Il cinquantottenne autore d’origine italiana è sembrato trovarsi a suo agio in mezzo a tanta gente, e anche con noi si è dimostrato di una disponibilità e simpatia assolutamente fuori del comune: una persona seria e serena, discretamente gioviale, che ha una visione precisa del proprio lavoro e del mondo del fumetto. Quella che segue è la breve intervista che siamo riusciti ad incastrare tra l’ennesima sessione di dediche e la sua partenza per l’aeroporto.
Per cominciare puoi presentarti ai lettori dello spazio bianco e parlarci un po’ di te?
Il nome d’arte è Baru ma il mio vero nome è Hervé Baruléa. Mio padre è italiano emigrato in Francia, mentre mia madre è francese, bretone precisamente.
Ho cominciato molto tardi ad occuparmi di fumetti, diciamo attorno ai 30 anni e non mi sono messo a fare questo lavoro semplicemente per fare fumetti. Mi spiego: quand’ero molto piccolo li leggevo come tutti i miei coetanei, ma poi come tutti gli adolescenti ho smesso di leggerli definitivamente passando ad altro. In seguito, da adulto, sono ritornato alla bande dessiné, quasi per caso, soprattutto perché avevo il progetto di prendere la parola pubblicamente e avevo la necessità di servirmi di un mezzo che mi permettesse di esprimere ciò che avevo urgenza di dire.
Fare fumetti per me non è avere in mano una penna e disegnare. Per me è come prendere la parola, come si fa nei giardini pubblici mettendosi in piedi su una sedia e parlando alla gente. Faccio fumetti semplicemente per parlare di me, di quello che maggiormente mi colpisce, e soprattutto delle persone della mia estrazione sociale; io sono figlio di operai e il mondo degli operai non aveva la possibilità di prendere la parola nel vasto campo dell’espressione culturale.
Per questo ho deciso di espormi e ho scelto di farlo attraverso la bd: questo è il progetto che ho perseguito da più di vent’anni, fin dai miei esordi che risalgono all’inizio degli anni 80, con il primo libro intitolato Quéquette Blues ( Dargaud 1984, mai pubblicato in volume in Italia, ndi), che è la storia di un gruppo di adolescenti durante i tre giorni di festa per l’arrivo del 1966. È una specie di “I vitelloni” in una città industriale. Del resto sono stato nutrito con il cinema italiano: il cinema di Fellini, di Risi, così come Mean Street di Scorsese è un altro pezzo della mia formazione.
Insomma, il mio progetto è quello di parlare di me, ma soprattutto dei miei genitori, della mia cultura e mettermi in gioco: è quello che ho fatto in questi vent’anni ed è ciò che si trova in tutti i miei libri.
Hai già praticamente risposto ad una serie di domande che eravamo intenzionato a farti…
Già, questo perché in realtà sono molto chiacchierone (risate, ndi).
Per spiegarmi meglio, per me è molto difficile slegare il lavoro del fumettista da tutto il resto. Vi sono delle ragioni strutturali, sociali, personali e di comunicazione che fanno sì che ogni cosa sia strettamente collegata e difficilmente posso scinderle tra loro. Così quando parlo di un aspetto del mio lavoro conseguentemente ne vado a cercare un altro.
Ci hai parlato del perché sei diventato fumettista, ma qual è la tua formazione culturale?
Ho avuto la possibilità di poter studiare quando per i figli degli operai non era facile frequentare le scuole superiori, per cui mi sono sempre sentito un po’ in vantaggio rispetto alla mia classe sociale d’origine. Al liceo di conseguenza ho aderito, automaticamente, alla cultura dominante del paese, quella borghese, che in realtà rigettava la mia. Quando mi sono reso conto di questa situazione avevo all’incirca diciotto anni: mi ha preso una rabbia terribile e ho rifiutato tutto, soprattutto la letteratura, le arti, tutta la cultura borghese perché volevo, per me, più di quello che mi veniva imposto. Quindi non ho più letto i libri di letteratura classica, borghese, e li ho mandati affanculo (letteralmente e in italiano, ndi).
Quando più avanti, invece, mi sono avvicinato alla bd mi sono riconciliato con ciò che prima avevo rinnegato, e infatti, sia chiaro, adesso leggo anche ciò che prima avevo volontariamente allontanato, anche perché la letteratura è fondamentale per la nostra umanità: è come l’aria che si respira. Penso la stessa cosa del cinema.
Vuoi parlarci del tuo nuovo libro, L’arrabbiato?
L’arrabbiato è una storia di tradimento: Antoine tradisce suo padre, il suo miglior amico, per fuggire dalla sua condizione. Inoltre, è la storia di un ragazzo che non ha nulla, che è molto povero, i cui genitori sono le vittime del liberismo economico. Se si fa un parallelo con quello che succede in Italia essi sarebbero, come tutti i disoccupati, le vittime di Berlusconi, della sua politica.
Lui non ha niente e questo lo rende furioso; vuole scappare da questa situazione, solo che non è in condizioni per farlo come invece fece suo padre, il quale aveva capito che per combattere bisogna unirsi agli altri. Antoine invece è un individualista, un prodotto della nostra epoca ed è arrabbiato con la scuola, la società. Non ha nulla nella testa: ha solo la forza nelle sue mani (infatti il protagonista intraprende la carriera di pugile, ndi) e accetta il prezzo della sua sofferenza per riscattarsi dalla propria condizione.
È più meno la stessa tematica trattata in Verso l’America e L’autoroute du soleil?
Sì, perché questo è il motivo per cui faccio fumetti, ed è normale che in tutte le mie opere venga descritto questo malessere sociale. È la ragione d’essere del mio lavoro.
Che metodo di lavoro usi? Hai prima la necessità di scrivere una sceneggiatura ed avere quindi tutto delineato?
Non ho un metodo preciso di lavoro e quando finisco un’opera non faccio più nulla, perché non sono un disegnatore; non trovo piacere nel disegnare continuamente. Aspetto che ci sia qualcosa che mi dia un motivo per tornare a lavorare e solo allora trovo il bisogno di rimettermi a scrivere. La prima cosa che faccio è stendere tutta la sceneggiatura, i dialoghi, le situazioni da inserire. Poi passo a disegnare uno storyboard in miniatura e con esso tengo d’occhio il ritmo della storia. Alla fine mi metto a disegnare le tavole definitive.
Il tuo modo di usare i flashback senza usare didascalie proviene dalla tua passione per il cinema?
Per me l’uso flashback è una potenzialità della bd. Nella bd c’é sempre stata l’abitudine di usare molte didascalie, ma io me ne frego, perché soltanto l’immagine deve indicare al lettore che la vicenda si sta volgendo in un tempo diverso. Non è facile e per far ciò occorre molta attenzione.
So che generalmente ti fai aiutare da un colorista, Daniel Ledran. È così anche in questo libro?
Io ho un colorista al quale da sempre ho affidato il mio lavoro perché all’inizio della mia carriera non avevo nessuna nozione per quanto riguarda la composizione e l’uso dei colori. Per esempio, non sapevo neanche che per ottenere il verde dovevo mischiare il rosso e il blu! Il colorista è un amico che conosco da trent’anni, ma per questo libro ho fatto praticamente tutto io.
È la prima volta che vieni a Napoli e in Italia?
È la prima volta che vengo al Comicon, ma è la seconda volta che vengo in Italia, e tutte due le volte ha piovuto.
Visto l’affluenza che c’é stata allo stand della Coconino che sensazione hai avuto dai lettori italiani?
Con la Coconino sono già stato a Bologna e a Lucca. Ho l’impressione che il pubblico italiano sia molto influenzato dal fumetto americano e oggi soprattutto dal fumetto giapponese. C’é qualcuno che invece spinge per far provare a leggere fumetti differenti, come la Coconino, il mio editore, che sta lavorando su questo e lo fa molto bene. Sono stupito, soddisfatto e contento di vedere che ci siano italiani che guardino a questo modo differente di far fumetti, lontano da quello aggressivo e imperialista.
Spero che ciò si possa sviluppare ulteriormente, ma penso che per il momento gli sforzi fatti non siano sufficienti.
Cosa hai letto ultimamente che ti è piaciuto? C’é qualche autore italiano che ti piace particolarmente?
Leggo fumetti, ma sono molto duro e critico su ciò che leggo, perché questo è il mio lavoro. Quindi se dopo poche pagine quello che sto leggendo non mi piace lo metto via e passo ad altro. Ultimamente sono rimasto colpito da Appunti per una storia di guerra di Gipi, che è un capolavoro e la prima volta che l’ho letto mi è venuta la pelle d’oca: i tre personaggi del libro sono semplicemente meravigliosi.
Ci sono altri autori italiani che per me sono dei maestri: Hugo Pratt, Altan di cui mi ritengo un fan, ma anche Micheluzzi mi piace molto e pure Crepax. Purtroppo sono tutti autori anziani o del passato, ma di giovani non ne conosco (a parte Mattotti che pero’ vive in Francia), anche perché difficilmente vengono pubblicati nel mio paese.
Che accoglienza c’é in Francia per gli autori emergenti italiani, come Gipi che hai citato?
Per adesso si perdono in mezzo a tutti i libri che vengono stampati, che in Francia sono un’enormità, e bisogna che s’impongano perché gli appassionati si accorgano che sono italiani. Per il momento, in questo senso, non c’é nulla di significativo, a parte Igort che si sta ritagliando un suo spazio, e non lo dico solo perché è mio amico, ma perché è la verità.
Sovrastati dalla musica che incessantemente usciva dalle casse dell’area pro della mostra tenutasi nelle stanze di Castel Sant’Elmo, abbiamo deciso di chiudere qui l’intervista, con la promessa di risentirci in futuro per continuare, possibilmente con più calma, questa chiacchierata.
Doverosi ringraziamenti vanno a Simone Romani della Coconino che ci ha introdotti a Baru incensandoci di complimenti; troppo buono.
Soprattutto pero’ devo ringraziare per conto di tutta la redazione Nadia Rosso: senza l’uso del suo francese quest’intervista sarebbe stata molto più difficoltosa.
Bibliografia italiana:
L’autorute du soleil – 2 vol. Coconino press 2000/2001
Verso l’America – Coconino press 2002
Gli anni Sputnik – 4 vol. Kappa edizioni 2002/2004
Buon anno – su Mondo Naif 17, 18, 19 Kappa edizioni 2002
L’arrabbiato vol. 1 – Coconino press 2005
Connessioni:
il sito di Baru
il sito della Coconino press
il sito della Kappa edizioni