Al di là della pagina: lo stato del fumetto secondo Paco Roca

Al di là della pagina: lo stato del fumetto secondo Paco Roca

In occasione di un suo incontro a Milano, abbiamo parlato con il fumettista valenciano Paco Roca di industria del fumetto, creazione artistica e nuovi progetti.

Per l’evento Garamond Storie di editori dedicato a Tunué – svoltosi a fine settembre alla Feltrinelli di viale Pasubio di Milano – Paco è tornato nel nostro Paese per raccontare del suo più che decennale rapporto con la casa editrice di Latina. Dall’incontro con Emanuele Di Giorgi al percorso svolto insieme, l’autore spagnolo ha spiegato come in questi anni ci sia stato un percorso di crescita suo, dell’industria del fumetto e dell’editoriale che lo ha accolto in Italia, fino alle ultime iniziative editoriali che lo vedono protagonista nel nostro Paese, sempre a fianco di Tunué: la riedizione in versione tascabile di Rughe – nell’ambito della nuova collana Ali, le graphic novel “imperdibili” in versione economica – e la futura pubblicazione del suo ultimo lavoro.

Paco Roca ed Emanuele Di Giorgi all’evento “Garamond Storie di editori” dedicato a Tunué

Per noi è stata anche l’occasione di fare una chiacchierata sul modo di relazionarsi con il mondo editoriale di uno dei più grandi fumettisti spagnoli e con l’evoluzione della nona arte in Spagna e in Italia.

Ciao Paco, bentornato su Lo Spazio Bianco! In una nostra precedente intervista ci parlavi del tema della libertà attuale data agli autori di fumetti. Com’è il tuo rapporto con le realtà con cui pubblichi? C’è un dialogo continuo tra te creatore e l’editore, con passaggi di editing, o hai piena carta bianca?
Beh, quella con Astiberri Ediciones è una relazione che è anche di amicizia, chiaramente la mia situazione è diversa rispetto a quella di altri autori che si trovano all’inizio della loro carriera. Io racconto a parole il progetto che voglio fare, e loro (Astiberri) non hanno mai nulla da ridire: “Ah bene, tutto perfetto” … Diciamo che, anche se non è necessario, preferisco che siano partecipi del progetto dandomi la loro opinione, perché penso che – in un qual modo – ci troviamo sulla stessa barca, se vogliamo che il progetto funzioni. E credo che condividiamo la stessa filosofia, dove anteponiamo la nostra soddisfazione per il progetto al fatto che sia commerciale. Sempre si va a valutare la qualità dell’opera e non si antepone mai la ragione commerciale.
Come dicevo, mi piace che siano partecipi del progetto: inizio raccontandogli l’idea, e già solamente con questa iniziamo a firmare il contratto, fissando delle date per la possibile consegna, anche se sempre in maniera molto flessibile.

Quindi sei libero su dettagli quali numero di pagine o altro?
Sì, totalmente. Formato, colore, tutto. Ne parliamo sempre – per esempio se vogliamo inserire un colore speciale che rischia di rendere troppo costoso il libro, vediamo insieme se davvero compensa l’aumento di prezzo o no. Ma l’ultima parola è sempre la mia. Dato che, come dicevo, preferisco che partecipino allo sviluppo del progetto, quando ho la sceneggiatura pronta gliela invio e ne parliamo insieme: “Mi piace”, “Questa parte qui è un po’ confusa”, “Ė troppo lunga” … Ne parliamo anche perché io sono molto insicuro, come mi immagino la maggior parte degli autori, e anche se ho amici a cui do da leggere la sceneggiatura o gli storyboard, normalmente si tratta di opinioni positive. Ho invece bisogno che il mio editore sia sincero, confido nel suo gusto. Ciò non significa che poi io segua al 100% tutti i commenti che ricevo, ma se sono su quelle parti in cui io stesso ho dei dubbi – e anche altri mi fanno notare che quel passaggio non si capisce – allora sì. Il caso è diverso per quelle parti di cui io sono soddisfatto, anche se altri possono pensarla diversamente. In questo senso, ho una libertà totale.

Conoscevi Astiberri personalmente prima di pubblicare con loro?
No, prima pubblicavo con Editions Delcourt, e prima ancora con SAF Comics, un’agenzia guidata da Ervin Rustemagić – che è sloveno, ed è molto conosciuto nel settore. Pubblicavo con lui, che vendeva i diritti all’estero. Non ero però molto contento, pensavo che i miei lavori non arrivassero dove sarebbero potuti arrivare – tipico di noi autori avere poca fiducia negli editori. In ogni caso, non ero soddisfatto di Rustemagić. Il problema era che in Spagna non c’era niente, praticamente non erano rimasti editori, era come un deserto.

Si trattava degli anni del declino delle riviste.
Sì, già erano scomparse. Prima avevo lavorato con Ediciones La Cúpula, che però normalmente non vendeva i diritti all’estero, e io pensavo che per poter vivere di fumetto dovessi pubblicare anche fuori dalla Spagna come facevano molti altri autori.
Quindi misi da parte La Cúpula, anche se erano degli agenti molto buoni, e iniziai a lavorare con questo agente estero: però non mi quadravano mai i numeri, le vendite, e rimanevo abbastanza scontento. Lasciai quindi per un po’ il fumetto per lavorare nella pubblicità e con la televisione, facendo sketch e cose così. Dopo poco però iniziai a disegnare un fumetto, Il faro: non sapevo bene cosa fare, mi sembrava che non andasse bene per nessuna casa editrice, eppure sentivo la necessità di realizzarlo. All’epoca un mio amico iniziò a lavorare con Astiberri Ediciones nella grafica, realizzava le copertine e impaginava i libri. Così mi parlò di Astiberri: mi diceva che era una casa editrice nuova, che stava facendo cose molto interessanti, di graphic novel, e quindi pensai che potesse essere adatta per Il faro. Gli offrii il fumetto, a loro piacque ed è in quell’occasione che li conobbi. In Spagna tuttavia era un periodo in cui era ancora molto difficile vendere: i fumetti si potevano incontrare solo nelle librerie specializzate e un fumetto come Il faro non quadrava del tutto nella produzione di fumetti dell’epoca – passò quindi abbastanza inosservato e vendette molto poco. Decisi quindi di dimenticarmi di Astiberri e tornare al mercato internazionale e alla Francia e iniziai a lavorare con Delcourt. E solo dopo, quando Rughe stava già vendendo bene, in Spagna venne pubblicato da Astiberri. Nel frattempo, il mercato iberico era abbastanza cambiato e i fumetti si potevano incontrare ovunque. Ora pubblico con Delcourt che però compra i miei diritti dalla Spagna, mentre lavoro direttamente per Astiberri. E curiosamente Il faro – che sul momento non si era venduto quasi per nulla – a partire da Rughe si iniziò a vendere. Del resto, il mercato è cambiato molto negli ultimi anni.

Negli scorsi mesi l’IVAM di Valencia ha ospitato la retrospettiva El dibujado, in cui hai approfondito il tema della creazione artistica, un tema già trattato anche ne Il bivio, l’ultimo tuo fumetto pubblicato in Italia. Che esperienza è stata realizzare una mostra passando dalla creazione su carta allo spazio delle pareti di un museo? Senti la necessità di tornare sul tema del processo creativo?
Fu molto interessante. Nel 92 % (Sic) dei casi i musei che – sempre più – scommettono sul fumetto, quasi sempre lo fanno in una forma che mi sembra “sprecare” il mezzo: come appendere alle pareti originali del fumetto, che può essere molto interessante per analizzare il processo del lavoro, ma è assurdo come esporre il manoscritto di uno scrittore o il fotogramma di un film. È interessante, ma non è né un romanzo né un film. Allo stesso modo, il valore in sé di un fumetto non sono le sue pagine separate, non è la qualità artistica degli originali, è tutto l’insieme e quello che ti racconta la storia. Si trattava quindi di trovare nuove forme per far sì che il fumetto fosse presente nei musei.
Quello che pensai fu quindi di approfittare di un nuovo supporto per realizzare un fumetto. Se ci pensi, nell’arco della storia del fumetto il suo linguaggio si è evoluto proprio a partire dai formati. Quando per esempio veniva pubblicato sui quotidiani, graficamente e narrativamente si era sviluppato affinché funzionasse in quel modo: con il “continuerà” e la prima vignetta della storia successiva che doveva fare un riassunto della precedente, con uno stile grafico che si potesse riprodurre bene con le limitazioni della stampa tipografica dei quotidiani. Quando poi si passa ai comics-book si sviluppa un altro formato, perché improvvisamente l’autore non è più incarcerato nelle strisce: ora ha una pagina per raccontare la sua storia. Quando appaiono le riviste, avviene lo stesso: sono storie di 4, 5, 8 pagine, con le quali realizza un’altra forma di narrare. E quando queste si raccolgono e si passa all’album, prima si ripubblicano tali e quali. A quel punto c’è chi pensa: perché non faccio direttamente una storia per il formato album? Quando appare il formato della graphic novel, lo stesso. I diversi supporti hanno sempre fatto evolvere il linguaggio del fumetto. E cosa succede quando esci dalla carta e vai sulle pareti, cosa avviene al linguaggio in quel momento? Perché non è lo stesso linguaggio della carta, ora hai uno spazio tridimensionale. Dovevo quindi vedere cosa offre e come si legge una parete: normalmente un fumetto lo leggi da seduto, o tranquillo in qualche posto, ma sempre nella tua intimità. In questo caso lo vai a vedere con altra gente e mentre cammini e dovevo tenere conto di tutto questo. Pensai per esempio che se avessi posto del testo, molta gente si sarebbe fermata in un punto, e decisi così di non inserire nessun testo nella storia. Del resto, pensavo, così come in un fumetto convive e funziona una doppia pagina, allo stesso modo qui dovevo capire come funzionava l’insieme: entri in una sala e vedi subito le quattro pareti, vedi come convivono tutti questi elementi insieme. Devi tenere in considerazione anche altri elementi e ti rendi conto delle quantità e qualità di possibilità offerte nell’utilizzare il fumetto in uno spazio tridimensionale. Alla fine è stato un esperimento, ti rendi conto che è un supporto che dà infinite possibilità.

Il panorama attuale del fumetto iberico è molto interessante, con autori come David Rubín, Marcos Prior, Bartolomé Seguí, che hanno visto pubblicati loro lavori anche in Italia. Ci sono autori spagnoli che vedi particolarmente adatti per il lettore italiano o internazionale, e che vorresti pubblicati all’estero?
Non capisco mai perché alcuni autori funzionano meglio in alcuni paesi e in altri no, non sai mai se è il gusto del lettore a essere differente o se dipende dall’opera con cui iniziano a essere pubblicati … Però mi sembra che in questo momento in Spagna ci sia una quantità di autori enorme. A parte autori come David Rubín, Bartolomé Seguí, Antonio Altarriba, Kim, Keko, cioè i grandi di sempre, adesso c’è in particolare una grande quantità di autrici.
Come anche la vincitrice del Premio Nacional de Cómic 2018.
Ana Penyas, sì. Però hai davvero moltissime autrici attualmente… Ana Galvañ, per esempio, che sta facendo molto cose sperimentali. Autrici che hanno una visione che forse finora non avevamo, femminile, necessaria anche nel mondo del fumetto.

In Spagna si stanno venendo a creare varie opportunità per studiare e approfondire il fumetto, nelle università (con convegni accademici o con l’apertura della Cátedra de Estudios de Cómic di Alvaro Pons) e nei musei (basti pensare alle varie esibizioni all’IVAM, al Reina Sofía di Madrid, o anche alla stagione di mostre inaugurata al MNAC di Barcellona con una retrospettiva proprio su El Víbora). Da autore che ora viene “studiato” in università e musei, ma che viene dal periodo del fumetto popolare nelle edicole, come stai vivendo questo cambiamento?
Credo che tutte queste cose confermino che è un grande momento per il mondo del fumetto, o per lo meno che già si è normalizzato il mondo del fumetto. Noi che siamo interni al mezzo abbiamo sempre pensato che avesse piena dignità e che al suo interno si potesse parlare di qualsiasi cosa. Nessuno di noi lettori di fumetti ha mai pensato che fosse inferiore a qualsiasi altra disciplina, ma è vero che ciò che dà onorabilità a un mezzo è che ci siano studi dedicati: che ci siano saggi, che ci sia una storia. Finora c’erano fumetti, ma c’erano ben pochi saggi, praticamente il fumetto non esisteva nelle università, non c’erano cattedre accademiche, non c’erano studi, mentre già succedeva per il cinema – dove hai una letteratura – o nell’arte in generale, nelle arti plastiche… Ciò che per me mancava nel mondo del fumetto era che si convertisse per le persone estranee al mezzo, in qualcosa di serio con una base al di là del puro intrattenimento. Questi sono gli elementi che inseriscono un mezzo tra l’autorevolezza delle altre discipline.

Paco Roca ed Emanuele Di Giorgi durante la nostra intervista

Ormai sono diversi anni che sei pubblicato nel nostro Paese, quasi sempre con la casa editrice Tunué. In questo periodo hai notato un cambiamento nei lettori italiani e nella nostra industria del fumetto?
Sì, in molti sensi. Non conosco tanto il mercato italiano, però è vero che dieci anni fa quando iniziammo a pubblicare in Italia c’era un mondo che continuava a esistere, quello delle edicole, di Bonelli, che funzionava bene, che tuttavia era un po’ estraneo rispetto al resto del mondo del fumetto – rispetto per esempio a ciò che era la graphic novel. La BD francese funziona in Italia come funziona in Spagna, ossia solo per una tipologia di lettore molto determinato, da sempre lettore di fumetti: ma con questi lettori non puoi far crescere un’industria. Era necessario che apparissero autori italiani, e da un po’ di tempo a questa parte hanno iniziato ad apparire. Certo c’erano quelli di sempre, Giardino, Mattotti, ma che si avvicinavano di più al mercato francese, non adatti a raggiungere un pubblico generalista, che era quello che mancava e che anche in Spagna siamo riusciti a raggiungere. Autori come Gipi o come Zerocalcare hanno ottenuto questo: aprire il mondo del fumetto a un tipo di pubblico che fino a poco tempo fa ne era estraneo. Anche in Spagna è successo con molti autori e mi sembra che sia l’unico modo possibile affinché l’industria di un paese prosperi, perché soltanto con la vendita di diritti è molto difficile. Per esempio credo che Tunué sia un buon modello di casa editrice, che ha seguito l’evoluzione del fumetto in Italia e a livello mondiale. Scommette su un tipo di fumetto più d’autore, verso tutti i tipi di pubblico, allo stesso tempo puntando maggiormente su una propria produzione. Nel caso della Spagna, una casa editrice come Astiberri è passata da non tenere autori spagnoli a pubblicare più autori nazionali che stranieri. Nel caso di Tunué, è lo stesso. Mi sembra che questa sia la direzione corretta, che permette di scoprire nuovi autori, scommettere su di loro e creare un’industria. Il passaggio successivo è quello di vendere i diritti di questi autori fuori dal proprio paese, di esportarli. Sono i passi che deve seguire una casa editrice non solo per essere professionale, e continuare a vivere, ma per far crescere tutta l’industria. Se il tuo editore non vive di quello che fa, è molto difficile che riesca a viverci tu autore.

Come vedi il panorama del fumetto underground iberico attuale? Vedi un rapporto tra la produzione de El Víbora e gli autori più giovani?
Sì, anche se nel mondo del fumetto – soprattutto in paesi come Spagna o Italia – differenziare l’underground dal mainstream è molto difficile. La linea è molto sottile; per esempio io sono uno degli autori che vende di più in Spagna però mi considero fumetto d’autore, non mi considero commerciale o mainstream. Credo di essere più vicino all’underground che al fumetto commerciale. È tutto un po’ confuso. Però è vero che ci sono molti autori underground, se con questo intendiamo quelli legati all’auto-produzione.

Per esempio c’è un contatto tra il mondo passato delle riviste e questi autori? C’è un’influenza?
Credo ci sia in un certo modo l’intento di rivivere lo spirito degli anni Ottanta, sia esteticamente che nel riscattare il formato della rivista, che era un buon formato per iniziare e per poter esplorare cose che in un libro non puoi fare. Nelle riviste, le storie corte erano una buona opportunità. Ci sono collettivi che continuano a fare riviste, con risultati molto freschi. E per tornare a quello che dicevamo prima, moltissimi di questi autori sono ragazze, con una visione totalmente diversa da quella che avevamo noi negli Ottanta, che era a volte troppo maschile – nelle tematiche come nel ruolo delle donne nelle storie, come nello stile grafico, con un tipo di disegno sempre molto definito. Inoltre realizzare un lavoro autoprodotto è adesso molto più economico rispetto agli anni Ottanta, all’epoca delle riviste: allora dovevi fare fotocopie, adesso puoi avere una qualità professionale incredibile.

Per finire, prossimi progetti: stai lavorando a un nuovo fumetto?
Sì, sto lavorando a un nuovo fumetto. Dato che cerco sempre di cambiare con ogni nuovo progetto, questo è in contrapposizione al precedente: quello che ho terminato un annetto fa, El tesoro del Cisne Negro, era meno personale. Era una storia reale a me estranea, che mi raccontò un diplomatico.

Quella che Tunué pubblicherà a maggio, per il Salone del Libro di Torino.
Sì, esatto. Dopo quella iniziai a desiderare di realizzare tutto il contrario, una storia personale. Adesso ho terminato la sceneggiatura e devo iniziare lo storyboard.
È una storia su di una fotografia. Mia madre tiene solo una fotografia con sua madre, perché morì molto giovane ed erano una famiglia molto umile, nel pieno del dopoguerra spagnolo dove c’era moltissima miseria. Ha quindi solo questa fotografia, a cui è sempre stata molto affezionata, e da quando ero piccolo ricordo che la teneva sempre al lato del letto, sul comodino. La storia riflette su questa fotografia: perché è importante per lei, come era quel giorno in cui venne scattata… Uso questa fotografia un po’ come scusa per parlare di varie cose.

Altri progetti come la mostra all’IVAM?
Per il momento no, ma ci sono alcuni progetti cinematografici. Per esempio, la serie tratta da El tesoro del Cisne Negro che sarà diretta da Alejandro Amenábar. In realtà non so quanto sarò coinvolto nel progetto e la verità è che non ne ho neanche molta voglia; al mondo del cinema devi dedicare tanto tempo e non puoi controllarlo quanto puoi controllare un fumetto. Ciò mi esaspera un poco, dedicarsi a un progetto che magari poi si risolve in niente o che è molto diverso da quello che pensavi. Ci sono vari progetti in ballo, ma non ho molto interesse nel venirne coinvolto.

Ringraziamo Paco per la sua disponibilità, Emanuele Di Giorgi per l’organizzazione dell’intervista e lo staff de Il Castoro per averci accolto nella sua sede milanese per la nostra chiacchierata. Grazie anche all’IVAM – Institut Valencià d’Art Modern per averci permesso l’uso della foto di copertina, scattata all’interno della mostra El dibujado.

Intervista realizzata dal vivo a fine settembre 2019.

Paco Roca

Se il fumetto iberico avesse un ambasciatore all’estero, sarebbe sicuramente lui: Paco Roca. Valenciano (annata 1969), Paco ha percorso la gavetta di molti fumettisti suoi connazionali: pubblicazioni di storie brevi su riviste quali El Víbora y Kiss Comix, illustrazioni e lavori per la pubblicità, fino all’esplosione a metà anni Novanta con il successo di Rughe (Arrugas), prima pubblicato in Francia e poi diventato un inarrestabile successo di critica e di pubblico in patria e non solo. Pochi altri autori spagnoli possono vantare trasposizioni animate tratte dalle loro opere o serie televisive in live action, come quella in produzione per la regia del Premio Oscar Alejandro Amenábar dedicata al suo ultimo lavoro, El tesoro del Cisne Negro.

Clicca per commentare

Rispondi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *