Swamp Thing, la Cosa della Palude. Che nostalgia. Ricordo ancora la prima volta che misi piede nella sabbie mobili della Louisiana infestate dal fantasma di Alec Holland, durante un’estate dei primi anni ’90 grazie ad una testata contenitore della Comic Art comprata quasi per caso. Editata così così, tradotta sbrigativamente ma dotata di una potenza visionaria e drammatica semplicemente inimmaginabile: merito, ovviamente, dei signori Alan Moore e Steve Bissette, che avevano ripreso un vecchio personaggio DC per trasformarlo nel protagonista di una delle epopee esistenzial-orrorifiche più riuscite di tutti i tempi.
Swamp Thing – Genesi Oscura, lussuoso volume cartonato tradotto da Margherita Galletti, presenta l’origine del mito: le primissime storie di Swamp Thing, così come le avevano scritte e disegnate i creatori della Cosa della Palude, i grandi Len Wein e Bernie Wrightson, all’inizio degli anni ’70.
La storia è nota: Alec Holland, ricercatore scientifico, trasferitosi con l’amata moglie Linda in un laboratorio presso una palude per eseguire una serie di esperimenti su una “fomula bioristoratrice”, si ritrova nel mirino di una misteriosa organizzazione intenzionata ad impadronirsi delle sue scoperte. La resistenza di Holland a collaborare con i gangster ha conseguenze tragiche: Linda viene uccisa e Holland coinvolto nell’esplosione di una bomba. Il corpo carbonizzato dello scienziato, a contatto con la formula e le acque del pantano circostante, subirà una mutazione che lo trasformerà in una gigantesca e goffa creatura vegetale, fortissima e quasi invulnerabile, la quale inizierà un lungo viaggio – sia interiore che sul piano concreto – per vendicare la morte della moglie, riacquistare la sua vecchia identità e mantenere una parvenza di umanità in un’esistenza sempre più crudele ed inumana.
Togliamoci subito il pensiero: Wrightson è immenso, colossale, grandioso. Tavole dotate di una fisicità quasi malata, corpi e volti da film espressionista. Tipico horror all’americana, concentrato più sulla decadenza fisica e sulla deformità che sulle atmosfere rarefatte e sottili degli europei. Il mondo di Swamp Thing è fatto di umori liquidi, puzza, smembramenti e marciume, e graficamente rappresenta bene la concezione del genere di quegli anni.
E qui viene l’inghippo. Moore ha fama, meritata, di restauratore di personaggi senza speranza: i lettori di Supreme non possono trattenere un brivido quando pensano a cosa fosse il personaggio prima della cura del bardo di Northampton. Conoscendo la run storica di Moore su Swamp Thing, a un non collezionista verrebbe da chiedersi: come posso, dopo aver letto quella gestione, provare interesse per un personaggio tutto sommato minore, nato nel 1970 e come tale soggetto alle mode, alle censure e soprattutto alla prosa di quegli anni? Non si tratterrà di un oggetto invecchiato male, buono giusto per gli appassionati?
Risposta: sì, l’opera di Wein è figlia del suo tempo. Ma questo non è un difetto. E non solo perché le didascalie enfatiche e roboanti sono il complemento, perfetto e leggibilissimo, ai disegni di Wrightson, ma perché Wein ha avuto il merito (e forse anche la fortuna) di creare Swamp Thing in un preciso momento della storia dell’intrattenimento americano, quando il genere horror cominciava ad evolversi dalle sue ascendenze letterarie (Poe e Lovecraft in primis) ad una concezione più moderna ed inserita nella società, sensibile alle fobie dell’uomo comune.
Non è un caso che la primissima storia della Cosa della Palude – un brevissimo episodio di cui non è nemmeno protagonista Alec Holland, quasi un prototipo della serie regolare – sia comparso nell’antologico House of Secrets, che si poneva nel solco scavato, già a partire dagli anni ’50, dal classico fumetto della EC comics Tales From The Crypt, che avrebbe dato vita a moltissimi epigoni, alcuni destinati ad una certa fama anche in Italia, come Zio Tibia. I Racconti della cripta, spesso aventi come protagonisti turpi assassini e delinquenti, si basavano su un presupposto molto semplice, e cioé che i malfattori potevano sì sfuggire alla giustizia umana, ma non ad un contrappasso soprannaturale: gli uxoricidi sarebbero stati strangolati dai fantasmi delle mogli, i ladri sarebbero incorsi nelle maledizioni gravanti sugli oggetti rubati, e così via.
Il primo Swamp Thing è, analogamente, un dolente zombi vegetale determinato esclusivamente a vendicarsi del proprio assassino, e la cui storia si esaurisce nel giro di una manciata di (efficaci) pagine.
Ma già nel secondo episodio, il primo con la Cosa della Palude “ufficiale” e successivo al precedente di qualche anno, la musica cambia. Se l’inizio della saga deve molto all’horror fumettistico tradizionale, il seguito è una sintesi perfetta di terrori passati e presenti, e spesso clamorosamente in anticipo sui tempi. Compare, appena appena sotto mentite spoglie, il mostro di Frankenstein; ma il suo punto di vista, drammatico e dolente, anticipa quello dei non morti moderni. È presente un mostro lovecraftiano, ma con strani ed inquietanti connotazioni cancerose e corporali: e di lì a qualche anno, David Cronenberg avrebbe iniziato la sua opera sulla mutazione della carne e su forme di vita mutanti (anticipate anche nei mostriciattoli al seguito della nemesi di Swamp Thing, il negromante Arcane, che sembrano i mostri del cronenberghiano The Brood). C’é una città popolata da automi, come nel film Il mondo dei robot del 1973, e un mite invasore dallo spazio incompreso e osteggiato da uomini comuni mostruosi e fanatici…
Swamp Thing è una sorta di atlante della storia dell’horror a stelle e strisce. Tutte le influenze orrorifiche, tutte le inquietudini che erano e che sarebbero state, trovano qui la loro collocazione. Dalla paura letteraria dei tempi che furono, alle ambiguità del tempo presente, fino agli orrori futuri; in questo senso, è a dir poco indimenticabile l’ultimo episodio (che Moore avrebbe omaggiato nella sua run facendone quasi un remake), incentrato sul ritorno in vita di alcuni schiavi neri caduti sotto il giogo dei loro padroni, mostri non morti ma anche e soprattutto vittime, assetati di vendetta ma anche di giustizia, anticipatori degli zombi di Romero e spettri di un’America che in quegli anni cominciava a scoprire nelle sue pieghe nascoste le mostruosità che aveva fino ad allora attribuito ad entità esterne. Una filosofia che avrebbero fatto propria Tobe Hooper, Wes Craven e John Carpenter, e le cui radici, forse, affondano anche nel fetido terreno di una sperduta palude della Louisiana.
Riferimenti
Sito di Bernie Wrightson: www.wrightsonart.com
Planeta DeAgostini: www.planetadeagostinicomics.it
Len Wein su wikipedia in inglese: Len Wein