Un giorno me ne andrò da qui, tornerò nel mio paese. E tutti mi chiederanno che fine avevo fatto. Mi accompagneranno nella mia casa, rimasta vuota per anni. E io dirò loro: «Va tutto bene, è tutto tornato a posto».
Louis, cresciuto con la sola madre, è un bambino introverso, che va bene a scuola ma non riesce a legare con i compagni. Un giorno riceve una telefonata da uno sconosciuto con uno strano accento. È un amico di famiglia che entrerà nella sua vita, portando a un percorso di crescita e di riappropriazione delle sue radici.
Centomila giornate di preghiera parla della Cambogia e del genocidio sotto i Khmer rossi, ma sceglie un efficacissimo sguardo dal basso, dagli occhi di una piccola vittima inconsapevole. L’idea per la storia è venuta a Loo Hui Phang da un’esperienza autobiografica: al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, il padre dell’autrice le aveva accennato all’imminente matrimonio di una nipote che era emigrata dalla Cambogia insieme al fratello, lasciando in patria i genitori e le sorelle, assassinati durante l’insurrezione di metà anni 70. Loo Hui Phang, come il protagonista di questa storia, ha così conosciuto una parte della propria famiglia, solo per dir loro addio, un momento dopo. Un lutto istantaneo, conseguenza di un dramma che non era tanto un segreto, quanto piuttosto un evento deliberatamente riposto fra le pieghe scomode del passato.
La storia di Louis è una meditazione sul concetto di memoria che si riempie di sfaccettature: si parla della memoria di un intero popolo, di come si sia preferito nascondere la tragedia in una voragine sotto il tappeto, non per negarla, ma piuttosto per la necessità di andare avanti, abbandonando i propri fantasmi. Ma la memoria ha anche una dimensione privata, e il rapporto contraddittorio, oscillante fra rabbia e nostalgia, che mostra la mamma di Louis, è reso in maniera naturale, senza enfasi o patetismi. C’è di più: attraverso Louis cogliamo l’immagine del padre, in due momenti in cui figlio e genitore parlano, condividendo le stesse frasi, e percepiamo quindi l’impronta genetica, quella memoria insopprimibile che è stata trasmessa dal corpo.
La conclusione di questa graphic novel, inoltre, ci dà un quadro delle conseguenze della memoria: la catarsi che saremmo portati ad associarle è solo un fantasma, un’ombra passeggera, come un uccello in volo che oscura, per un attimo, il sole. La verità è che la gestione di una tragedia non è affatto semplice, e l’elaborazione di un lutto ha una dinamica di difficile risoluzione.
La narrazione, che mantiene un equilibrio notevole, nonostante i rischi del tema trattato, restituisce una figura di bambino perfettamente tridimensionale. I dialoghi asciutti, i capricci, la ricerca dell’altro così come la voglia di rifugiarsi in se stesso, sono sempre resi con economia di parole. Esemplare, in merito, l’amicizia che nasce con il compagno di scuola Cédric, e che si costruisce sulla schermaglia fra due ragazzi che sentono di venire da situazioni simili, nonostante le differenze.
Lo stesso lato onirico, molto importante, è ben integrato nella struttura del racconto: tutte le escursioni nell’incubo che il bambino compie, in compagnia del canarino che diviene il suo Caronte alato, appaiono una naturale elaborazione del mondo intorno a sé. La storia, di conseguenza, ne risulta rafforzata più che frenata, anche perché ogni sogno porta nuovi elementi che fanno progredire la trama.
Michaël Sterckeman gestisce le tavole come se lavorasse su un vetro appannato per farci vedere quello che c’è dietro: le vignette non hanno bordi e mantengono una base in toni di grigio che si stacca dalla pagina. È come se il disegnatore volesse rendere il concetto di memoria in senso grafico: ci consente di percepire oggetti e persone al di là di una nebbia che li nasconderebbe. L’attenzione è principalmente sulle figure umane e sui volti, mentre gli ambienti sono resi con pochi, efficaci tratti impressionistici. Le linee sottili si dispongono secondo curve che danno un aspetto d’insieme armonioso, anche grazie alle macchie di nero intenso (capelli, baffi, parti del corpo in secondo piano) che spezzano una struttura in cui il chiaroscuro è programmaticamente ridotto o assente.
La dimensione del sogno inverte l’equilibrio cromatico, spostandosi su una base nera semplice ed efficace. La disposizione dei corpi e dei volti, spesso in un tre quarti che dà la curiosa sensazione di essere al contempo artefatto e naturalistico, ricorda quanto avviene in alcuni dipinti di Paul Gauguin. In generale, l’approccio di Sterckeman è al contempo personale, essenziale, solido e piacevole.
Centomila giornate di preghiera è un capolavoro, un’opera emozionante che vive di una rete complessa di rimandi interni e ci porta a meditare su una tragedia inaudita, ma anche, come avviene nei grandi romanzi, a gettare uno sguardo compiuto sull’animo umano.
“La vita in sé racchiude potenti antidoti. Ma a volte mi arrendo.”
Abbiamo parlato di:
Centomila giornate di preghiera
Loo Hui Phang, Michaël Sterckeman
Traduzione di Francesca Scala
Coconino Press Fandango, 2013
232 pagine, brossurato, bianco e nero – 19,50 €
ISBN: 9788876182471