Da ieri abbiamo detto addio al nostro scarabocchio quotidiano. Agli scarabocchi, anzi, dal momento che erano quasi sempre più d’uno, considerata l’incontinenza del loro autore. Il quale da decenni li disseminava un po’ qui e un po’ lì ma, da qualche tempo, quasi esclusivamente sul “Foglio” del suo vecchio sodale Giuliano Ferrara. E ciò per una ragione semplice: per lui, Vincenzo Gallo in arte Vincino, scomparso ieri a Roma all’età di 72 anni dopo lunga malattia, di spazi ce n’erano sempre di meno.
Con la morte di Vincino, del resto, ci saluta un ennesimo pezzo di Novecento, quantomeno di Novecento italiano. Parliamoci chiaro: Vincino era ormai una figura anacronistica, fuori dalla propria epoca. Il che era un motivo in più per guardarlo con affetto e simpatia. Addirittura per volergli bene, malgrado tutto (e vedremo a breve cosa sia questo tutto). Poco conta che, con le sue vignette sghembe e i suoi disegni che parevano usciti da un rocchetto di filo miracolosamente srotolatosi in modo da produrre figure comunque intelligibili (perché sapeva disegnare, in realtà), Vincino pedinasse l’attualità in maniera quasi ossessiva, cercando di restituire – a forza di schizzi e schizzetti affiancati da frasi e dialoghi che erano tranches de vie (di vita parlamentare, essenzialmente) molto più che vere battute – tutto quello che i suoi occhi e le sue orecchie captavano aggirandosi nelle aule di Montecitorio o nei loro immediati dintorni.
Da tempo, Vincino pedinava qualcosa che non c’è più: appunto la politica dei palazzi, o meglio del Palazzo, con la P rigorosamente maiuscola, il potere al tempo stesso inavvicinabile e visibilissimo, sprezzante ma concretissimo, della Prima Repubblica e di quel suo prolungamento, ormai definitivamente archiviato, che siamo soliti chiamare Seconda Repubblica. Il nuovo e sfuggente potere fondato sulla forza persuasiva degli slogan via social, sul populismo esaltato dal web, il potere fintamente autoconsegnatosi nelle braccia della gente, Vincino lo capiva poco e gli piaceva poco. Lo spiazzava. E soprattutto non sembrava divertirlo, così sfuggente e impalpabile, così poco disegnabile.
Sì, divertirlo, perché una delle molle fondamentali di Vincino, che in questo era davvero figlio del ’77 (ben più che del ’68: del resto nel ’77 aveva trent’anni, era cioè nel pieno della giovinezza adulta), era il divertimento, lo sberleffo. E il desiderio, da rinfocolare e ravvivare di continuo. L’unica sua bussola è stata fare come gli pareva. Sempre. E sempre dimostrando un formidabile fiuto nell’individuare le situazioni che glielo avrebbero consentito. Fare come gli pareva e, aspetto non meno importante, come gli conveniva. Perché bisogna dirlo, e veniamo così al “tutto” di cui sopra: Vincino è stato un gran paraculo.
Non è un’osservazione solo nostra, ma anche di Ferrara, che nella sua introduzione a Mi chiamavano Togliatti, la recente autobiografia del disegnatore (segno della necessità di procedere a qualche bilancio esistenziale), scrive: «ha la faccia come il culo della satira, se ne impipa di tutto e della bella figura prima di ogni altra cosa. Il suo completo disinteresse si rovescia nell’ironia dell’avidità, si dispera come Leporello per la sua mesata». In effetti, alla prima paraculata, strappare la laurea in architettura, nella natia Palermo, spacciando come un suo progetto originale la pianta dell’Ucciardone, Vincino ne farà seguire molte altre, riuscendo sempre a ritagliarsi un posto al sole, di solito ben remunerato, anche quando i suoi colleghi rimanevano al palo.
Dicendosi anarchico e contro ogni forma di potere, di qualunque colore fosse, e con il suo aspetto stropicciato da eterno bohémien, Vincino si è permesso qualunque cosa, dalla lunga esperienza al giornale di Lotta Continua diretto dal fraterno amico Adriano Sofri al coordinamento de “Il Male”, per approdare poi senza problemi a mille altre testate, tra cui il “Cuore” di Michele Serra ma anche il cattolico “Il Sabato”, il borghese “Corriere della Sera”, il “Panorama” berlusconiano e, lo si è detto, l’aristocratico “Foglio”.
Sua ancora di salvezza fino all’ultimo giorno, in un’era in cui, in Italia, la satira di professione, tranne una manciata di dinosauri magari bravissimi ma prossimi a estinguersi, non se la può più permettere nessuno. Forse nemmeno un paraculo di genio come lui.
Articolo originariamente pubblicato da “Libero” del 22 agosto 2018