Bruno Cannucciari, classe 1964, è un fumettista della vecchia guardia, che collabora per le storie autoconclusive del celebre Lupo Alberto di Silver fin dal 1988. Recentemente è entrato nel mondo delle graphic novel con Kraken (Tunué, 2017), il mystery che ha disegnato su sceneggiatura di Emiliano Pagani. Sempre per il duo livornese formato da Pagani-Caluri ha gestito le chine del serial umoristico Nirvana e dei suoi spin-off Slobo e Golem e L’Ispettore Buddha (Panini Editore).
Ciao Bruno e benvenuto su Lo Spazio Bianco.
Hai di recente disegnato una storia sceneggiata da Piero Lusso per il nuovo Lupo Magazine: vuoi parlarci di cosa ne pensi di questa nuova rivista e delle tematiche su cui sono incentrate le avventure a te assegnate?
Ne ho disegnata soltanto una, non per pigrizia ma perché la programmazione Panini delle storie mal si combinava, purtroppo, con i miei impegni extra-Lupo. Mi auguro che a questi primi sei numeri faccia seguito una seconda stagione perché il progetto Lupo Magazine mi sembra molto interessante, per l’impostazione e per le tematiche affrontate: sesso, social, ambiente e, come nel mio caso, “la morte”. Argomento che Piero Lusso ed io avevamo già affrontato in Natale senza te e in alcune storie brevi, ma nel caso di questa storia – di cui non rivelerò nulla neanche sotto tortura se non il titolo, Che ora è – viene declinato in maniera più articolata e complessa, vuoi per l’architettura narrativa che Piero ha scelto, vuoi per il numero di tavole a disposizione. Sul Lupo mensile le storie “lunghe” hanno sempre avuto il vincolo delle 12 pagine, quindi se volevi costruire qualcosa di più complesso dovevi ragionare per moduli, organizzare la narrazione “a puntate”. Avere 38 tavole tutte insieme è un lusso meraviglioso! Non solo per la struttura narrativa, ma anche per il disegno: puoi gestire meglio lo spazio scenico, lavorare sulle mezze espressioni, giocare con vignette ricorrenti, con minime ma fondamentali variazioni, lasciando tutto il tempo al lettore di assorbire quelle precedenti. Probabilmente si perde un po’ dello swing, della velocità che è sempre stata una delle caratteristiche delle storie del Lupo, ma si acquista in spessore, profondità. Ho sempre pensato che, non dico 100 pagine, ma un formato alla francese, 46 pagine, Lupo Alberto lo reggerebbe alla grande. È il suo approdo naturale. Con il Magazine, credo, stiamo andando in questa direzione.
Da diversi anni il mensile di Lupo Alberto non propone più storie lunghe inedite: Lupo Magazine è in tal senso una boccata d’aria fresca, ma ritieni che ci siano spiragli per un rilancio anche sulla testata ammiraglia?
In effetti, sul mensile, le storie lunghe inedite latitano da un bel po’. Non che siano sparite del tutto: nello spazio delle tavole autoconclusive, in questi anni, abbiamo proposto delle storie “brevi” (da 4, da 6, perfino da 8) semplicemente perché ci piaceva raccontare qualcosa in maniera più articolata e lo spazio a disposizione era quello delle 13 tavole mensili. Personalmente programmo pochissimo: ho un numero di tavole da realizzare e se mi viene in mente un’idea che vale una storia più lunga, scrivo sei singole tavole autoconclusive invece di, poniamo, quattro. Le formule funzionano, fidelizzano il lettore, ma con un personaggio come il Lupo, che ha diversi registri narrativi, rischiano di diventare una gabbia. In un caso, ultimamente, ho scritto e disegnato una storia lunga 13 tavole: La forma di Cinzia. Era una storia bislacca e poetica a cui tenevo, che ha invaso completamente lo spazio consueto delle autoconclusive. È stato un esperimento, che i lettori, a quanto ricordi, hanno apprezzato. Questo per dire che non sono in grado di vaticinare il futuro della testata ammiraglia, sul quale a mio avviso incide più la situazione generale che non la bontà dei contenuti, ma so che fino a quando avremo a disposizione questo spazio sarà bene usarlo in maniera libera, creativa, situazionista. A realizzarlo siamo un manipolo, non abbiamo strutture imponenti alle spalle, possiamo permetterci un approccio “leggero”.
Qual è, secondo il tuo punto di vista, la situazione del fumetto comico popolare, in Italia? Quanto incide al riguardo la crisi delle edicole?
So pochissimo della questione, quindi: zero certezze, molti dubbi. Frequento le edicole tutti i giorni per i quotidiani e qualche rivista, molto più raramente per i fumetti, che preferisco acquistare in fumetteria o nelle fiere. Credo che il fumetto comico popolare sia quello che, in edicola, patisce di più. Penso sia dovuto in larga misura alla mole impressionante di vignette, battute, strisce, umorismo spicciolo veicolata ogni minuto dai social. Produzione sterminata che vanifica ogni attesa (per dirne una): quando da pischello finivo di leggere Alan Ford fantasticavo per un mese su cosa si sarebbero inventati per farmi ridere nell’albo successivo. Oggi, in quel mese di mezzo, vengo bombardato da una trilionata di cose divertenti (più o meno divertenti, più o meno professionali) che “saziano” la mia fame di umorismo. Per dirne un’altra: i tempi di produzione. Lupo Alberto viene preparato con due mesi d’anticipo, difficile stare sul pezzo in un mondo in cui ciò che è successo venti minuti fa è già nell’oblio. Puoi sganciarti dall’attualità, certo, lavorare per grandi temi, ma si perde un po’ in efficacia. Oltretutto può capitare che una gag fichissima, dal momento in cui ti viene in mente a quello in cui arriva in edicola, sia nel frattempo venuta in mente (con minime variazioni) a un altro miliardo di persone che la pubblicano seduta stante, e la tua arriva ultima e spompata. Resta lo stile, certo, il contesto nel quale veicoli il tuo umorismo, il grado di affezione. Funzionano, in edicola, i prodotti e gli autori che hanno consolidato la propria fama in epoca pre-social; oppure quelli che, partendo dai social, vengono consacrati dall’approdo in edicola. Anche se, in merito a questi ultimi, ho qualche dubbio che, stante la situazione drammatica delle edicole, venga percepita dagli autori esattamente come una “consacrazione”, che cioè conservi lo stesso fascino di dieci o venti anni fa. Un’ultima considerazione, sempre in merito ai social: il fatto che l’indice di gradimento abbia sostituito il venduto modifica la percezione del mercato, del mondo, del tuo vissuto personale. Con il risultato che magari sei costretto ad andare a piedi perché ti mancano i 200 euro per l’assicurazione della macchina, ma sei contento come una pasqua perché una tua tavola ha preso 700 like.
Tra le tante storie che hai disegnato per il “lupastro”, ci vogliamo soffermare su tre di esse, particolarmente intense e memorabili: Natale senza te, Alta marea e La ballata dei McKenzie. Cosa ti ricordi della realizzazione di queste sceneggiature (tutte di Lusso)? Quali le difficoltà nel trasporre in vignette quelle trame?
Le difficoltà sono state pari al piacere di realizzarle. Né più né meno: pari. Perché Lusso è un autore esigente, le sue storie sono esigenti. E se puoi sfanculare Lusso in un accesso d’ira perché ficca sette personaggi che fanno cose diverse in una vignetta 7 x 9 cm, non puoi sfanculare le sue storie, perché quei sette personaggi stanno lì per un motivo preciso. Sono storie che esigono cura dell’atmosfera, dei dettagli, delle espressioni: provate voi a prendere sottogamba una descrizione come “Un drammatico PP di Mosè che fissa il lettore (e Alberto) con una lacrima di umiliazione e la smorfia di un dolore irrisarcibile”. Irrisarcibile, capite?
Natale senza te nasceva da una perdita, e raccontava il senso della perdita. Fortunatamente (si fa per dire) ciascuno di noi ha sperimentato la perdita di una persona cara con la quale fare i conti, che diventa materia grezza con la quale affrontare una storia del genere. A patto, appunto, di volerci fare i conti: cosa faccio per lenire il senso della perdita? Per mantenere viva la memoria? Quanto pesa il non detto, il non risolto, di cosa ci assolviamo, di cosa ci incolpiamo ora e per sempre? Domande grosse, insomma. Da affrontare su un fumetto umoristico, che per una volta ha cambiato pelle senza cambiare natura: Lupo Alberto aveva (ed ha) la credibilità per smettere i panni del giullare e parlare di temi duri, dolorosi. L’abbiamo fatto con pudore, lavorando in sottrazione, senza sbrodolamenti e senza effettacci strappalacrime. In fondo non era mica morto Superman, era morto un lupo.
Di Alta marea ricordo il grande e piacevole lavoro di documentazione e la serissima giocosità della realizzazione. Giocare a fare il cinema. Replicare lo sguardo bimbo di Fellini di fronte ai suoi personaggi strampalati o a una nave immensa che trasporta un’intera città. In questo caso più di altri: restituire la meraviglia (che poi è il senso del mio mestiere). Senza morire di citazionismo – citazioni dai suoi film ce ne sono e molto precise, ma la storia non è un collage, un Bignami illustrato delle opere di Fellini – ma immedesimandosi nella sua poetica. Dodici tavole che amo ancora, più una copertina a pastelli disegnata per metà di notte, con la mano che andava libera per conto suo.
La ballata dei McKenzie è, a giudizio dei lettori (bontà loro), una delle più belle storie di Lupo Alberto mai realizzate. La cosa mi onora profondamente. Una storia la cui sceneggiatura prevedeva, esigeva una messa in scena potente, rigorosa, da grande film in costume. Mi sono documentato fino all’autolesionismo, studiando le illustrazioni dell’epoca di Gustave Dorè, l’Oliver Twist di Polansky, l’architettura, le fabbriche e i giganteschi macchinari. Ho sperimentato un tratto più sporco, fuligginoso, gli sfondi a grafite, le semitavole d’apertura ad acquerello… mamma mia, che meraviglia! Mi piacerebbe molto che fosse riproposta in volume. So che Piero Lusso avrebbe anche una sua versione director’s cut, con aggiunta di scene, rimontaggi, capitoli di raccordo: ecco, se qualcuno fosse interessato a riproporla lo fermi prima che sia troppo tardi! Piero, va bene così com’è!
La tua dimensione ideale, nel realizzare Lupo Alberto, è la scrittura o il disegno?
Non so dirtelo. Al momento è il mio unico spazio “autoriale”, quello cioè dove sono interamente responsabile di quanto produco e pubblico. Mi piace quindi molto dedicarmi alla scrittura, costruire situazioni, storie, curare i dialoghi, dire la mia sulle storture che mi fanno incazzare (e vivaddio sono ancora molte le cose che mi fanno incazzare profondamente: non è scontato, alla mia età). Se per questioni di tempo devo dare da disegnare una mia tavola a Giac non mi pongo alcun problema, anche perché lo fa benissimo e a volte con finezze sue che piacevolmente mi sorprendono. Se scrivo una storia preferisco disegnarla io, perché la penso “già disegnata”: so che in un certo punto deraglierò dallo stile standard, che risolverò una scena con due tratti o che mi lascerò ispirare dall’estro del momento seguendo la regola dell’errore come parte integrante del processo creativo…insomma, son cose difficili da spiegare a un’altra mano. Io stesso a volte me le spiego dopo averle fatte.
Hai fatto parte del team che realizzò le due serie a cartoni animati su Lupo Alberto: cosa ricordi di quell’esperienza?
Ricordo centinaia di disegni. Ho curato il character design dei personaggi e realizzato moltissimi inspiration sketch. Ricordo la difficoltà di rimodellare a uso dell’animazione personaggi che avevo interiorizzato con tutte le spigolosità e incongruenze caratteristiche della versione a fumetti. Per dirne una: nelle tavole spesso le braccia si allungano secondo necessità (per enfatizzare un gesto, usare un particolare oggetto etc), questo in un cartone non dovrebbe accadere. Per dirne un’altra: quando i personaggi appaiono vestiti le loro proporzioni cambiano, a Marta compare un punto vita che nella sua normale versione “a pera” non ha, è più sensuale, il Lupo aumenta un po’ di statura perché una giacca gli cada meglio o per far sì che un normale paio di bermuda non gli arrivi ai calcagni. Sono piccoli aggiustamenti che vanno segnalati. E, soprattutto, devi essere sufficientemente chiaro e preciso da riuscire a spiegare Lupo Alberto a chi non lo ha mai visto e che i tempi di produzione costringeranno a disegnare come non avesse fatto altro nella vita. E poi ricordo le sedute di doppiaggio con Lella Costa nel ruolo di Marta e Francesco Salvi in quello del Lupo: modificare al volo una battuta per ragioni tecniche e sentirsela recitare da attori di questo calibro è puro godimento.
L’anno scorso è uscito per Tunuè Kraken, scritto da Emiliano Pagani e disegnato da te. Qual è la genesi di quest’opera, come è nato l’incontro con Pagani e quanto ti senti legato a questa storia?
Emiliano e Daniele (i Paguri) li ho conosciuti a Rapallo una decina d’anni fa. Ci siamo piaciuti, umanamente e professionalmente, e ci siamo tenuti in contatto. Bontà loro, quando si sono resi conto di non riuscire a portare avanti da soli la seconda stagione di Nirvana, hanno pensato di proporre a me l’inchiostrazione. Da lì è nata una vera e propria collaborazione a tre che si è conclusa, al momento, con lo spin off dell’Ispettore Buddha presentato al Comicon di quest’anno. Nel frattempo, a fine 2015, Emiliano mi manda il soggetto di un graphic novel chiedendomi se avevo voglia di disegnarlo (e anche qui, la storia dice, è perché Daniele non sarebbe riuscito ad incastrarlo con gli altri suoi lavori). Il soggetto è folgorante, me ne innamoro da subito: è proprio il tipo di storia che cercavo per misurarmi con un altro stile, una storia che parte da un genere fantastico per raccontare cose umanissime e atroci. È Kraken. Decidiamo a lungo l’atmosfera generale, che è la vera protagonista della storia, sperimentiamo tecniche che meglio possono timbrare determinati passaggi e iniziamo a portarlo ad alcuni editori, disposti comunque a farlo in autoproduzione in caso di rifiuto. Perché ci premeva farlo. Perché si dovrebbe pubblicare – nel caso dei graphic novel – quando davvero se ne ha l’urgenza, quando senti di avere qualcosa da dire. Il resto lo sapete: Tunuè ha creduto in questo libro, fortunatamente sta avendo un discreto successo, verrà pubblicato in Francia e in Polonia e probabilmente in altri paesi, ha vinto il Premio Miglior Libro di scuola italiana ( ex aequo con Non stancati di andare di Radice e Turconi) all’ultimo Romics e recentemente abbiamo firmato per la trasposizione filmica per Draka Production. Non avremmo nemmeno osato sperare di meglio, davvero. Per me, ma anche per Emiliano, è stato un punto di svolta notevolissimo, qualcosa che apre nuovi scenari e modifica la percezione di se stessi. In questo momento, per dire, non mi spaventa nulla. O meglio, mi spaventa tutto ma sono prontissimo a farmi spaventare, a mettermi in gioco, ad accettare sfide che in altri momenti avrei rifiutato a priori. Al più le perdo, ma posso vincerne altre. Sono quindi legatissimo a Kraken, e continuo a presentarlo in giro con molto piacere. Ma, ovviamente, non voglio restarne imprigionato. Ho già la sceneggiatura per un altro graphic novel, sempre con Emiliano, e negli occhi nuovi personaggi e nuove atmosfere che non vedo l’ora di mettere su carta.
Dal momento che noi e i lettori siamo curiosi come i gatti, chiudiamo chiedendoti quali siano i tuoi progetti “a fumetti” per il prossimo futuro.
Lupo a parte, uno è quello di cui ti ho appena accennato (e di cui non dirò nient’altro non per tirarmela ma perché ora è giusto parlarne il meno possibile visto che prevediamo di farlo uscire a Lucca 2019).
L’altro è un progetto per l’etichetta Audace della Sergio Bonelli, Il Confine, una nuova serie a firma Uzzeo – Masi, di cui so ancora pochissimo ma quel pochissimo mi intriga da morire. E poi so che il primo numero sarà affidato a Palumbo, il secondo a me e il terzo ad Ambrosini. Già solo questo mi spaventa a morte. Ed è bellissimo.
Grazie per il tuo tempo, Bruno.
Intervista realizzata dal vivo a Villacidro durante il Lab3 LaPiccolaVolante il 10/06/2018