Abbiamo fatto una chiacchierata con i due autori lucani sul loro nuovo fumetto, edito da Lavieri, e sulla figura di Giacomo Manzù, uno dei principali artisti italiani del ‘900. Figura interessante e certamente complessa. È stata anche l’occasione per farci rivelare progetti futuri e uno sguardo sulla situazione in cui versa il fumetto in Basilicata.
Giuseppe Palumbo (Matera, 1964) ha cominciato a pubblicare nel 1986 su riviste quali Frigidaire e Cyborg alle cui pagine affida il suo personaggio più noto: Ramarro, il primo supereroe masochista.
Nel 1992 entra nello staff di Martin Mystére della Sergio Bonelli Editore e nel 2000 in quello di Diabolik della Astorina.
Tra le pubblicazioni più recenti: Tomka, il gitano di Guernica (Rizzoli, 2007, su testi di Massimo Carlotto), Un sogno turco (Rizzoli, 2008), Eternartemisia e Aleametron (Comma 22, 2008), Uno si distrae al bivio. La crudele scalmana di Rocco Scotellaro (Lavieri, 2013).
Giulio Giordano, diplomato all’Istituto d’Arte, docente e fondatore della Redhouse Lab (scuola di fumetto e illustrazione in Basilicata), esordisce disegnando l’albo X-comics per Coniglio editore, nel 2014 viene ingaggiato dalla Sergio Bonelli Editore su Le Storie e successivamente per Rusty Dogs un webcomic composto da storie brevi scritte da Emiliano Longobardi e disegnate da alcuni fra i migliori disegnatori italiani.
Al di fuori del mondo del fumetto, numerose le sue incursioni nel campo dell’illustrazione e le elaborazioni pittoriche per alcune gallerie d’arte.
Partiamo da una domanda banale: da dove nasce l’idea di fare un fumetto che parlasse di Manzù? …e di peperoni cruschi?
Giuseppe Palumbo: Si tratta di una storia talmente raccontata bene, prima da Leonardo Sinisgalli tra tante cene e bicchierate con Giuseppe Appella e poi da quest’ultimo a me, che alla fine non può che essere vera. Si tratta di una storia semplice semplice, una di quelle storielle divertenti da fine pasto; ma in realtà ha implicazioni e suggestioni intense e con radici profonde… È una storia che ci porta a pensare, attraverso un gioco condito dai peperoni seccati al sole lucano, i cosiddetti peperoni cruschi (n.d.a. pron. crushchi, con la sc di “scibile”), al momento decisivo in cui l’arte di uno dei massimi scultori italiani del Novecento, Giacomo Manzù, riesce a portare a termine il suo capolavoro, mettendo insieme la peculiare spiritualità sua, del Papa Giovanni XXIII e del suo consigliere e amico lucano, Don Giuseppe De Luca.
Giulio Giordano: Dietro l’opera finale dell’artista si nasconde un percorso di ricerca, la sua esperienza vissuta, aneddoti reali e storie di personaggi. I cruschi di Manzù vuole offrire al lettore un momento per avvicinarsi al capolavoro dell’artista attraverso questa storia, raccontata attraverso il linguaggio del fumetto.
Manzù è certamente uno dei più grandi scultori che l’Italia del ‘900 abbia mai avuto, comunista e per questo non molto ben voluto dalla Chiesa. Suona quantomeno strano che la sua opera più importante sia presente a San Pietro e voluta fortemente da due uomini di chiesa. Inoltre la cristianità è presente a vario titolo nella sua opera artistica. Che cosa pensate di questa dicotomia che esisteva nell’artista e nelle sue opere?
G.P.: Nessuna dicotomia, semmai una dialettica. Prima di ogni ideologia o fede, è il senso tragico della vita dell’uomo su questa terra a muovere la ricerca artistica e di pensiero dei tre personaggi in campo, che troveranno seppur da punti di vista differenti, nella Porta della Morte, l’opera magistrale di Manzù in questione, una risposta muta, anti retorica, essenziale.
La pietà come nucleo essenziale della fede o del senso di solidarietà umana: questo mette insieme le nature apparentemente opposte dei nostri personaggi, mettendole in un rapporto non risolto, forse, ma sicuramente dialettico.
G.G.: Credo che ideologia e fede siano strettamente collegate tra loro e la loro funzione concomitante nella resa conclusiva dell’opera è una sfida interessante per un artista perché ciò che si sforza di creare con l’arte è proprio tradurre nella materia qualcosa che - a volte - appartiene a entrambi i pensieri.
Emerge chiaramente dal vostro racconto il ruolo fondamentale del lucano don Giuseppe de Luca. Allora la Lucania, nei secoli, non solo è esistita ma ha prodotto personalità di talento?
G.P.: Lo stiamo scoprendo sempre di più. Lucani come Appella, Sinisgalli, De Luca hanno trovato fuori regione la loro vita, ma hanno portato le proprie radici con sé, ben inscritte nel loro animo, il più antico e profondo…
E poi ci siamo Giulio ed io, no?
G.G.: Dopo una lavorazione lunga e sofferta, la Porta della morte fu terminata dallo scultore e dedicata proprio a colui che lo sostenne nel progetto. De Luca è stato un grande maestro, un imprenditore vero nel mondo dell’editoria, un volontario della cultura e, soprattutto, un intellettuale libero e creativo. Abbiamo bisogno di altre figure cosi.
Il vostro è un fumetto spoglio, disadorno, essenziale, nella scrittura come nel disegno. La divisione delle due parti è netta, sopratutto a livello di tratto. Come mai questa scelta narrativa?
G.P.: Per restare nello spirito dettato da Manzù e De Luca e Papa Giovanni. Anche nel segno e nella composizione della pagina (che tra l’altro, per quanto una classica struttura di pagina, per me di kirbiana memoria, l’abbiamo mutuata dalla parte inferiore della Porta stessa che presenta quattro scene in quattro riquadri verticali).
Il libro, va detto, è diviso in due parti, in cui il mio ruolo si ribalta: nella prima parte, ho ri-raccontato, sceneggiandola, la storia che Giuseppe Appella, uno dei massimi critici d’arte contemporanea, mi aveva descritto; nella seconda parte, ho disegnato una serie di appunti che Appella mi aveva mandato via mail per commentare e in parte correggere il mio testo, disegnato da Giulio. In entrambi i ruoli, come scrittore e come disegnatore, ho cercato di attenermi al dettato della dialettica di cui sopra.
G.G.: Nella prima parte del fumetto, disegno la storia dell’incontro tra Il Papa Giovanni XXIII, Manzù e De Luca, la scelta stilistica è dettata da un tratto bianco e nero, questo per dare maggior risalto agli innesti umoristici e di color rosso dei peperoni cruschi.
Qui potete essere cattivi: come vi siete trovati a lavorare con l’altro? Come è avvenuta la divisione dei ruoli al momento della realizzazione del fumetto?
G.P.: Molto bene, anche perché il lavoro di Giulio era tenuto sotto controllo oltre che da me, anche da Gianfranco Il Mastino Giardina, suo sodale della Red House Lab, scuola lucana di fumetto, che ha buttato giù lo storyboard e ha caratterizzato graficamente i nostri peperoni.
G.G.: Il progetto è decollato rapidamente e nella sua fase iniziale non ho avuto il tempo di percepire il pensiero: “Sto lavorando con il Maestrooo!”.
Giuseppe aveva le idee molto chiare sull’intero volumetto, ha diretto l’orchestra (dai disegni all’impaginato) con sicurezza e semplicità, è stata una lavorazione molto divertente e appassionante.
Ora posso dirlo: “Ho lavorato con il Maestrooo!”.
Giuseppe, cosa dobbiamo aspettarci da te, oltre a Diabolik, nel prossimo futuro?
Giulio, hai debuttato da poco su Le storie (Sergio Bonelli Editore ) su una sceneggiatura di Paola Barbato. Hai altri progetti in programma?
G.P.: Di sicuro un DK, reboot di Diabolik, in una nuova arricchita, direi potenziata, edizione da edicola. Sul versante estero, sono sotto contratto per un graphic novel targato Dargaud; ma è ancora presto per parlarne.
G.G.: Tre progetti “sotto controllo”: un nuovo albo per la Bonelli e questa volta sarà uno speciale tutto a colori. Un albo per la Becco Giallo, Gianfranco Giardina , gli allievi della Redhouse e Gianluigi Pucciarelli. E infine, con Giuseppe Palumbo sto lavorando a un nuovo progetto a fumetti per un grosso brand della moda casual.
Un lucano che ne intervista altri due . La domanda è d’obbligo: come vedete la condizione del fumetto nella nostra piccola regione?
G.P.: Una piccola regione non può che esprimere una piccola realtà, ma abbiamo un patrimonio di storie da raccontare ed energie da vendere. Perciò, anche se piccola, questa filiera lucana del fumetto come mi piace chiamarla può fare moltissimo. Già il fatto che siamo qui in tre a parlarne su Lo Spazio Bianco è un ottimo segnale.
G.G.: La mia realtà insieme a quella di altri artisti lucani è di quelle che spiegano come anche in una periferia fuori dal circuito di settore si possa emergere.
Un lavoro e una passione che piano piano vorrei trasferire agli allievi della Red House Lab, magari punto di partenza per talenti futuri.
Intervista realizzata via mail a maggio/giugno 2015