Sono molti anni che i fumetti, le vignette e i disegni di Gianluca Costantini vengono apprezzati sui giornali di mezzo mondo e vengono diffusi sul web. Immagini di lotta, di speranza, di guerra, di sofferenza, di rivolta e di pace; storie raccontate per dar voce a chi non ne ha, per raccontare violazioni (e purtroppo più raramente) concessioni di diritti umani. Recentemente il suo nome è salito alla ribalta dei principali quotidiani italiani e stranieri per due episodi che lo hanno coinvolto, mostrando gli effetti preoccupanti delle notizie false e della censura e il terrore del potere nei confronti della forza del giornalismo indipendente. Abbiamo parlato con lui di questi episodi, di cosa voglia dire lavorare come vignettista e fumettista che racconta l’attualità in un mondo invaso da fake news e odio social, oltre a parlare della sua ultima opera, Libia, realizzato con Federica Mannocchi per Oscar Ink.
Ciao Gianluca e grazie per il tuo tempo. Vorrei partire subito da una notizia di cui parlano tutti, ovvero dal tuo allontanamento della CNN per via di una vignetta accusata di antisemitismo. Un caso esemplare della macchina del fango di internet: vignetta del 2016 retwittata da una autrice di fake news, rilanciata da estremisti alt-right trumpiani e conclusasi con una presa di distanza (e licenziamento da CNN). Quanto sta diventando difficile il lavoro di vignettista politico in questo contesto?
Credo che sia normale che succedano queste cose, stiamo parlando di disegni che non sono catalogabili come satira, ma proprio come disegni attivi nella discussione pubblica. Il mio intento in questi anni è stato quello di insinuarmi nella realtà tramite la mia azione artistica. Ormai non vengo più identificato come fumettista ma come artista e attivista e questo fa sì che si che il mio campo di azione sia molto aumentato e la forza dei miei disegni sia più penetrante. Mi propongo quasi sempre come un artista indipendente che opera on-line, i miei disegni diventano così di dominio pubblico e vengono utilizzati dalle persone che sono direttamente coinvolte nella tematica affrontata: si va dai familiari delle vittime agli organizzatori delle proteste, dai giornalisti alle persone comuni. I disegni vengono esposti, stampati, modificati e quindi entrano direttamente nella realtà. In tutti questi anni di lavoro on-line e soprattutto con l’utilizzo di twitter il mio profilo ha acquisito sempre più credibilità e quindi è anche molto tenuto sott’occhio. Da tutto questo è nata la faccenda CNN. Mi sono trovato in mezzo alla famosa battaglia che avviene tra Donald Trump e i giornalisti, con l’ufficio di Steve Bannon che lavora per screditare le testate che sono contro Trump. Io sono stato utilizzato unicamente per screditare CNN e niente era più facile che coinvolgere i miei disegni sulla situazione palestinese. Il profilo https://twitter.com/Partisangirl che per primo ha innescato la miccia è un classico profilo falso dove una donna molto bella dice di essere siriana e a favore del governo di Assad, di conseguenza essere anti-americana e anti-israeliana, in verità sono pro Palestina unicamente perché odiano la comunità ebraica. Quindi un finto profilo mi ha ritwittato appoggiandomi come disegnatore contro Israele e poi è stato automaticamente ritwittato da un altro profilo https://twitter.com/ArthurSchwartz facente capo all’organizzazione di Steve Bannon in cui mi davano dell’antisemita e accusavano CNN di farmi lavorare per loro. Io, sbagliando, cancellai il tweet quando vidi l’utilizzo che ne stava facendo Partisan Girl, ma sbagliai perché non si dovrebbe mai cancellare quello che si fa on-line.
Che ripercussioni ha avuto nell’immediato questo episodio?
Le ripercussioni sono state il mio allontanamento dal gruppo. Oltretutto CNN, forse uno dei gruppi giornalistici più importanti del mondo, non mi ha minimamente difeso, scrivendomi in privato che sapevano che non ero antisemita ma che non volevano problemi. Il risultato è che rimarrà in rete per sempre questa etichettatura, e per uno che come me lavora tutti i giorni proprio su questi argomenti non c’è maggiore offesa. Io amo il popolo ebraico, solo che non sono d’accordo sulla politica del loro governo. Chi lavora nei diritti umani non può esimersi da denunciare quello che succede nei territori palestinesi. Prendere un disegno, estrapolarlo dal suo contesto e poi utilizzarlo per tutt’altro motivo, per screditare una persona, è vera e propria diffamazione. Hanno creato una fake news su di me che mi rimarrà come un’impronta per molto tempo.
Un’altra tua vignetta, raffigurante Erdogan sporco di sangue, ha scatenato l’ira del governo turco che ti ha messo su una lista nera e accusato di terrorismo. Posto che il fumetto e le vignette politiche sono sempre stato bersaglio della censura, come si sta evolvendo questo meccanismo nel mondo interconnesso di oggi?
Si, il meccanismo si sta evolvendo in maniera sempre più autoritaria: continuamente i disegnatori sono messi a tacere, sia da governi ma anche da auto-censure che i giornali e i mezzi di comunicazione stanno applicando a loro stessi. L’esempio più lampante è quello del New York Times che non pubblicherà più vignette politiche dopo la famosa vignetta di Antonio Moreira Antunes riguardate Trump e Netanyahu. I giornali sono disarmati e non sanno come affrontare gli attacchi on-line e in questo modo stanno perdendo.
I disegnatori sono sempre di più sotto attacco, voglio ricordare che in questi giorni un disegnatore algerino, Nime, è stato arrestato dal governo e che molto disegnatori turchi sono sotto processo. Per capire il fenomeno è molto utile seguire il sito web cartoonistsrights.org.
Sicuramente la mia accusa è particolare, non credo esistano altri disegnatori al mondo accusati di terrorismo, ma questa è la Turchia di questi giorni.
Questo evento ci spinge anche a riflettere sulla figura del giornalista, più in generale dell’intellettuale, e dell’integrità: che cosa significa difendere i propri principi in questo caso e a quali rinunce porta, anche in termini concreti?
Prima di tutto porta alla restrizione del movimento. Io per esempio non posso più andare in Turchia, dove amavo stare per lunghi periodi. Ma anche non sapere se posso viaggiare in alcuni stati perché ho lavorato sulle tematiche dei diritti umani: molto probabilmente verrei fermato alla frontiera di Israele, Arabia Saudita, Bahrein. Inoltre ho lavorato moltissimo su Julian Assange e anche negli Stati Uniti potrei avere dei problemi.
Tornando alla Turchia, Istanbul era per me una seconda casa, camminare per le sue strade era fonte di grandissima creatività. Se questo riguarda il lato emotivo del mio lavoro, per quanto riguarda quello di “azione”, il mio impatto è paradossalmente aumentato dopo la censura, mi sono sempre più dedicato alla libertà di espressione in Turchia disegnando il più possibile. Io posso parlare e disegnare anche per i disegnatori turchi e i giornalisti che non possono farlo. Posso essere la loro voce.
Recentemente hai realizzato un disegno dedicato a Daniela “la Mimo” Carrasco, ragazza uccisa in Cile, secondo alcune fonti fermata, torturata e violentata dalla polizia cilena. Altre fonti piuttosto autorevoli hanno però messo in dubbio questa versione. A prescindere da questo caso particolare, oggigiorno c’è un problema più generale di fonti verificate e informazioni “false” diffuse su Internet e sui social. Quanto è diventato difficile il lavoro del giornalista in questo contesto e quale può essere la via per risolvere questo problema, offrendo così ai lettori mezzi per informarsi in maniera sicura e certificata?
Quello che succede in Cile è terribile, come un po’ in tutta l’America del Sud, i miei contatti con attivisti cileni e altre fonti affidabili mi davano per vera questa notizia, che si va ad aggiungere ad una miriade di altri casi di violenza. Il lavoro è naturalmente difficile, ma questo è il tempo in cui si deve cercare di non fare errori. Comunque si può anche sbagliare, può succedere, mi è capitato varie volte. Questo tipo di disegni però non sono tanto da inserire nel giornalismo, quanto da considerare come disegni di denuncia e sensibilizzazione. Bisogna stare anche molto attenti alla moda virale che un disegno può prendere, soprattutto se molto emotivo. Nel caso di Daniela “la Mimo” Carrasco solo il modo in cui si vestiva rappresenta una emotività estremamente forte e spesso fuorviante dal caso vero e proprio.
Collegandosi a questo, mi viene da pensare a come ultimamente la comunicazione politica, specie sui social, abbia invaso il campo di chi informa con il fumetto, grazie all’uso massiccio di meme e fotomontaggi con fumetti. La sintesi e l’immediatezza di questo mezzo sono sfruttati, purtroppo, per semplificare e spesso disinformare gli elettori. Che sfide pone questo a chi da tempo produce “fumetti di realtà”?
I meme e i fotomontaggi fanno parte di una comunicazione politica aggressiva e subdola, che tramite la comicità spesso attacca e crea un immaginario su un dato personaggio politico. Ma è un sistema molto strutturato e massiccio che solo i social network possono fermare. I lavori fatti da veri e propri disegnatori sono solitamente di un livello superiore e difficilmente vengono confusi con questi, ma tutto è possibile. I meme vanno a colpire soprattutto gli influenzabili e chi non è in grado di leggere un’immagine. E purtroppo in Italia sono tanti.
Durante Lucca Comics and Games 2019 hai partecipato insieme ad altri autori ad un panel “Fumettisti vs. Hate Speech”, in cui si sono mostrate le varie sfumature degli attacchi sui social e come è possibile combatterli. Da dove si deve partire, secondo te, per invertire questa tendenza, per rasserenare un clima sempre più infuocato? E che ruolo ha il fumetto in tutto questo?
Dall’onesta e dalla coerenza.Dai tuoi profili si deve capire come la pensi e che usi questi strumenti per fare una determinata cosa, nel mio caso informare e sensibilizzare senza cadere nella trappola dell’ego che i social stimolano continuamente. Tenere una linea ben precisa senza scadere in polemiche, attacchi, gelosie ma rendere la tua voce credibile e affidabile. Questo penso sia un buon modo per combattere il brutto web. Ma ricordiamoci che i social network sono pieni di falsità, di profili falsi, di post a pagamento, di strutture immense che influiscono sugli andamenti dei flussi. Noi possiamo solo rendere migliore la nostra bolla.
Sempre rimanendo in questo ambito, recentemente c’è stato il caso dello scontro e del successivo incontro tra Vauro e Massimiliano Minnocci, un esponente di estrema destra: credi veramente possa esserci dialogo con tutti, e cosa potrebbe portare, o certe posizioni possono solo scontrarsi finché non ne rimarrà una sola?
Dipende dalla situazione. Guardando quelle scene, e soprattutto conoscendo il contenitore che la ospitava, faccio fatica a credere che non fosse tutto organizzato oppure stimolato in modo che succedesse. Con l’estrema destra il dialogo è impossibile, non può portare a nulla, ignorarli è la cosa più giusta da fare, non dargli importanza. Smontare continuamente il loro odio è l’unico dialogo che ci può essere, una opposizione non violenta è l’unica soluzione per me. Io per esempio cerco di non disegnarli mai, perché raffigurarli è già un premio per loro.
Una delle vie per cercare una conciliazione è sicuramente quella di usare storie per far approfondire temi spesso banalizzati dai media. Questo ci porta a Libia, in cui tu e Francesca Mannocchi parlate del presente del paese scavando nel suo recente passato. Come è nata questa opera?
Questo libro è proprio nato per cercare di spiegare una situazione inspiegabile: nonostante la Libia faccia parte della nostra storia e che siano i nostri vicini di casa, nessuno ne capisce niente. Il libro cerca di creare un ritratto più approfondito possibile tramite la parola e il disegno per aiutare a capire il nostro mondo, la nostra vita. Per capire che quando alla mattina accendiamo il gas per farci il caffè quel gas arriva dalla Libia. Abbiamo iniziato a pensare al libro molti anni fa e in questi ultimi due lo abbiamo realizzato insieme a Daniele Brolli. C’è un’unica storia ambientata nel periodo di Gheddafi, racconta l’uccisione di oltre 1200 persone in un carcere di Tripoli, Abu Salim. Serviva a dare un contesto di continuità dalla dittatura al caos di oggi. Il libro è costituito da 6 interviste fatte da Francesca in Libia che unite tra loro creano un affresco della Libia quotidiana, del popolo libico e di chi attraversa il paese. Credo che capire il viaggio e il perché un eritreo attraversi l’Africa per arrivare in Europa faccia giudicare diversamente queste persone, quando conosci l’inferno da cui arrivano capisci il paradiso in cui vivi e anche che qualcosa di tuo lo può condividere con loro. Devi capire qual è il nostro posto in questo mondo e quanto si è stati fortunati a nascerci.
In che modo ci si prepara a disegnare una storia del genere, piena di atrocità e violenza? Ti sei recato personalmente sul luogo, hai attinto a tue esperienze del passato?
No, non sono andato lì personalmente. Diciamo che io ero Penelope che tesseva la tela e Francesca era Ulisse che viaggiava. Sarebbe stato utile per me stare almeno un periodo a Tripoli, ma solo per entrare nell’atmosfera per sentire gli odori di quel posto. Ma i disegnatori non sono fotografi, non si può stare in un luogo di conflitto a disegnare paesaggi: sarebbe surreale e non ci sarebbe il tempo. Ho costruito il tutto tramite il materiale fotografico di Francesca, ho saccheggiato i fotografi di mezzo mondo per ricostruire un immaginario, quello libico, che di fatto non esiste. Non ci sono film, ci sono poche foto, soprattutto non ci sono foto quotidiane. Mi sono immerso in questo inferno per due anni e ora sono felice di esserne emerso. Mi porto nel cuore immagini terribili, soprattutto gli occhi delle persone. Quando guardi con così attenzione le foto, quando disegni veramente tutte quelle persone che stanno su un barcone dandogli un viso e un’anima, fai fatica a dimenticare.
Ho trovato particolarmente interessante lo sviluppo narrativo delle singole tavole: come spesso succede nelle tue vignette, la narrazione non procede attraverso una griglia ben definita, bensì con sovrapposizioni di volti e corpi. In questo caso l’effetto che ho provato è stato quello, destabilizzante, di caos, di brutalità, di disordine completo. Era questo l’effetto a cui pensavi?
Per il montaggio mi sono ispirato alle incredibili costruzioni e architetture della tavola di Sergio Toppi, non doveva esserci una griglia ma comunque una narrazione che accompagnasse il lettore. La storia è troppo complessa e importante per far perdere l’orientamento a chi legge, non bisognava distrarre il lettore. L’effetto che volevo è che all’interno del caos della situazione si percepisse che io volevo dare più attenzione e amore possibile alle persone, ai corpi di tutte le persone ritratte. Perché la Libia è proprio il loro insieme.
Intervista realizzata via mail nel dicembre 2019
Gianluca Costantini, ravennate classe 1971, combatte da anni battaglie per i diritti umani attraverso i suoi disegni, inimicandosi per questo vari governi dittatoriali. Le sue vignette e le sue storie sono apparse sui più importanti giornali nazionali e internazionali, dal Corriere della sera a Internazionale, da Le Monde Diplomatique a Pagina99, da LeMan a World War Illustrated. Ha anche raccontato a fumetti vari festival di diritti umani, come quello di Ginevra e di Milano. Collabora inoltre con organizzazioni come ARCI, Oxfam, Amnesty International, ActionAid, con DiEM25, movimento fondato da Yanis Varoufakis, e con l’artista cinese Ai WeiWei. Oltre a questo ha realizzato vari fumetti, tra i quali Fedele alla linea, Diario segreto di Pasolini, Pertini fra le nuvole, Arrivederci Berlinguer, Cena con Gramsci, Julian Assange dall’etica hacker a Wikileaks per le Edizioni Becco Giallo; Cattive abitudini, L’ammaestratore di Istanbul e Bronson Drawings per GIUDA edizioni; Officina del macello per Eris Edizioni.
Queste e molte altre informazioni sul suo lavoro possono essere trovate sul suo sito internet www.gianlucacostantini.com