Sono le onde a impedire che i mari siano semplicemente delle enormi pozzanghere.
(David Foster Wallace, The girl with curios hair)
Nell’ambito delle graphic novel sono molti gli autori che, soprattutto agli esordi, decidono di dar sfogo alla propria urgenza creativa raccontando esperienze personali anziché dedicarsi al racconto di fiction. Che sia una narrazione incentrata sulla quotidianità oppure che verta su eventi traumatici, è comunque la vita stessa a dare l’impulso a scrivere. E così è stato anche per AJ Dungo, illustratore californiano di stanza a Los Angeles (ma nativo della Florida) che nel suo A Ondate adempie a una promessa fatta alla sua ragazza Kristen raccontando quanto di più intimo gli appartenga: il loro reciproco amore.
E se da una parte l’autore ci accompagna alla scoperta di lei, della sua ossessione per il surf e della malattia che l’ha travolta prematuramente, dall’altra è la storia del surf come disciplina sportiva ad essere protagonista del volume: dalle sue origini, quando era praticato dai polinesiani sulle coste delle isole Hawaii, al racconto delle vicende di personaggi quali Duke Kahanamaku, considerato il padre del surf moderno, e Tom Blake che di questa disciplina perfezionò caratteristiche e tecnica.
Il surf funge dunque da filo conduttore del racconto e, se per Kahanamoku e Blake rappresentava l’occasione per affermare una propria identità culturale ed esercitare una libertà inviolabile, per Kristen, costretta da un corpo malato a letto e senza la possibilità di surfare come amava fare, assume il ruolo di catarsi dai dolori della vita e valvola di sfogo di una ricerca di libertà che si concretizza nel rapporto con l’oceano e quindi con la natura.
Ma il surf è anche la perfetta metafora, nella sua alternanza di momenti di attesa e adrenaliniche acrobazie, delle evoluzioni dei sentimenti e delle passioni dei protagonisti, come ci viene mostrato in una serie di flashback riguardanti l’incontro e l’innamoramento di AJ e Kristen. Proprio l’amore è la chiave che permette a Dungo di salire sulla tavola e vincere la paura dell’acqua mentre è il coraggio di Kristen a motivarlo persino di fronte all’ineluttabilità della morte, facendogli scoprire nel dolore della perdita le incredibili opportunità della vita.
Lo stile di Dungo è minimalista, più attento alle forme che al realismo, incurante dei colpi di luce e delle sfumature bensì dominato dall’outline e da campiture nette. Evocativa è la scelta dei colori: i caldi toni di seppia per ripercorrere le tappe della storia del surf, come a richiamare la trama del legno di cui è fatta la tavola, e un malinconico blu-acqua per raccontare le vicende personali.
Nelle tavole paesaggistiche Dungo si dimostra abile illustratore. Il suo oceano, come il legname da cui i polinesiani ricavavano le prime tavole da surf, viene solcato da venature che lo rendono materico, solido e al contempo vivo e in movimento. Funzionale al rapporto di sudditanza uomo-natura è la scelta di rappresentare l’oceano e le montagne e ogni altro elemento naturale come spazi enormi di cui le figure umane sono minuscoli abitanti.
Al contrario, i paesaggi urbani, nella loro austerità, contribuiscono a definire quel senso di alienazione che è anche il leitmotiv delle tavole ambientate in ospedale, nelle quali Dungo, anziché delimitare lo spazio disegnando le pareti della stanza, ricorre a tinte piatte di colore scuro esaltando per contrasto le figure e acuendo quel senso di solitudine che chi affronta malattie terminali è costretto a vivere.
Se i paesaggi sono il punto forte di Dungo, nella caratterizzazione fisica dei personaggi l’artista californiano mostra delle carenze, soprattutto nelle espressioni dei volti che, quando ripresi frontalmente (non è un caso che spesso diano le spalle al lettore), rivelano un tratto naif misto di semplicità e candore. I corpi sono al contempo sinuosi, sciolti, modellati come a volersi fondere con le onde su cui cavalcano la tavola da surf; e se da un punto di vista meramente figurativo le tavole acquistano un loro equilibrio e piacevolezza, chi guarda al realismo delle proporzioni e della prospettiva potrebbe storcere il naso.
Il modello di riferimento è, per stessa ammissione di Dungo, il lavoro di Adrian Tomine, californiano anche lui, e come lui illustratore, considerato tra gli esponenti di spicco del fumetto autobiografico americano. Del suo stile, oltre alla semplicità del tratto, riprende l’uso sapiente dei ‘silenzi’, quel «non detto» che dà modo al lettore di ricostruire il senso della vicenda senza sentirsi imbeccato dall’autore. L’opera di Dungo è volutamente priva di qualsiasi onomatopea, e anche i dialoghi spesso lasciano il posto agli sguardi e alle pose dei protagonisti, sufficienti a testimoniare gli stati d’animo meglio di quanto possano fare le parole, rendendo giustizia al fumetto come medium di spicco in quanto a capacità di generare empatia nel lettore.
Il titolo A Ondate (in inglese, In waves) è un diretto riferimento all’andamento dell’onda che si avvolge e si ritira, un movimento che guida da sempre i surfisti, cullandoli e contemporaneamente sfidandoli, ma che nel caso di AJ Dungo è qualcosa di ancora più profondo: il ricordo della passione di Kristen e del dolore lasciato dalla sua scomparsa. Un dolore che si presenta così, ad intermittenza, a ondate e che l’autore sa di poter affrontare, non seduto davanti a una scrivania a disegnare, bensì solcando l’oceano in piedi su una tavola. Perché se l’arte gli permette di esprimere il bello della vita è comunque il surf, unico e reale protagonista dell’opera, a consentirgli di viverlo.
Abbiamo parlato di:
A Ondate
AJ Dungo
BAO Publishing, luglio 2020
Traduzione di Michele Foschini
376 pagine, brossurato, tricromia – 21,00 €
ISBN: 978-88-3273-473-7