L’avventurosa storia del fumetto italiano

L’avventurosa storia del fumetto italiano

Renato Genovese firma una singolare storia del fumetto italiano che è anche l’autobiografia di una passione. Dagli anni cinquanta ai giorni nostri: un viaggio sul filo della memoria condivisa, tra testimonianze d'autore e nostalgie di lettore.

Ai lettori “specializzati” preferisco di gran lunga i lettori e basta. Come quelli di Diabolik, di Tex e di Alan Ford, che non ci spiegano come dobbiamo fare i fumetti: li premiano e li bocciano… ma li leggono! E li leggono – horribile dictu! – non per “arricchirsi culturalmente” ma per passare mezz’ora in treno, per dimenticarsi di un esame, di una degenza in ospedale, di una coda davanti a uno sportello. (Michele Medda, intervistato da Moreno Burattini)

Non credo di fare un torto a Renato Genovese, nel dire che l’aspetto più appassionante di questa sua Avvventurosa storia del fumetto italiano sta nel patchwork di memorie personali e altrui (come quella citata in apertura) collezionate in tanti anni di appassionata frequentazione del settore.
Un racconto collettivo a più voci, grazie al quale – fedele al titolo – il critico, nonché animatore di Lucca Comics & Games, restituisce il piglio davvero avventuroso dell’affermazione del medium in Italia. Peraltro, quel titolo potrebbe trarre in inganno il lettore che cercasse nel poderoso volume di Genovese una storia del fumetto italiano intesa in senso manualistico. La stessa, preziosa, messe di testimonianze di addetti ai lavori galleggia, per la maggior parte, in una terra di nessuno, senza indici analitici e indicazioni storiografiche definite. Se volete, il rimprovero vale per gli editors di Castelvecchi, più che per l’autore, attento fin dall’introduzione, a definire la sua ricostruzione come “ingiusta”, “faziosa” e “parziale”.

In realtà, questa dichiarata parzialità di lettura è uno dei pregi dell’operazione. Genovese non pretende di fare la Storia del fumetto italiano: racconta la sua storia di aficionado, critico ed organizzatore d’eventi e la incrocia con le molte storie di autori, editori e cultori, incontrati sul suo cammino. La sua rievocazione è, in qualche misura, anche una rivendicazione di dignità per tanti straordinari artigiani della vignetta, troppo spesso dimenticati dalla Cultura alta. E’ la fotografia di una cultura altra: un piccolo mondo capace di fabbricare grandi sogni, di nutrire l’immaginario giovanile d’intere generazioni dal dopoguerra in poi.
Da qui, deriva anche la consapevole parsimonia nel punteggiare cronologicamente il discorso con riferimenti (troppo) stringenti. Per Genovese, nello scandire le tappe del fumetto in Italia, più che le date e gli annuari, hanno contato e contano le stagioni. E nei cambi di stagione s’incrociano sempre riferimenti culturali, riflessi sociali e (perfino) accidenti personali.


Renato Genovese


Genovese tutto questo lo descrive in maniera onesta, forse con qualche ingenuità in certi passaggi, ma comunque autentica, mettendosi in gioco in prima persona sul filo dell’autobiografia. Nei suoi ricordi si mescolano Topolino e Totò, le strade di Avellino e i sentieri western, l’amicizia e il collezionismo di giornaletti, il rock e Andrea Pazienza, la passione per le ragazze e quella per Kinowa, Tex Willer e Corto Maltese
Si arriva fino al Genovese adulto che ricostruisce il suo amore più grande da addetto ai lavori: il festival del fumetto di Lucca. Dall’inaugurazione pionieristica del ’66, in seguito al trasferimento da Bordighera, passando per le memorabili edizioni degli anni Settanta, l’excursus giunge fino ai giorni nostri, alla ricercata apertura multimediale delle ultime stagioni. Un percorso non semplicemente agiografico ma di riflessione schietta. La stessa schiettezza con la quale, in un passaggio sagace, l’autore dipinge la categoria cui egli stesso appartiene:

(… )il mondo del fumetto è un mondo di critici estratti a scelta tra: seri professionisti che, però, fanno altre professioni per vivere, fan sfegatati votati alla morte, studiosi competenti, forse troppo, pseudo-giornalisti dagli interessi monotematici e spesso – caso pressoché unico – autori di fumetto essi stessi. La maggior parte ormai fa questo mestiere grazie a internet, dove blog e portali hanno sostituto le vecchie riviste, tranne fortunatamente Fumo di China, Ink e Scuola di fumetto. Alcuni parlano con autorevolezza, altri solo con un’autorità basata su un’eccessiva e arbitraria considerazione di sé stessi (e magari io sono tra quelli?) e a volte la passione prevarica la lucidità, come spesso avveniva per le fanzine cartacee e avviene oggi per alcune autoproduzioni. (p.281)

Eppure, tutte queste distinzioni non avrebbero senso, se al fondo non fossero alimentate dall’amore profondo per il medium, testimoniato nel corso di tutta l’opera.
Il suo è un racconto di taglio gianniminàistico, se mi passate il neologismo, commosso e a tratti commovente. Anche se – per ragioni generazionali – non ci riconosce negli eventi, qualsiasi aficionado di fumetti finisce nel riconoscersi nella passione intima che anima Genovese.
E’ la passione di tutti noi che amiamo perderci nello spazio bianco fra le vignette, fra quelle storie e quei personaggi che come scrive l’autore, anche quando finiscono le pubblicazioni, sappiamo:

che non sono morti in realtà, perché in questo fantastico mondo, nell’universo dei fumetti, nessuno invecchia e non si muore mai. Magari adesso sono tutti nei Grandi Pascoli del Cielo, come i cowboy di Pecos Bill, a vivere una vita fatta soltanto di avventura e fantasia. Così anche quelli che non ci sono più, quelli che erano stelle per davvero, sono riusciti sicuramente a esaudire più di un desiderio, perché hanno saputo toccarci il cuore. Per sempre. (p.220)

Abbiamo parlato di:
L’avventurosa storia del fumetto italiano
di Renato Genovese
Castelvecchi, 2009 – 400 pagine, brossura – 25,00€
ISBN: 9788876153464

2 Commenti

1 Commento

  1. Lavi-Schroeder

    8 Settembre 2010 a 13:20

    È un libro che è nella mia lista di attesa praticamente da quando è uscito. È un bel mattone, quindi escludo di poterlo leggere in treno o comunque di portarmelo dietro, però il solo sfogliarlo mi mette sempre una grande curiosità.

  2. Marco D'Angelo

    8 Settembre 2010 a 13:39

    Si in effetti il formato è una delle cose meno convincenti o, diciamo, più ostiche.  Sarei curioso di sapere da Castelvecchi come si è arrivati a questa scelta.

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