Sarebbe interessante avviare questa conversazione ripercorrendo brevemente il tuo percorso artistico e personale. Quando hai cominciato a disegnare?
Ho fatto la Scuola del Libro di Urbino, in un’altra città. Io ero di Pesaro. Mi hanno sempre detto che era la scuola che avrei dovuto fare, mi è sempre piaciuto disegnare, fare fumetti. Alla scuola e a Urbino devo tanto e mi hanno insegnato tanto. A Milano, invece, ho capito come potevo far diventare il tutto una professione. Detto così sembra facile, oppure cinico, ma ancora mi fa buffo vedere che mi pagano per una cosa che mi diverte e che faccio da quando sono piccolo.
Come sei arrivato al fumetto?
Ho sempre letto fumetti. Per leggere i fumetti ho lavorato anche in un’edicola d’estate. Davo una mano alla signora Algide che mi conosceva e mi voleva bene. Ero veramente piccolo. Forse facevo la prima elementare e comunque, oltre a leggere i fumetti, imparai a far di conto e migliorai notevolmente in aritmetica.
Parliamo un po’ di Una storia a fumetti, il tuo primo libro. prima di addentarci nel suo contenuto sarebbe forse opportuno ricordare come quest’opera è nata e si è sviluppata, ricostruendo la sua “avventura editoriale”, piuttosto anomala per il fumetto italiano.
Ero innamorato dei libri della Kappa, sopratutto dei primi esperimenti editoriali che facevano con la Star, Mondo Naif ad esempio. Era un’esperienza molto simile a quella che “si respirava” in giro tra la gente e, soprattutto, alle cose che mi arrivavano per posta dall’estero. Scrissi alla Kappa facendo loro i complimenti e mandandogli una delle mie prime storie a fumetti, si intitolava R (l’unica storia uscita in abbonamento che non è finita sul libro). Loro mi spinsero a scrivere una storia nuova, quella che nell’abbonamento era intitolata Q. Quando la inviai, mi invitarono a Bologna e mi spiegarono tutte le cose che non andavano sulla storia e poi mi dissero una cosa molto bella, che come me c’erano tante persone brave a disegnare che ogni giorno portavano loro storie a fumetti. Quindi, tornando a casa in treno, capii che per diversificarsi dagli altri non era tanto importante cosa facevi ma chi ti leggeva. Detto così sembra facile, pero’, sul momento, pensai che la cosa più divertente non fosse arrivare alla fine di una storia ma arrivare a più persone possibili. Persone che potevano leggere la tua storia e scriverti delle lettere. Un po’ alla volta nel giro di quattro anni ho conosciuto, trovato, perso, fatto amicizia, scambiato più di quattrocento lettere ed abbonati. Ah, i Kappa non presero Q perché i personaggi avevano i capelli lunghi e, nelle loro produzione, il target doveva avere i capelli corti.
In questa tua prima opera hai deciso di adottare uno stile narrativo dall’impronta fortemente autobiografica. Perché hai fatto questa scelta invece di imboccare, come spesso accade nel fumetto, la strada dell’opera di genere (poliziesco, fantascienza, etc.)?
Non ho mai sopportato le storie che si concludono troppo facilmente. Soprattutto con le pistole. I “generi”, come può essere il poliziesco, sono molto difficili da reinterpretare. Mi viene in mente la Trilogia di New York di Paul Auster; in quel libro Auster cerca di scrivere una storia “alta” con un metodo narrativo “basso”, da letteratura gialla da edicola. Cinquant’anni fa, esistevano i generi, nel fumetto e nella letteratura: noir, giallo, poliziesco o di avventura. Oggi no. Oggi scrivere un poliziesco o parlare di avventura è molto più difficile di quando lo era in passato. Quando ero piccolo mi capitava spesso di leggere Mister No, ero affascinato dalla giungla amazzonica, anche perché non avevo altri modi per entrare in quel mondo. Oggi, probabilmente, un ragazzino può immergersi in quell’atmosfera quando vuole. Quelle ambientazioni alla Indiana Jones o All’inseguimento della pietra verdeerano esempi di un tipo di avventura che si cercava e c’erano poche possibilità di ottenerle. Pensa oggi, invece, alla facilità con cui possiamo recuperare i film attraverso internet o tramite amici. Quando ero piccolo io, i film li vedevi solo alla televisione. Non avevi possibilità di recuperarli in altro modo. Ad esempio per vedere due volte di fila Indiana Jones e l’ultima crociata io e Simone ci siamo nascosti tra le poltrone del cinema. Le cose andarono meglio quando i genitori di un nostro amico comprarono il videoregistratore: eravamo tutte le domeniche a casa sua a vedere i film.
Uno degli aspetti più curiosi di “Una Storia a fumetti” è che la storia ha preso forma nel tempo e persino i lettori hanno in qualche modo contribuito alla sceneggiatura. Come mai hai deciso di seguire questo particolarissimo percorso creativo?
Le cose migliori sono quelle che cambiano di giorno in giorno. Non avevo deciso niente. è successo. Ogni giorno ti capitano delle cose: bisogna cercare di guardarle da un altro punto di vista, in questo modo riesci a cambiarle. Quando mi arrivo’ la lettera di Futura che mi raccontava che aveva dipinto e fatto dei quadri nuovi mi sembrava bello poter far diventare quella lettera una storia a fumetti. Si procede per intuizioni.
Alcuni dei tuoi primi lettori/abbonati ti scrivono ancora
Alcuni si, altri no. Con molti sono rimasto in contatto. La cosa più bella è che c’é sempre qualcuno che non conosci e che scopri con una lettera. Dovro’ trovare il modo per fare un nuovo libro o qualcosa di simile per posta anche perché, oltre alle lettere, ci si scambia anche le proprie autoproduzioni. Ci si legge le storie a distanza e ci si scambia pareri e consigli.
Pensi che il tuo progetto sia stato possibile solo grazie al fatto che ti sei autoprodotto?
é stato possibile grazie all’autoproduzione, ma molto di più alla voglia di fare qualcosa. è difficile, anche perché la voglia di fare qualcosa non è mai molta, nel senso che ci si demoralizza molto velocemente, non si riesce a spedire i pacchi, l’accidia, il tempo perso; poi pero’ arrivano le lettere ed è bello e ci si ricarica. Spedire lettere è bello perché sai che riceverai delle lettere!
Puoi descriverci il metodo, se ne hai uno, che usi per scrivere le tue sceneggiature?
Scrivo la storia, poi faccio lo storyboard, come mi hanno insegnato a scuola. Ho fatto disegno animato alla Scuola del Libro. Metto tutto giù per immagini poi, quando tutto è finito e disegnato, aggiungo i dialoghi; non sopporto di averli fissi, immobili sul mio disegno. Non ho voglia di pensare e pesare gli ingombri. Mi piacciono le immagini per cui le mie tavole sono pulite… E poi le parole nella realtà non rimangono ferme immobili, perché dovrebbero farlo nei fumetti? Non sopporto la tavola a fumetti a tre strisce, mi sembra troppo “standard”. Amo il formato pocket, sembra adatto per i viaggi.
Molti dei lettori che ti hanno conosciuto dopo l’uscita del libro non hanno avuto la possibilità di vedere i tuoi albetti autoprodotti, ma si dice che fossero bellissimi. Potresti descriverli brevemente?
Beh, grazie! Bellissimi mi sembra troppo, diciamo che facevo di tutto per far affezionare i miei abbonati. Ad esempio ho fatto il raccoglitore, lo mandavo per posta soltanto a chi si abbonava. Poi un mio amico di Torino, Andrea, aveva comprato la macchina per fare le spille, avevo trovato una fotocopiatrice Océ che faceva delle stampe bellissime, come se fossero un tono di grigio cenere. I neri sono la prima cosa che si perde in una fotocopia, invece la Océ costava poco di più di una fotocopia normale e faceva un nero molto omogeneo.
Se dovessi in futuro abbandonare la strada dell’autoproduzione, pensi che si perderà questo aspetto così personale e “in divenire”?
Non lo so. Penso sempre che quando inizi qualcosa questo aspetto non finisca mai. Le storie sono tutte in divenire. Mi piacerebbe avere una situazione adatta per poter fare le mie storie con un po’ più di tempo. Cinque anni rimangono sempre cinque anni! Autoproducendosi e dedicando il tempo libero e i ritagli, la storia che racconti procede molto lentamente.
Secondo te è ancora possibile parlare di fumetto indipendente in Italia? Ammesso che esista, qual è il suo ruolo rispetto al fumetto mainstream?
In Italia ha più senso parlare di fumetto indipendente che di fumetto mainstream. Anche perché gli indipendenti ci sono, sono in tanti e differenti, hanno una produzione incostante, ma messa tutta insieme sembra costante e, soprattutto, la produzione indipendente è varia. Le produzioni mainstream, invece, sono molte, ma quasi tutte uguali e le novità o le nuove testate in un anno si contano sulle dita di una mano sola. Il fumetto si sta allontanando dall’edicola perché forse non resiste alla distribuzione, pero’ trova vita nella libreria con una fruizione e una specializzazione più ampia e ghiotta. Il fumetto sta diventando un prodotto meno generazionale. Lo leggono tutti e, soprattutto, il mercato indipendente produce più idee e libri del mercato “mainstream”. Lo sforzo sia creativo che economico per far uscire un fumetto seriale per una grossa casa editrice è diventato troppo costoso e pericoloso, sopratutto se, come succede spesso, non hai più investito nella ricerca e hai perso il contatto con un pubblico nuovo. Rischi di fare dei buchi nell’acqua e di averci speso soldi che non rivedrai più. Le case editrici piccole, oltre a essere molte, possono dare al mercato molti più titoli, sono più brave a seguire i movimenti e le nuove scene. Certo, non riusciranno mai a fare un prodotto da edicola con redazione, autori che disegnano e producono le storie; né, tanto meno, a rispettare una cadenza mensile. Pero’ spesso ottengono risultati in tal senso e stanno cambiando il mercato.
Dall’autoproduzione a Black Velvet: raccontaci come sei stato notato dalla casa editrice e come avete deciso di raccogliere i volumetti autoprodotti in unico volume.
In modo molto semplice: Omar Martini era uno degli abbonati, l’idea di raccogliere il tutto era nell’aria da molto tempo. Un aiuto grande me lo ha dato Davide Toffolo e due consigli in più sono andato a prenderli direttamente da Igort a Parigi. Due, ma molto utili. Per fare un fumetto devi avere un sacco di persone che ti spronano a farlo, almeno per me. Ci sono tantissimi modi in cui la storia prende continuamente dei bivi e devi avere sempre qualcuno sottomano per fargli leggere cosa sta succedendo. Le storie nell’abbonamento avevano già un filo rosso, ma ho cercato e ho scritto un po’ di episodi nuovi e dei collegamenti tra le storie. Detto così sembra facile; in realtà non lo è stato. Ci è voluto un anno per mettere tutto insieme.
Come hai vissuto il passaggio da prodotto artigianale confezionato autonomamente a prodotto per tirature relativamente alte?
Io penso che il libro fatto insieme ad Omar sia un buon prodotto, confezionato quasi in semi-artigianato. Non ho piegato a mano tutte le copertine, questo è vero, ma non posso considerarlo un “prodotto per tirature alte”. Purtroppo (purtroppo per Omar) Omar Martini non è una azienda, lui si fa la redazione, l’editor, la grafica, la traduzione e la stampa dei libri tutto da solo. Se Black Velvet fosse stata la Mondadori o la Feltrinelli, allora sarebbe stata un’altra questione. Nel senso che la differenza sta nel fatto che se si trattasse di una casa editrice, i soldi per fare un libro non li metterebbe la stessa persona che poi va a ritirarlo in tipografia. Diciamo che dall’autoproduzione siamo passati alla semi-autoproduzione.
In questo passaggio si è persa un po’ dell’identità iniziale?
In che senso “identità iniziale”? All’inizio non c’era nemmeno un progetto. Tutto si è formato un po’ alla volta nella mia testa e nella testa di chi mi ha scritto. Non è che ho cercato di fare una autoproduzione con gli abbonamenti, cinque anni fa. Come non potevo sapere, cinque anni fa, di raggiungere tutte quelle persone. Quindi l’identità sta nelle scelte, nel capire quelle che sono importanti. Oggi ricevo molte lettere nelle quali mi chiedono di continuare i miei fumetti tramite posta, forse è la cosa più semplice da fare per mantenere un contatto con la gente. Il libro è un risultato di molte addizioni ed è giusto che l’identità iniziale, qualunque cosa tu pensi sia, non si sia persa ma aggiunta.
Da molto tempo affianchi all’attività di disegnatore e fumettista anche quella di musicista nella band Altro. Che rapporto esiste, secondo te, fra questi due differenti linguaggi espressivi?
Non esiste nessun rapporto, pero’ penso che chi disegna debba avere una adeguata conoscenza musicale. Adeguata e alternativa. Non puoi ascoltare la radio mentre disegni: è come se ti imponessero la loro musica. Devi trovare qualcosa da ascoltare mentre disegni e, siccome disegno quasi tutto il giorno, ho bisogno di tanta musica nuova da sentire ogni giorno. Poi, ogni tanto, mi fisso e allora poi chi mi sta vicino mentre disegno mi odia. Tipo quando sono andato in fissa per i Cori delle Voci Bulgare.
In che modo il rapporto musica/fumetto ha inciso sulla tua attività fumettistica?
Uno dei fumetti che mi ha stupito di più erano le storie dei Fratelli Hernandez: loro disegnavano tutto quello che apparteneva alla loro scena, ai loro amici, alle cose che ascoltavano, concerti e dischi che avevano ascoltato e visto; cosi ho pensato di farlo anch’io. Volevo parlare di concerti di gruppi, di dischi che avevo comprato, di distribuzioni e autoproduzioni.
Per la band hai disegnato le copertine dei dischi: come nasce il concept di una copertina?
Io volevo fare una copertina, Gianni un’altra. Poi ha visto alcuni disegni di fiori che avevo fatto. Erano nel “mucchio” dei disegni. Ogni tanto, quando mi chiedono un manifestino per un concerto, invito la persona a casa mia, gli metto tra le braccia una cartella gonfia di disegni e gli dico: “Scegli!”. Poi impaginiamo il tutto insieme al computer.
Spostiamoci un po’ sul tuo particolare stile grafico: quali sono le tue maggiori fonti di ispirazione in campo fumettistico?
Fratelli Hernandez, appunto. Go Nagai e Jeff Smith mi hanno risolto parecchi problemi di nero. Una volta una mia amica mi ha detto che le piacevano i miei disegni perché erano equidistanti tra due mondi: quello americano e giapponese. L’Italia è lì e ci sta in mezzo. “Tu li metti insieme”, mi ha detto.
La scelta del bianco e nero è casuale?
No. Uno ci mette tantissimo a cercare uno stile e un modo in cui il nero vada bene col bianco. Il problema, molte volte, è che quando si inizia a inchiostrare si pensa di usare un colore solo: il nero. In realtà la prima cosa da fare è trovare una carta grigia per cui, ogni volta che disegni, devi pensare a riempire i neri, ma anche i bianchi.
Mmm…questa risposta si capisce?
Per quale motivo decidi spesso di affidare la narrazione a sequenze interamente mute?
Forse perché le parole, dopo un po’, cadono per terra. Mi piaceva una cosa che aveva scritto Scott Mc Cloud: diceva che ci sono parecchi movimenti che si perdono nei fumetti. Questa è la ragione per cui, raccontando più movimenti, dai l’idea di quello che sta succedendo. Non sto parlando di intere scene inutili. Molte volte leggi un fumetto con delle azioni quotidiane che non hanno niente a che fare con la storia. A me piace provare a raccontare, o meglio, a rallentare il momento, o meglio ancora, il movimento che mi interessa. Se sto bevendo un caffé, una delle azioni più facili e veloci del giorno, mentre sto parlando con un mio amico e voglio raccontare delle cose importanti in questa sequenza, questa scena durerà molto di più del tragitto che hanno compiuto le persone prima di arrivare al bar. Ad esempio, Jessica Abel usa spesso questo meccanismo nelle sue storie. Fa durare un momento molto più a lungo di altri. Rallenta la narrazione con il testo, dando la sensazione del tempo, della chiacchiera. Se devi leggere tanto testo hai la stessa sensazione di quando devi ascoltare per forza il discorso noioso di una persona che non smette mai di parlare.
In “Una Storia a fumetti” hai allargato il formato delle tavole introducendo l’uso delle finestre. Come mai hai avuto questo problema di formato e perché hai deciso di risolverlo così?
Oh! Grazie per questa domanda! Era una cosa a cui tenevo e Omar mi ha seguito anche in questa pazzia. Quello che manca al fumetto è la panoramica. Non mi puoi fare una vignetta più stretta delle altre dicendomi che quella è una panoramica. Perché il mio occhio scopre già cosa ci sarà alla fine. Volevo trovare un espediente che mi nascondesse, come fa la telecamera nel cinema, quello che tra poco scoprirai. Spero non sia costato troppo. Avevo fatto lo stesso esperimento in un numero della serie a fumetti uscita in abbonamento: la pagina era in A3, doveva essere tagliata, rifilata e piegata, l’ho fatto per circa 500 volte a mano.
Lo scorso anno alcune tue storie brevi sono state ospitate, insieme a quelle di altri autori, sulle pagine del magazine XL. Come è avvenuto il contatto con il magazine?
Conosco Luca Valtorta da quando era a “Tutto-musica e spettacolo”, a Milano. Una volta mi invito’ a cena a casa sua, una delle case con più dischi che abbia mai visto. Alcune copie erano ancora da sbucciare, ad esempio aveva comprato la versione in cd del disco che aveva in vinile, ma non l’aveva mai ascoltato. Allora ho chiesto se mi poteva stupire, del tipo: dai fammi vedere qualcosa da collezione che io non ho! Lui mi disse che non sapeva cosa farmi vedere. Io gli chiesi qualcosa da collezionista, tipo io vado molto fiero della mia copia in vinile di GI dei Germs. “Ah quel tipo di cose…”, Luca tiro’ fuori un cassetto pieno di 45 giri dei Germs. Io rimasi impressionato ma cercai comunque di rilanciare, così mi mostro il ritratto che gli aveva fatto Pazienza. Persi, pazienza.
Che impressioni hai ricavato da questa esperienza?
Non potro’ mai avere un ritratto da Pazienza.
In che modo pensi che iniziative come quelle di XL possano giovare alla diffusione del lavoro di fumettisti non ancora del tutto affermati?
Non lo so, ma la parte a fumetti di XL è veramente la cosa più bizzarra che si possa vedere in giro in Italia di questi tempi, con una risonanza ampia come solo la può avere un quotidiano nazionale. è come essere ai tempi pionieristici del Carosello, quando la pubblicità ancora era un’idea e le idee erano tante pubblicità.
Come già accennato, parallelamente alla tua attività di fumettista coltivi quella di grafico, soprattutto in ambito musicale. Il tuo approccio nel passare da un linguaggio all’altro cambia? Se sì, in che modo?
Mi piace il giardinaggio, mio zio dice: “Se vuoi essere bravo con le piante ne dovrai uccidere tante prima di capire come si fanno a crescere”. Tuttora mio zio ci riesce una volta si, due no. Io a Milano ho messo delle belle piante di pitosforo sul terrazzo. è una pianta molto forte, sempreverde e con dei fiori profumatissimi. Mi piace e mi ispira. Molte volte ho disegnato le sue foglie, penso siano un motivo grafico molto bello. Una pianta di pitosforo è finita anche nel booklet del cd.
Grazie alla pubblicazione di “Una storia a fumetti” per Black Velvet e alla collaborazione con XL sei diventato un autore abbastanza noto agli appassionati. Questo successo ti permette oggi di sopravvivere dedicandoti esclusivamente al fumetto?
No, magari…
Credi che ciò sia possibile al di fuori del circuito del fumetto popolare?
No. L’ultimo vero autore che abbiamo in Italia – e dico autore con la A maiuscola – è Bacillieri. Lui scrive storie che pubblica a puntate sulle riviste, come facevano Pratt, Crepax e Manara. Lui è un autore anche quando disegna per Bonelli, come lo è stato Magnus quando ha fatto il Texone. Se io dovessi entrare nel circuito popolare dovrei sacrificare molto, forse tutto, per entrare in uno schema “standard” di come le cose devono essere fatte. Così, allora, potrei vivere col fumetto. I più bravi disegnatori Bonelli, quelli che macinano un sacco di storie all’anno, se la passano bene, ma fanno una vita quasi da ufficio in posti chiusi e molte volte piccoli a inchiostrare e a disegnare anche la domenica.
Hai mai pensato di dedicarti ad un fumetto seriale? Hai mai ricevuto delle proposte da parte di qualche editore in questo senso?
Nessuna proposta. Ho dei progetti di fumetti seriali, storie che finiscono in 10, 15 numeri. Non le ho mai fatte leggere ad editori. Non saprei nemmeno come si presenta ad un editore una cosa del genere. Non so nemmeno come fare per presentare i miniclip che ho fatto con le strisce su Rumore. Ho chiesto a Paola Maugeri se faceva la voce al mio personaggio e lei è stata contentissima di farlo.
Parliamo un po’ del tuo blog. Da quanto tempo esiste?
Un mio amico mi ha invitato a scrivere sul suo blog che parla di Pesaro, mi ha invitato a scrivere perché dice che gli piace come scrivo. Dice che la dislessia porta a fare delle fantastiche associazione di idee. Cosi mi ha fatto l’account su Splinder e come nome ho scelto uno dei cattivi dei Micronauti: Baronkarza. Era il nome con cui mi chiamavano alle elementari. Ma anche Baron Ashura, erano i tempi di Mazinga Zeta e Jeeg robot d’acciaio.
Ho visto che lo usi anche per postare scatti rubati al volo: esattamente, come lo usi? Ti serve per segnalare i nuovi fumetti o per tastare il polso dei tuoi lettori online?
Dato che avevo l’account ho cominciato a mettere su un po’ di cose. È divertente, è su da quasi un anno è sono a più di 10.000 ingressi. 3000 saranno solo i miei. La cosa che mi fa più arrabbiare sono pero’ gli hosting dove carico le immagini. Sono sempre in manutenzione oppure qualcuno ha caricato qualche immagine porno, per cui stanno lì a controllare tutte le immagini per giorni e giorni e sul tuo sito non c’é più niente. Ah, non guardate la pagina con Explorer, non visualizza le lineette!
Quali sono i tuoi principali progetti per il futuro?
Un secondo libro.
Per concludere: un fumetto e un disco che consiglieresti ai lettori de Lo Spazio Bianco.
Girls dei Luna Brothers, Tango dei Matia Bazar, 23 dei Blonde Redhead, L’ultimo degli Isis e dei Jesu, qualcosa degli Slowdive, e poi i Celebration, i Celebration sono da avere. Adesso sto leggendo la vita di Hokusai, al teatro greco di Siracusa ho visto Eracle di Euripide, pero’ le granite al caffé con la panna sono più buone…
Riferimenti
Il blog di Baronciani: BaronKarza