Lo scorso 25 ottobre 2019 la piattaforma Netflix ha reso disponibili i primi 8 episodi della sesta e ultima stagione di Bojack Horseman, serie animata ideata e scritta da Raphael Bob-Waksberg e disegnata da Lisa Hanawalt, diventata nel giro di pochi anni un vero e proprio fenomeno mondiale.
Le tragicomiche vicende del cavallo/attore si sono affacciate sulla scena nel 2014, presentandosi come una feroce presa satira sul mondo hollywoodiano, ambientata in un universo popolato sia da umani che da animali perfettamente antropomorfizzati, il tutto condito con dialoghi politicamente scorretti e profondamente cinici. Una formula che funziona bene ma che in prima battuta non appare particolarmente nuova, specie per chi mastica serie d’animazione per adulti come I Griffin, o i più recenti Big Mouth e Archer.
Proseguendo nella visione però lo spettatore è costretto ad arrendersi a un’implacabile evidenza: la satira, la scorrettezza, il cinismo di Bojack Horseman sono solo degli elementi di superficie, una copertina, un biglietto da visita.
Stravolgendo gradualmente il linguaggio narrativo della dark-comedy, quella di Bojack e soci è diventata ben presto una storia drammatica, emotivamente devastante, un viaggio verso i più profondi abissi dell’umana miseria, uno scavo che trova nuovi filoni ogni volta che si pensava di aver toccato il fondo.
Nessuna serie animata dichiaratamente comedy aveva mai osato tanto prima.
Nessuno poteva aspettarsi tematiche così difficili affrontate da buffi animali antropomorfizzati.
A quanto lo stesso creatore ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Kurt Andersen per la rivista Slate, il segreto di Bojack sta proprio nel suo essere un cavallo:
“Se sono gli umani a fare certe cose in live-action, quelle persone finiscono per non piacerti. Ma quando si tratta di un grazioso gatto rosa, tutto sembra un po’ più leggero – non sembra essere così duro o così francamente malvagio”
Nella stessa intervista, Bob-Waksberg cita tra le sue fonti d’ispirazione I Simpson di Matt Groening, che hanno contribuito a dare alla serie uno dei suoi ingredienti fondamentali:
“Per me la principale influenza dei Simpson su Bojack e sulla mia visione della commedia in generale, sta nel fatto che erano capaci a volte di raccontare storie tristi in modo da non sacrificare la parte comedy e allo stesso tempo raccontare storie divertenti in modo da non sacrificare la profondità dei personaggi e le loro emozioni”
Un gioco di specchi deformanti in cui, se da un lato continuiamo a ridere mentre vediamo i personaggi fare o subire situazioni orribili, dall’altro non ci liberiamo di quella profonda amarezza che ci accompagna durante la visione neanche quando una battuta o una gag ci fa scompisciare.
Questo però accadeva già nei Simpson, appunto.
Bojack fa tesoro di tale lezione, e la sfrutta come una rampa per spiccare il volo verso territori mai esplorati prima.
Per comprendere appieno la portata di queste piccole rivoluzioni che di certo apriranno nuove strade nella scrittura della dark comedy animata (e forse anche della dark comedy tout court), andrebbe analizzata l’intera serie.
In questa sede ci limiteremo a soffermarci su cinque episodi che ci sono sembrati particolarmente esemplificativi, in cui quel balzo in avanti avviene in maniera decisamente plateale.
Piccolo preambolo:
- questa non è una classifica, non necessariamente consideriamo quelli da noi proposti i cinque migliori episodi della serie: sono solo uno strumento, una guida per raccontarne la profonda innovazione;
- ovviamente parlando di episodi sparsi nelle 6 stagioni, il presente articolo conterrà qualche spoiler; se non avete mai visto Bojack Horseman vi diamo due consigli: non proseguite nella lettura e andate subito a vedere il primo episodio; quando finite, magari poi tornate qui.
1 – Episodio 2×11: Escape from L.A.
Il titolo rivela uno dei temi cruciali, non solo dell’episodio ma di tutta la serie: la fuga.
Sommerso dai sensi di colpa per la morte del suo ex migliore amico Herb – biecamente abbandonato quando la rete decide di cacciarlo dallo show per via della sua omosessualità – Bojack molla tutto e se ne va in New Mexico alla ricerca di una vecchia amica di Herb, Charlotte, una bella cerbiatta con la voce suadente di Olivia Wilde. Tra i due c’era sempre stata una certa elettricità e Bojack spera rivedendola di mettere un po’ di ordine nel casino che ha dentro. Charlotte però nel frattempo si è fatta una sua vita, ha un marito e due figli. Ma Bojack, istintivo, egocentrico e inopportuno come al solito, non se ne cura ed entra nella vita di questa famiglia. Compra una barca per trasferirsi di fronte casa loro, e si offre persino di accompagnare Penny, la figlia diciassettenne di Charlotte, al ballo della scuola.
È nel finale che questo episodio presenta un twist, un evento drammatico che avrà grosse ripercussioni nel resto della storia, ma anche uno sviluppo inedito e perturbante per lo spettatore, un qualcosa che non ci aspetteremmo da una serie comedy.
Dopo il ballo, Bojack riaccompagna Penny a casa. La ragazza, che somiglia tanto alla madre, dice di essere stata benissimo, e prova a baciarlo. Lui si ritrae, stranito. Lei gli dice di voler fare sesso. Lui rifiuta seccamente, non esiste.
E fin qui tutto ok, tiriamo un primo sospiro di sollievo.
Subito dopo, Bojack si ferma a chiacchierare con Charlotte, tra i due si ristabilisce l’intimità di un tempo, si baciano appena, lei però si ritrae, Bojack le chiede di mollare la sua famiglia e ricominciare insieme a lui, ma lei rifiuta, ormai ha la sua vita. Gli chiede anzi di andarsene. Un po’ di amarezza forse, ma siamo ancora tranquilli, ci sta, come biasimarla?
Bojack torna sulla sua barca, trova ad aspettarlo ancora una volta Penny, che torna all’attacco. Bojack è triste, le dice di tornare a dormire. Non scherziamo, in quello stato d’animo poi.
Poco dopo Charlotte, attratta da un palloncino luminoso, sale sulla barca di Bojack, sente dei rumori, apre la porta della sua stanza e… sì. Bojack è a letto con Penny. Non stanno facendo ancora nulla ma è evidente che la direzione presa sia quella.
E qui lo spettatore si sente tradito, turbato, sconvolto. Fino a quel momento era al sicuro, era dentro i binari del lecito, ci aveva pensato sì, ma è ovvio che certe cose non si fanno, la ragazza è pure minorenne, c’è un cazzo di tabù anche in una serie così scorretta. E invece Bojack cede, per debolezza, per egocentrismo, per vendetta, non lo sappiamo e non lo vogliamo sapere.
Presto torneremo dalla sua parte, nei prossimi episodi, ma adesso per i pochi minuti che precedono i titoli di coda, siamo seriamente incazzati con lui, ha esagerato, vorremmo prenderlo a sberle. Per la prima volta abbiamo visto Bojack fuggire dai suoi sensi di colpa, tentare di riprendere in mano la sua vita e fallire. Peggio che fallire, aggiungere nuovi sensi di colpa al fardello precedente.
E a differenza delle altre comedy in cui qualsiasi bruttura si risolve nel giro di uno, massimo due episodi, intuiamo già che questa cosa è troppo grossa, che dovrà necessariamente portarsela dietro per un bel po’. E così sarà.
In chiusura vediamo Bojack tornare a Hollywood nascosto dietro degli impenetrabili occhiali da sole. Sta tornando sì, ma la fuga non è finita.
È appena iniziata.
2 – Episodio 3×04: Fish out of water
Chi ha seguito la serie ricorderà di sicuro l’esilarante particolarità di questo episodio: la quasi totale assenza di dialoghi.
Il pretesto è un festival del cinema sottomarino, dove è in proiezione “Secretariat”, l’ultima fatica attoriale di Bojack.
Essendo sott’acqua, tutti coloro che non sono pesci devono necessariamente indossare un casco che permetta loro di respirare. La cosa costringe il nostro però anche al silenzio. Il che non sarebbe un problema se non fosse che al festival è presente anche Kelsey Jannings, la regista che avrebbe dovuto dirigere “Secretariat”, prima di essere scacciata dal set senza che Bojack abbia alzato un dito per difenderla.
Da un lato vorrebbe evitarla, dall’altro provare a chiederle finalmente scusa. Mentre cerca di capire come fare una cosa o l’altra, s’imbatte in un cucciolo di cavalluccio marino, dimenticato su un autobus dal padre dopo il travagliato “parto” di una cucciolata. In una sorta di bizzarro imprinting tra horse e seahorse, Bojack vive una piccola avventura fatta di gag della migliore tradizione slapstick per restituire il cucciolo al suo legittimo papà.
L’insensibile, il cinico Bojack, si affeziona ben presto al tenero cavalluccio, e quando finalmente riesce a riportarlo a casa, prova una profonda tristezza nel registrare l’indifferenza del padre, che avendone già 5 identici, lo guarda come a dire: “Vabbè, uno più uno meno…”
Così come triste è il momento in cui lui si volta per dare un ultimo saluto al piccolo ma già non lo distingue più in mezzo ai fratellini. Amareggiato per questo sentimento di paternità subito castrato, Bojack scrive un biglietto di scuse a Kelsey. Riesce rocambolescamente a consegnarglielo. Lei lo legge, ma ormai l’inchiostro è tutto sciolto dall’acqua, per Bojack ancora una volta risulta impossibile “risolvere” l’ennesimo senso di colpa.
L’episodio rivela dunque la sua natura profondamente innovativa: l’assenza di dialoghi non è solo una trovata comica, a servizio di gag dal sapore keatoniano, ma veicola un messaggio poco consolatorio: è impossibile comunicare i propri sentimenti, sia nel manifestare quelli positivi (l’affezione a un cucciolo) sia nel fare ammenda di quelli negativi (le scuse a Kelsey). Un’impossibilità che sembra parte indissolubile del mondo, contro la quale siamo impotenti, predestinati a non poter fare niente.
E questo sembra quasi dare adito a un sospiro di sollievo, se un impedimento è ambientale la colpa non può essere nostra giusto? Anzi, ce l’abbiamo messa tutta no?
No.
L’ultimissima scena non è solo un divertente gioco di ribaltamento.
Gli ultimi secondi della puntata – quelli in cui scopriamo che in realtà col casco si può parlare tranquillamente – ci dicono che non possiamo liberarci di questo fardello così facilmente. Queste scuse non funzionano.
Se non riusciamo a trovare il modo di sciogliere i nostri nodi superando tutti gli ostacoli che il mondo ci metterà davanti, la colpa sarà sempre e solo nostra.
Non ci siamo impegnati abbastanza.
3. Episodio 3×11: That’s too much, man!
Ancora una morte da aggiungere al macigno di sensi di colpa di Bojack, macigno che vediamo farsi sempre più pesante, man mano che la serie procede.
L’episodio racconta una giornata di “sballo totale” trascorsa dal nostro cavallo insieme a Sarah Lynn, giovane pop star la cui carriera è iniziata proprio al fianco di Bojack nella sitcom Horsin’ Around. La ragazza si è appena ripulita dalle sue dipendenze, ma le basta una telefonata di Bojack per ripiombare violentemente nel gorgo delle sostanze. Accecato dal suo ego, dalla sua fuga e dal bisogno di qualcuno che lo “accompagni” nella perdizione, Bojack non si accorge minimamente di star distruggendo una vita che faticosamente stava ricominciando a tornare sui binari giusti.
La narrazione procede attraverso salti temporali, strappi fulminei di nero che presuppongono un’amnesia di Bojack dovuta al mix di alcol e droghe.
Nel loro delirio alcolico i due hanno anche delle buone intenzioni: Bojack decide più volte di fare ammenda, di parlare con tutte le persone che ha ferito, sistemare i suoi casini. Ma né Sarah Lynn né l’alcol si rivelano dei buoni consiglieri e amnesia dopo amnesia, strappo dopo strappo lo vediamo peggiorare le cose.
Proprio com’era accaduto in New Mexico, non solo non riesce a mettere ordine nella sua vita, ma aggiunge al suo tormento interiore un nuovo, insostenibile peso.
Al termine dell’episodio accontenta Sarah Lynn che desidera andare a vedere le stelle al planetario. Di fronte alla finta vastità di quell’universo ricostruito, i due sembrano trovare un attimo di pace.
Qui una comedy che si rispetti alleggerirebbe lo spettatore chiudendo con un afflato positivo, un momento di calma in tutto quel frastuono di colpa e rimozione. Ma Bob-Waksberg spinge ancora una volta l’acceleratore, e torna a rompere gli schemi.
L’episodio si chiude con le ombre di Bojack e Sarah Lynn sotto la volta celeste del planetario. Tutto sembra pacifico, finché sentiamo lui chiamare “Sarah Lynn? Sarah Lynn?”
Lei non risponde.
Partono i titoli di coda.
Ci vuole qualche secondo perché noi spettatori capiamo e accettiamo la verità, confermata nell’episodio successivo.
Sarah Lynn è morta.
4 – Episodio 4×09: Ruthie
Come nell’episodio 3×04 anche qui c’è una divertente trovata narrativa, svelata fin dalle prime scene. Siamo in una scuola del futuro, gli insegnanti sono dei robot, e una gattina rosa di nome Ruthie viene invitata a parlare alla classe dei suoi antenati.
Inizia così a raccontare una giornata della sua bis nonna, che altri non è che Princess Carolyn, l’agente, amica ed ex amante di Bojack.
Negli episodi precedenti l’abbiamo vista desiderare in tutti i modi un figlio, e finalmente grazie al suo compagno Ralph Stilton – un topo – è riuscita a intraprendere una gravidanza.
Nel corso dell’episodio la futuristica Ruthie, tra una serie di gag e trovate, ci parla dell’orribile momento in cui la gatta scopre di aver avuto un aborto spontaneo. La vediamo perdere tutte le sue speranze, tutte le sue forze. Al termine dell’episodio, distrutta dal dolore, decide di lasciare Ralph e licenziare il suo fedele assistente Judah.
Anche i momenti peggiori dell’episodio vengono “incorniciati” dal racconto di Ruthie, che volta per volta pare smorzare la gravità dei fatti.
Del resto, viene da pensare a noi spettatori, se c’è una pronipote, in qualche modo Princess Carolyn riuscirà ad avere un figlio, forse non tutto è ancora perso.
Ma ancora una volta, quello che sembrava un semplice espediente narrativo per dare movimento alla storia si rivela essere qualcosa di più. Un inganno, stavolta. Un auto-inganno.
Al termine dell’episodio scopriamo infatti che non esiste, né esisterà mai nessuna gattina di nome Ruthie.
L’artificio narrativo non è extradiegetico, ma vive all’interno della serie, all’interno del personaggio. È la stessa Princess Carolyn a inventarsi Ruthie, una nipote del futuro che racconta a qualcun altro le sue giornate peggiori. Così per quanto male possa andare, lei può sempre pensare che prima o poi le cose si risolveranno per il meglio, e che un figlio in qualche modo arriverà.
Peccato che Ruthie non esista.
Una rivelazione che restituisce allo spettatore un senso di spiazzamento inedito.
L’artificio narrativo è servito all’autore soltanto per toglierci un ulteriore appoggio emotivo.
Siamo come i personaggi della serie ormai, in balia della sconfitta.
5 – Episodio 5×06: Free churro
Se finora si poteva parlare di innovazione, qui siamo di fronte a una vera rivoluzione narrativa.
“Nessuno ti dice che quando muore tua madre ti danno un churro gratis”
Basterebbe questa frase a eleggere il sesto episodio della quinta stagione una delle migliori sceneggiature per serie animata mai realizzate.
Ma al di là del contenuto, pur eccelso, la rivoluzione qui sta nella forma: mai nessuno prima aveva potuto anche solo pensare che il personaggio di una serie animata potesse reggere un monologo. Un intero episodio incentrato su di lui che parla, alla veglia funebre di sua madre. Tra dramma teatrale e stand up comedy. Nessuno si stupirebbe nel vederlo fare da un attore in carne e ossa. Ma da un cartone, per giunta un cavallo, no, non si era mai visto prima.
L’idea della comedy d’animazione come corale, buffa, colorata viene qui sovvertita completamente.
Per trovare un’altra rivoluzione di uguale portata bisogna risalire agli anni ’90, ai tempi di Seinfeld, e del famoso episodio The Chinese Restaurant, in cui l’autore Larry David riesce a confezionare una puntata in cui non succede assolutamente nulla, se non che nascono piccoli conflitti che non si risolvono mai.
Una cosa a cui nessun autore di sitcom avrebbe mai pensato prima.
Torniamo a Bojack. Più volte abbiamo visto, attraverso dei flashback, come molti dei suoi disagi traggano origine da un’infanzia difficile e dal suo rapporto tormentato con i genitori. Nel monologo Bojack prova a raccontare il suo rapporto con la madre, ma senza riuscirci granché: a volte si perde in battute, altre si abbandona a insulti pesanti verso la defunta, altre ancora semplicemente divaga. La sua sofferenza sta tra tutta le righe, la si evince in alcuni sprazzi della sua tirata, in alcune consapevolezze che arrivano persino durante il racconto (penso all’aneddoto dell’I see you/ICU).
Un momento così drammatico, così importante, merita un riflettore più forte sul protagonista, e così Bob-Waksberg realizza l’ennesima rottura con i canoni della dark comedy, una rottura non più sottile stavolta, ma enorme, immensa, plateale, una voragine per le serie che verranno.
Eppure attenzione: i monologhi di Free churro sono due. Prima che l’episodio vero e proprio inizi c’è infatti un flashback, in cui vediamo un piccolo Bojack in macchina con suo padre. Mentre è al volante l’uomo parla ininterrottamente accusando suo figlio e sua moglie di essere per lui un impedimento nella sua carriera di scrittore.
Il giovane Bojack non reagisce e resta con la testa bassa.
Non va sottovalutata la forza di questo primo monologo. È una sorta di specchio di quello che Bojack sta per fare a sua volta. Ci racconta indirettamente il perverso desiderio del nostro eroe di avere un riflettore puntato addosso. Ci mostra un Bojack che subisce esattamente ciò che lo stesso Bojack infligge a chiunque gli stia intorno, un’oscurità, un non ascolto, un ego che divora tutto ciò che trova sul proprio cammino. Ma, a differenza di suo padre, lui non è morto. E le conseguenze di quell’ego ipertrofico deve ancora pagarle.
Verrebbe da dire che almeno in questo caso, Bojack non ha nulla di cui sentirsi in colpa, la madre non è certo morta per colpa sua. Ma non è del tutto esatto. Con i suoi genitori Bojack perde anche i propri capri espiatori. Né suo padre né sua madre hanno mai fatto ammenda delle proprie colpe con lui. E questo, psicanaliticamente, significa che a Bojack toccheranno in eredità tutti gli errori della sua famiglia.
Un altro carico che si aggiunge.
Tragedia greca
Negli episodi appena analizzati appare evidente la progressiva trasformazione di Bojack da antieroe satirico a eroe tragico. Tragicomico certo, perché continua a farci ridere, fantozziano, per certi versi, eppure a differenza del nostro amato (e amaro) ragioniere, la cifra di Bojack è più squisitamente tragica, nel senso greco del termine.
Gli errori dei padri che si riversano sui figli, il tormento per le colpe non ancora espiate che tornano immancabilmente a presentare il conto. Mancano solo le Erinni e gli elementi della tragedia greca ci sono tutti. E se un personaggio come l’Oreste di Eschilo trova il modo di placare i tormenti delle Furie, se l’Edipo di Sofocle arriva ad accecarsi pur di pagare gli orrori commessi, Bojack non ha altra via di fuga che l’autodistruzione. Una via di fuga che palesemente non funziona.
E non c’è nemmeno un deus ex machina in vista.
La chiusura del cerchio
Con l’inizio della sesta stagione abbiamo visto il cerchio cominciare a chiudersi. Tutti i personaggi si stanno ritrovando faccia a faccia coi propri mostri e Bojack, l’abbiamo visto, di mostri ne ha più di qualcuno.
Nel finale – in uscita a gennaio 2020 – vedremo se e come riuscirà in qualche modo a venire a patti con tutto quello che ha accumulato dentro.
Anche qui viene in mente un ulteriore richiamo alla serie cult Seinfeld, che Bob-Waksberg ha citato tra le sue fonti d’ispirazione. Nel doppio episodio finale i protagonisti si ritrovano citati in giudizio e processati da tutte le persone che sono state umiliate o ferite da loro nel corso delle le stagioni precedenti (non vi diciamo come va a finire, raccomandando caldamente a chi non l’abbia mai fatto di recuperare la sitcom).
Ad ogni modo Seinfeld resta sempre nel mood della commedia.
In Bojack Horseman, invece, la comicità è solo un filtro perché la tragedia vada giù più facilmente. E di solito le tragedie non finiscono bene.
Ne riparliamo a gennaio 2020.