Su Tales to Astonish #27 (gennaio 1962) Stan Lee, Larry Lieber e Jack Kirby danno vita a uno dei supereroi più improbabili, un personaggio in grado di rimpicciolirsi fino alle dimensioni di una formica. Infatti, dopo l’iniziale successo di vendita che riporta il personaggio su TtA #35 (settembre 1962), gli autori finiscono ben presto gli spunti narrativi interessanti (che sono spaziati da una vasca riempita a metà d’acqua a un aspirapolvere o altre minacce del genere), così sul #49 (novembre 1963) Henry Pym, il biochimico dietro la maschera di Ant-Man, scopre un siero per ingrandirsi, creandosi così la nuova identità di Giant-Man.
Date queste premesse, era più che comprensibile approcciarsi al film Ant-Man di Peyton Reed con una certa diffidenza. Per fortuna la sceneggiatura di Edgar Wright e Joe Cornish – successivamente rimaneggiata da Adam McKay e Paul Rudd dopo la defezione per divergenze creative dei primi due – è invece risultata uno dei punti forti della pellicola, grazie all’ottimo mix di tensione, azione, dramma e humor all’interno di una storia in cui i riferimenti al Marvel Cinematic Universe sono stati decisamente poco invasivi, ma comunque utili per calare Ant-Man all’interno del più ampio contesto costruito dai Marvel Studios in questi anni.
Costruire i personaggi
Ogni racconto per essere efficace deve basarsi su una buona storia e su dei personaggi credibili. In particolare Ant-Man si fonda sui due protagonisti che hanno indossato il costume, Hank Pym, interpretato da un buon Michael Douglas, e Scott Lang, interpretato da un brillante Paul Rudd. I due personaggi vengono approfonditi con poche scene ma decisamente azzeccate e alla fine risultano per molti aspetti complementari. Entrambi, infatti, sono dei padri che cercano in tutti i modi di proteggere le figlie e di essere all’altezza di come queste li vedono. Entrambi hanno messo in discussione i loro datori di lavoro per questioni di principio, ottenendo alla fine lo stesso risultato: Hank un isolamento in parte autoimposto per non cedere le sue scoperte al governo e alla famiglia Stark, Scott quello imposto dalla legge nella prigione.
Intorno ai due eroi, quello del passato e quello del presente, si muovono altri due personaggi fondamentali per la storia: Hope van Dyne, interpretata da una brava Evangeline Lilly, figlia di Hank e della moglie defunta Janet (la prima Wasp) e Darren Cross, interpretato da un ottimo Corey Stoll, pupillo di Hank.
In particolare Hope diventa il punto cardine per provare a raccontare, insieme a Cassie Lang, il rapporto genitori-figli, che è una delle chiavi di lettura non banali della pellicola: si può infatti vedere Hope come una versione adulta e disillusa di Cassie. Mentre la prima non crede nel genitore, anche se cerca con tutte le forze di recuperare il rapporto con lui, Cassie non perde la fiducia in Scott e anzi sembra lottare contro la madre e il suo compagno per dimostrare loro quale eroe sia il padre.
Lo stesso Cross, in un certo senso, si inserisce in questa dinamica padri-figli. Egli è infatti l’erede di Pym presso la sua azienda, ma è anche una sorta di figlio abbandonato, sconfessato, cui viene preferito un ex-galeotto che ha giocato a fare il Robin Hood con la sua stessa azienda. Stoll, in questo, ha la perfetta presenza scenica per mostrare l’arrivismo, l’avidità, la rabbia e la follia di un personaggio costruito per essere una sorta di alter-ego malvagio di Henry. Non a caso nei fumetti Pym è stato spesso preda della follia: ha cambiato più volte costume e identità supereroica, con pesanti ripercussioni anche sul suo carattere civile. E non è un caso che una delle super identità più equivoche del biochimico è stata proprio il Calabrone, diventato nel film l’armatura indossata da Cross per combattere contro Ant-Man nel finale, riproponendo da un lato la lettura genitori-figli grazie a quella che può essere vista come la lotta intestina tra gli eredi di Pym, e dall’altro la più sottile (e fumettistica) lettura della lotta interiore tra le identità stesse dello scienziato interpretato da Douglas.
Paura della scienza
La storia, però, non ruota solo su questa dinamica, ma propone almeno altri due spunti interessanti, che permettono di accostare la pellicola al genere spionistico. Innanzitutto il classico tema dell’inventore incontrollato che progetta una super arma che non può essere lasciata in mano all’inventore stesso, né gli si può permettere di venderla a organizzazioni dubbie e governi che curano i propri interessi e non quelli della collettività.
La pellicola, però, cattura anche la paura mai sopita nei confronti più in generale della scienza incontrollata. L’idea che lo scienziato possa utilizzare le sue scoperte in maniera poco etica e per nulla rispettosa della vita in generale era già presente in molti dei fumetti di Stan Lee, ma qui, proseguendo il discorso già iniziato in Age of Ultron (e in questo quindi inserendosi perfettamente nel filone del Marvel Cinematic Universe), viene aggiornato al nuovo millennio.
Oggi, tra acceleratori di particelle e ingegneria genetica, siamo in linea di principio in grado di modificare il mondo che ci circonda. Immaginiamo allora di esaltare questi pericoli con tecnologie ancora più inarrivabili, come le intelligenze artificiali di Age of Ultron, o i sieri di Pym in Ant-Man: in quest’ultimo caso in particolare la pellicola esamina le due possibili scelte di fronte a una scoperta potenzialmente pericolosa per il mondo intero, ovvero nasconderla, oppure permettere che venga riprodotta per scoprirne le possibili contromisure. Il primo atteggiamento, sembra suggerire il film, è alla lunga distanza perdente: Cross, infatti, costruisce e riesce a far funzionare l’armatura del Calabrone, che riproduce tutte le capacità del costume di Ant-Man con in più una serie di gadget letali e tutto questo nonostante Pym gli nasconda non pochi dettagli sul suo lavoro. E allora diventa necessario opporgli un avversario all’altezza, per motivazioni, preparazione e capacità intellettive, un personaggio come Scott Lang, che può essere accostato all’attivista con una buona preparazione scientifica di base.
Ispirazioni e cura del dettaglio
Tutto questo viene confezionato da Peyton Reed con in mente alcuni riferimenti cinematografici ben precisi. Il più evidente di tutti è sicuramente Ocean’s Eleven (2001) di Steven Soderbergh: le similitudini nella trama sono tali per cui è inevitabile per il regista avere questo film come riferimento. D’altra parte, visto il tema della miniaturizzazione, non si può non pensare a Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi, pellicola disneyana del 1989 di Joe Johnston, la cui uscita all’epoca stoppò il primo tentativo di portare Ant-Man sul grande schermo. Altro interessante e possibile riferimento è il Viaggio allucinante del 1966 di Richard Fleischer: non si può non pensare a questa vecchia pellicola quando Ant-Man penetra nel palazzo della Pym Tech. Molto più espliciti sono i riferimenti visivi a Cristopher Nolan, in particolare alla scena ambientata all’interno del buco nero in Interstellar, ma anche la cura dei dettagli e il tentativo di essere aderenti alle leggi fisiche nasce da quella stessa filosofia.
Ad esempio la lotta tra Ant-Man e Calabrone miniaturizzati, che riesce ad essere a tratti comica, viene rappresentata in due modi completamente diversi in funzione del punto di vista, se interno rispetto ai due mini-avversari o se esterno rispetto al mondo rimasto a grandezza usuale.
Ciò sembrerebbe stridere con alcune delle scene in cui Ant-Man interagisce con il mondo esterno, ma c’è da dire che molto spesso (non sempre, però) la regia sceglie di illustrare queste interazioni con repentini cambi di dimensione da parte di Scott Lang, che uniti con i classici principi di conservazione della quantità di moto e di conservazione del momento angolare rendono plausibili la maggior parte delle scene d’azione che coinvolgono il piccolo eroe. Infatti, se proviamo a esaminare un po’ della “fisica di Ant-Man”, possiamo renderci conto che, se da un lato la sua forza è proporzionalmente diminuita, dall’altro sfruttando il fatto che la pressione esercitata da un suo pugno resta invariata, l’eroe riesce a rompere la busta di un aspirapolvere, mentre, aumentando opportunamente le sue dimensioni in fase di rotazione, è in grado di modificare il momento della forza che sta applicando su un avversario, riuscendo ad atterrarlo anche con piccole forze.
Ciò che dal punto di vista scientifico risulta insoddisfacente è invece l’utilizzo di segnali elettromagnetici per controllare le formiche – che in realtà utilizzano per comunicare i ferormoni – e le stesse particelle di Pym, la cui natura non viene specificata, ma che vengono sintetizzate come una sorta di siero in grado di ottenere l’impossibile: la diminuzione degli spazi subatomici e quindi il restringimento stesso degli atomi.
D’altra parte siamo in un film di supereroi, e quindi da qualche parte bisogna pur sospenderla questa incredulità.