In «Lilith», all’interno di una serie che ha una parabola narrativa che si concluderà tra diversi numeri, ogni episodio racconta una storia a sé stante legata a un preciso contesto storico. Quasi fossero racconti slegati uno dall’altro. Una scelta impegnativa.
Anche perché non mi porto dietro comprimari dato che la protagonista abbandona chiunque incontri per saltare, nell’episodio successivo, in un’epoca storica differente. E infatti una delle critiche che mi arrivano verte sull’assenza di personaggi secondari. È una serie strutturata in questa maniera e, come «Gea», a un certo punto cambierà, avrà un giro di boa. Anche «Gea» all’inizio, se vogliamo, era strutturata per storie singole in una ambientazione urbana; a un certo punto, però, si trasformò in una storia ampia con diversi personaggi, con un “continua” alla fine di ogni puntata. Se ci ragioniamo, per un lettore non è gratificante dover aspettare sei mesi per sapere come prosegue la storia. Non è proprio il massimo per un semestrale, ma penso che la serie abbia potuto reggere il cambiamento proprio perché un bacino di lettori me li ero già conquistati.
Con «Lilith» si avrà una cosa di questo tipo: la protagonista smetterà di viaggiare nel tempo perché si creerà una grande ucronia – che pian piano si va formando – che la porterà nel passato in cui si collocheranno gli ultimi episodi. Mentre Gea all’inizio era molto ridanciana e terminava molto seriosa, in Lilith magari sarà il contrario: a una partenza cupa e violenta seguirà un alleggerimento della personalità e una sua rifioritura conseguente alla possibilità di intrecciare rapporti umani duraturi.
Per il tono delle storie di «Sprayliz» e «Gea» ho sempre pensato che l’autore probabilmente si stava divertendo a realizzare quei fumetti, proprio come mi divertivo io a leggerli. Con «Lilith», che ha un’atmosfera abbastanza cupa e disperata, non ho più questa sensazione.
È diverso. Mi diverto meno nel creare situazioni divertenti, gag, nell’inserire citazioni da ciò che leggo, che sento, che vedo. Tutto ciò che mi circondava, che mi piaceva e che trovavo stimolante lo potevo riversare all’interno di «Gea», e ciò era molto gratificante. Realizzare «Lilith», invece, è estremamente impegnativo perché devo creare dei mondi che non sono i miei, anche se comunque verosimili e storicamente abbastanza attendibili. E quindi il mio approccio è completamente diverso. Probabilmente avevo l’esigenza di un cambiamento di questo tipo e di raccontare una storia in cui la protagonista ha la consapevolezza di vivere in un mondo cupo e terribile.
Ho apprezzato molto l’episodio della Grande Guerra soprattutto per la volontà di sporcarti le mani con la Storia d’Italia recente. Se mi permetti il parallelo, mi sembra un po’ quello che ha fatto Gianfranco Manfredi col suo «Volto nascosto»; entrambi avete usato il racconto avventuroso per parlare di avvenimenti storici di cui il fumetto italiano sembra non volersi interessare, quasi fossero tabù. Inoltre, la tua è una visione critica di quel pezzo di Storia d’Italia in cui i militari italiani non ne escono molto bene.
Se quelle vicende le conosci non puoi che raccontarle in quella maniera. Altrimenti fai finta che sia stata tutta un’altra cosa. Dei precedenti nel cinema ce ne sono, come Uomini contro, La Grande Guerra, ma in generale è un contesto storico che a livello nazionale non viene frequentato e non solo dal fumetto. Non c’è la consapevolezza di quello che ha passato certa gente, di come si è trasformato il nostro esercito, della nostra brutta abitudine di andarci a imbarcare in queste imprese belliche senza sapere dove si sta andando e cosa si sta facendo. È una cosa che ho sempre voluto raccontare e «Lilith» me ne ha dato l’occasione. Ad esempio, mi piacerebbe raccontare l’occupazione italiana della Tripolitania, della Libia, ma è un argomento ancora più delicato, nel senso che si deve poi parlare dell’esercito fascista. Oltretutto, quando non vedi in giro racconti di questo tipo è naturale che ti venga voglia di raccontare questi episodi, andando a spolverare gli angoli oscuri della nostra Storia, quelli che non vengono, colpevolmente o meno, menzionati nei libri.
So che stai realizzando un fumetto per Rizzoli-Lizard.
Sì, La Banda Stern, assieme a Claudio Stassi, il disegnatore di Brancaccio. È una storia che parla delle bande paramilitari terroristiche ebraiche nella Palestina del mandato britannico, negli anni che vanno dal 1940 al 1948, gli anni precedenti allo stato di Israele. Anche questo è un periodo di transizione estremamente interessante e pochissimo frequentato se non da certe produzioni cinematografiche, come Exodus di Otto Preminger che però è un po’ all’acqua di rose, ma che soprattutto sostiene delle falsità storiche assolute. Recentemente ho visto un altro film meno sbilanciato verso le posizioni sioniste che si intitola O’ Jerusalem.
Il fumetto che stiamo realizzando, in parole povere, è la ricostruzione storica di quella che gli Inglesi chiamavano la Banda Stern (il cui vero nome era Lehi) dal nome del fondatore Avraham Stern, tra le più estremiste di tutte le organizzazioni paramilitari che operavano in quell’epoca in quel pezzo di terra, più a destra dell’Irgun che già era nato da una scissione dell’Haganah, la forza di difesa dei coloni sionisti. Questo gruppo terrorista è interessantissimo perché venne continuamente sconfitto dagli inglesi, che ne uccisero il leader, e scompare e riappare negli anni come un fiume carsico. È curioso sapere che queste figure di terroristi sono poi diventate parte integrante e pilastri del nuovo stato di Israele. Dico terroristi perché quella era gente che metteva bombe e ammazzava. Certo, possiamo trovare tutte le scusanti ideologiche possibili, ma se ragioniamo così a quel punto varrebbero per chiunque.
Un argomento delicato e controverso, come ogni cosa che riguarda Israele.
Potrei ironicamente dire che hai scelto un tema leggero.
Sì, e vediamo un po’ come va a finire! Alla Rizzoli è piaciuto subito. Era un progetto che avevo in cantiere da molto tempo e sarà pubblicato in co-edizione tra Rizzoli-Lizard per l’Italia e Norma Editorial per la Spagna. Sono abbastanza fiducioso che una storia di questo genere possa interessare anche altri Paesi.
Perché scegliere di raccontare fatti avvenuti in Israele così tanti anni fa?
La spinta a realizzare storie di questo genere deriva dal gusto di andare a scovare cose che nessuno racconta. Ma prima di tutto viene la mia curiosità: non conosco una tale vicenda o fatto storico, ne ho solo sentito parlare e mi chiedo come si è arrivati a quel punto. Allora comincia un lavoro di ricerca, di approfondimento e di documentazione storiografica. Spero nel mio piccolo che questo libro, e tutto il lavoro che sta dietro, sia utile perché il più ampio numero di persone venga alla conoscenza di fatti che in realtà coinvolgono e influenzano tutti.
Hai calcolato il rischio che una storia del genere tocchi qualche nervo scoperto?
Per forza, anche se, come ho spiegato, lo scopo del fumetto non è creare uno scandalo.
È certo che nella grande comunità ebraica statunitense, molto conservatrice e a destra, e in Israele molti considerano queste figure dei patrioti e degli eroi, ma per me erano dei terroristi, anche se non mettevano bombe in mezzo alla gente come faceva l’Irgun. I membri del Lehi – tra cui c’era anche Shamir, futuro Primo Ministro israeliano – compivano quelli che oggi si definiscono “omicidi mirati”, cioè andavano a uccidere gli Inglesi o i collaborazionisti ebrei che magari militavano nella polizia palestinese. L’unica volta in cui uccisero indiscriminatamente dei civili fu durante l’assalto al villaggio arabo di Deir Yassin. Insomma era una banda di assassini, alla fine, con una determinazione e una tenacia agghiacciante, ma assassini rimangono.
Abbiamo Parlato di:
Luca Enoch
La via del fantasy tra graffiti e viaggi nel tempo
di Alberto Casiraghi
Coniglio Editore, 2010 – 64 pagg. b/n e colore – 8,50€