ancora rimpianto presidente del miracolo del Rimini in B del 2006.
Adesso non abito nemmeno più a Rimini, e se mi capita vado a vedere la Jesina: maschile e femminile. O il Montemarciano, che a Gabella quando c’è stato il derby tra paesi vicini è stato un bel folklore. Che tenerezza poi, l’anno scorso giocavano con il pallone della Champions, quello con le stelle nelle cuciture.

Il giorno più bello è disegnato a colori, mentre per anni hai preferito il bianco e nero: come è nata questa scelta e come è stato lavorare nell’ottica di un opera a colori?
È stato un passaggio obbligato. Per me stessa e per la carriera.
Quando ho iniziato questo lavoro, il colore era qualcosa che non faceva parte di me, come se ci fosse stato un periodo della mia vita nel quale vedevo solo in bianco e nero. Sono nata con il bianco e nero, anche perché le fotocopie a colori per le autoproduzioni costavano il doppio, quindi è stata una scelta di necessità e risparmio.
Poi a un certo punto, con il fumetto che è entrato in libreria e maggiore attenzione – e/o moda dagli Stati Uniti a cui accodarsi –, la stragrande maggioranza dei fumetti è diventata a colori. Prima il colore apparteneva solo a un certo fumetto, veniva chiamato d’autore, era merce di grandi, grandissimi autori. Sembrava ci fosse un fumetto di serie A e uno di B, io ero in Promozione, quindi guardavo tutti da molto lontano.
In ogni caso, io, al di là di quello che è moda e ciò che facevano gli altri, dovevo dimostrare a me stessa di essere un’autrice completa, in grado di saper padroneggiare una tecnica come l’acquerello.
Così ho ripreso a studiare, ad “allenarmi”, a vedere “a colori”. E ho scoperto quanto il colore potesse essere una chiave utilissima per dipingere appunto lo stato d’animo dei personaggi, oppure caricare di significati le intenzioni degli stessi (la scena del ballo della pizzica per esempio), quanto il colore potesse davvero dare una luce diversa alla vignetta, o quelle luci soffuse, quelle ombre cariche (l’entrata in Chiesa di Tina), insomma, un aspetto diverso alla storia, così come le scene del mare e della spiaggia, quella luce esattamente pugliese.
Sono stranamente molto, molto soddisfatta del livello raggiunto.
Ora ho azzerato tutto, ma a sfogliarlo è stato proprio uno spartiacque importante. E l’ennesimo bel ricordo.

Leggo che stai lavorando a Volevamo essere le Spice Girls. torna ancora un manifesto generazionale e culturale dei quarantenni di oggi. Perché le Spice Girls? Cosa ti richiamano?
Confesso che a quasi 300 tavole le Spice Girls praticamente non le ho ancora disegnate, anche se in realtà non appaiono mai. Ma sono un pretesto, così come i titoli mistificanti che mi piace tanto usare.
Sì, questo fumetto sì, sarà per affinità con i personaggi e con la mia età però volevo raccontare (ancora) di ragazze che sono diventate donne: ma c’è di più, almeno nelle tavole e nelle intenzioni.
Alzo l’asticella, muovo cinque personaggi e i comprimari, ci sono personaggi lontanissimi da me (e si intuisce quel processo di spersonalizzazione di cui sopra, è appena un inizio ma ci provo) che vivono situazioni che io non ho mai vissuto. Poi va be’, c’è Rimini, sempre, ma anche questa sta diventando una mia caratteristica. Che poi nell’ultimo ci ho messo la Puglia, sto migliorando dai… però possibilmente sempre Italia, e le bellezze che ha questo bellissimo e straziato paese.
E le Spice perché rappresentano un immaginario collettivo, di colori, di pop, di sogni, e l’illusione che se cinque sgallettate prive di talento sono diventate le Spice chiunque di noi poteva avere successo. Dai, la Victoria Beckham ha ammesso qualche tempo fa che il suo microfono era sempre spento durante i concerti tranne quando faceva quei due versi che le erano concessi. Di cosa stiamo parlando?
Eravamo giovani, avevamo vent’anni, van Basten aveva appena smesso di giocare ad appena 28 anni, e sai, erano gli anni ’90 con tutto ciò che sono stati, dalla filmografia, alla musica, alla narrativa, ai fumetti. Oggi li si guarda come si guardano gli anni ’70, ma con meno polvere.
Voglio raccontare come ci si sente a essere arrivati negli anni 2010 dopo aver attraversato i ’90, essere state bambine nei ’70 e l’infanzia negli ’80.
La domanda è: a vent’anni ci si immaginava di diventare ciò che siamo oggi? Non abbiamo tutti più o meno accettato cosa e chi siamo diventati?
Le Spice mi servono come palliativo: le guardi nei video di adesso, quarantenni segnate dal tempo che hanno vissuto qualcosa di enorme e lo stanno misurando adesso vent’anni dopo; quando lo vivevano era scontato, non se ne rendevano conto. Poi è finita, è finito tutto, è rimasto solo il ricordo, e sono “cadute”, con un tonfo fortissimo.
Cosa siamo diventate? Volevamo questo per noi? Che sogni avevamo che non si sono avverati?
E poi c’è la Storia, dietro, quella con la S maiuscola: quanto l’educazione sia stata totalmente modificata sulla base di un contesto politico, sociale, storico ed economico, quanto la D.C. e il P.C.I. abbiano influenzato quell’Italia lì, la mafia, l’eroina, Andrea Pazienza, i fumetti. Quanto poi l’educazione ricevuta dai genitori abbia influenzato noi, lasciandoci dentro paure inconsce e modi di pensare che ci hanno inculcato inconsapevolmente, ritenendoli giusti per carità (si cerca sempre di fare il bene per i bambini, e questo lo voglio salvare, la bontà delle azioni), ma… ma.
Chiaramente, il punto di vista è un po’ quello mio, una ragazzina borghese e snob nella Rimini degli ’80. Pace, crescerò prima o poi, imparerò ad ascoltare Rovazzi, ahah!

Ascolti musica quando scrivi o disegni?
Dipende dal periodo. C’è stato anche quello del silenzio. Adesso che c’è il Giro ho quello, oppure i podcast di calcio o le trasmissioni sportive. Musica poca, mi piace solo Radio Deejay, però ultimamente preferisco lo sport. Poi da quando c’è Sky è la fine. Poi in estate ci sarà il Tour, la Vuelta… Poi riprenderanno le amichevoli di lusso, il Milan nei preliminari di Europa League, il campionato… ce n’è, ce n’è…!

Quanti ricordi sono legati alla musica? E quanti dei tuoi fumetti?
All’inizio tanti, c’era tanta musica, anche perché i supporti erano diversi, e anche il vivere la musica, dalle musicassette ai cd, c’era un aspetto materiale che influenzava la memoria e il vivere quell’epoca. Poi i periodi che tutti hanno vissuto: nelle mie storie iniziali, nelle storie brevi, era il mio periodo dei Cure, gli Smiths, gli Einsturzende, i Joy Division, insomma, un certo tipo di musica che a rileggere i fumetti di diciotto anni fa si sentono tutti. Anche personalmente, mi vestivo di nero e quando vedo ragazzine che vivono gli stessi momenti mi viene da sorridere. Dicono che il mondo sia cambiato, e in parte lo è, ma certe sensazioni, di come ci si sente quando si mette la testa fuori di casa, e di come ci si sente inadatti e sbagliati, è sempre la stessa.
Una mia storia breve, Golden Brown è direi l’esempio perfetto di quel periodo “musicale”. L’ho ripubblicata sull’antologia di Hai mai notato la forma delle mele? edita da Renbooks peraltro.

Il fumetto adesso è la tua attività principale?
È un sì risicato. C’è anche tutto ciò che c’è intorno, che aiuta: insegno, collaborazioni, illustrazioni, modero e organizzo presentazioni, collaboro con librerie per ampliare il reparto fumetti tipo. Insomma, ciò che è fumetto e la missione nel far amare quest’arte.

Come vive Mabel Morri?
Di calcio, di ciclismo, di birra d’estate e di vino d’inverno.
Guarda, sono fortunatissima, e felice: nel privato credo di poter affermare di avere tutto ciò per cui si possa essere invidiati; ognuno si costruisce la propria felicità e il proprio equilibrio. E poi avere quarant’anni fa schifo per i capelli bianchi e gli acciacchi, ma capisci ciò che è fondamentale, quali sono gli aspetti che valgono la pena e che si sono raggiunti.
E poi c’è la salute, a grandi linee c’è. Che è una delle cose più importanti. Sono davvero fortunata, lo sono sempre stata, nell’amore dei cari e degli amici. Ho sempre avuto la libertà: di scegliere, di sbagliare, di cadere, di risalire, anche di fallire, abbattuta magari ma mai sopraffatta.
Artisticamente sono guai invece. Mi concedo il lusso di essere insoddisfatta, di lamentarmi, di sperimentare, di crescere leggendo, studiando, disegnando, mi nutro di libri e fumetti, osservo osservo osservo, ho prospettive “d’artista”: è come quando giocavo a calcio, mai contenta anche se vincevo. Un po’ come la Juve insomma.

Nel fare fumetti sei ordinata (con tempistiche, metodo) o vivi più d’istinto e di momenti?
Be’, ordinata è una parola grossissima. Cerco di avere un programma quotidiano, mi pongo degli obiettivi da portare a termine entro la fine della giornata. Normalmente non ne rispetto uno, per cui il principale nemico di me stessa sono io. E i programmi sportivi. Quindi, sono matematicamente in ritardo, sempre, su tutte le consegne.

Che strumenti usi? Ti aiuti con il digitale o sei ancora “analogica”?
Sono ancora alla carta, alle matite, ai polpastrelli sporchi di grafite, con le maniche impiastricciate di tempera e le virgole di gomma ovunque. Io amo l’odore dei colori, il fruscio della carta e della matita che segna, della vibrazione del polso e del peso. Il digitale è bello, aiuta tanto, ma ho sempre queste idee, queste massime che sono mie, chiaramente. Sai, ho amato e amo l’arte, l’ho studiata e per me andare in un museo non è una perdita di tempo, ma un viaggio, per gli occhi e per il cuore, per cui avere degli originali è un lascito, è una testimonianza del nostro passaggio, è qualcosa che rimarrà oltre noi.
Il digitale per me è qualcosa che aiuta a essere bello ciò che è già bello fisicamente, è uno strumento comodo nel mettere i testi, e per le scansioni (si hanno già i file e non c’è l’intermezzo della post produzione), dare anche colori saturi è comodo, ma se non lo si sa fare dal vero, cioè con pennelli e colori, con quelle pigmentazioni – perché ogni tecnica ha le sue caratteristiche –, boh, è un’idea ma mi sembra manchi qualcosa, mi sembra un po’ freddo.
Poi certo, ci sono autori che usano il digitale che fanno lavori commoventi, e parecchi anche dal vero sono dei mostri.
Al momento comunque preferisco rimanere fedele alla carta, per questa mia idea di ereditarietà.

Se non sbaglio hai sempre e solo lavorato in solitaria, scrivendo e disegnando i tuoi fumetti: mai pensato o mai avuto occasione per collaborare con altri autori?
Sì, sempre da sola. Sai, il mio carattere e la timidezza anche – tanto brava e coraggiosa a entrare in tackle ma a parlare con gente con cui era importante, facevo fatica – mi hanno sempre ritardato in tutto. Nel calcio no, avevo le tempistiche giuste. Ma quando giocavo io c’erano i campi di patate per le femmine, oggi per la Champions femminile c’è il Mapei Stadium, gli stadi importanti, bello.
Comunque.
Mi è capitato però una collaborazione per La fine dell’amore della Hop! Edizioni nella quale alcuni racconti di Ilaria Bernardini venivano trasformati in storie brevi a fumetti. Io ne ho realizzata una. Non è esattamente il rapporto sceneggiatore-disegnatore come ce lo si immagina, alla Bonelli intendo, però ho lavorato su testi di altri. Avevo tanta libertà: di struttura, di frasi, di tavole anche; quindi la annovero a metà come esperienza.
Farà parte del mio cammino. Non posso escluderlo. Prima dovevo essere io “l’artista” a 360 gradi, adesso no; se capitasse, una bella ragionata su un progetto scritto da altri, perché no? Cioè proprio io che devo “solo” interpretare le vignette. La vedo come ulteriore possibilità di imparare, di smussare angoli, una palestra per farlo ancora meglio, questo mestiere.

La tua presenza in rete: il blog. Cosa è per te, come consideri questo tuo diario virtuale?
Quando ho aperto il blog, in un’epoca peraltro che il blog aveva dato – vedi? Sempre sul pezzo… –, doveva essere una vetrina per farmi conoscere nella rete. Poi ci sono state varie fasi: la progettualità naufragata per già citati limiti di disciplina, il divertimento, la noia e dunque il silenzio.
A un certo punto, ho guardato questa cosa dentro questa nuvoletta invisibile, un po’ abbandonata a sé stessa, e ho iniziato a dare una regolarità: pagine, categorie, fumetti. Doveva rappresentare varie forme di me: quella scema, quella intellettuale/artistica, quella calcistica.
Oggi, forse, c’è una linea. Forse.

Facebook: come lo vivi, quanto ti è utile anche professionalmente, quanto segui polemiche e tormentoni?
Facebook lo vivo, credo, come tutti: lo scorro e poi… mi annoia. Ho “amici”, ex compagni di scuola magari, o ex insegnanti persi totalmente di vista, e ritrovarli su FB, senza troppe invasioni, è quasi bello: o meglio, vedere che stanno bene, che si sono costruiti vite apparentemente belle, famiglie, è piacevole.
Non è che professionalmente lo usi tanto. Certo, è capitato, ma non lo considero come unico mezzo di comunicazione. È comodo più che altro, e veloce: si azzerano barriere di educazione che normalmente io ritengo esistano anche sui social, soprattutto con colleghi con cui non si ha a che fare quotidianamente.
Per quel che riguarda le polemiche e i tormentoni, mi capita di leggerne qualcuna: “seguire” è una parola grossa. Ritengo che non sia lo strumento giusto, e la stragrande maggioranza delle volte non sono né edificanti né costruttivi.
I veleni ci sono, come per altro in ogni ambiente (vai nelle cucine dei ristoranti, tra cuochi, aiuti cuochi, camerieri e proprietari, questi del fumetto ti faranno ridere in confronto), però io credo anche che questo mondo sia piccolo, e nei limiti è un movimento che deve crescere, è il linguaggio che deve essere conosciuto. I veleni non aiutano, anzi te lo fanno vedere da fuori come un movimento maleducato e “basso”.
Il fumetto invece deve essere elegante, educato, deve insegnare. È Arte. Deve essere “alto”, sia che si disegnino fumetti come i miei o i cosiddetti “popolari”, termine per altro obsoleto e sempre usato male.
Il fumetto è cultura, qui si cerca di fare cultura e il comportamento e l’educazione devono essere tali.
Poi certo, ci si sporca le mani perché il mezzo significa questo, è un lavoro nel quale ci si deve sporcare le mani, letteralmente.

Scrivendo queste domande ho scoperto che non hai una pagina a te dedicata su Wikipedia. Non lo trovi ingiusto ;-)?
Appena ho letto la tua domanda, la prima cosa che ho pensato è: non me ne può fregare di meno. Ma siccome ormai sono una signora e sta brutto rispondere così, ritengo che ci sia comunque un aspetto positivo. Nei motori di ricerca, quando si vuole scoprire qualcosa su di me, il blog è una delle prime voci, quindi cliccandoci sopra c’è più possibilità di conoscermi, perché magari incuriositi si legge qualcosa in più, si sbircia nei post. E io la vedo una cosa positiva. Se un giorno ci sarà qualcuno che vorrà scrivere una pagina Wikipedia sul mio lavoro mi farà molto piacere, ma al momento va anche bene così. L’ingiustizia, Ettore, nella vita è un’altra cosa. Però grazie, fai sentire il mio lavoro importante e meritevole di avere una pagina Wikipedia.

Le illustrazioni presenti nell’articolo sono studi e prove per Volevamo essere le Spice Girls.

Intervista condotta via mail a Giugno 2017.

Clicca per commentare

Rispondi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *