Il mio rigetto per Jacovitti è cominciato da bambino, con il primo sguardo su una sua tavola; può essere stata una pagina di diario, piuttosto che di fumetto: negli anni ’70 (1970!) il diario Vitt andava forte (per me no, io avevo il diario di Linus, ma questa è un’altra storia).
Il malessere che le tavole di Jacovitti mi provocano è prima di tutto fisico: qualcosa allo stomaco, un’allusione di nausea, che mi costringe a distrarre lo sguardo, a fissarlo piuttosto nel vuoto. L’associazione più diretta che riesco a fare, è con un tumore: le vignette, le grandi vignette che invadono la tavola, di Jacovitti sono la rappresentazione di un dilagare cancerogeno di figure, che saturano tutto lo spazio disponibile, senza lasciare nemmeno l’aria per respirare; come le case che assaltano le colline di Genova, oppure Cannes, oppure il Vesuvio.
Una malattia, un’infestazione parassitaria e fatale.
Come quei deliri urbanistici, le vignette di Jacovitti, nemmeno quelle piccole, non hanno livelli, né centro, né punto focale, né univocità di lettura: il tempo non vi scorre, ma ci gira impazzito, frastornato; lo spazio è appiattito, come in un incubo bizantino: è un vero assalto alla mente, che annaspa nell’assenza di riferimenti spaziali (e logici, poiché inserimento nello spazio e ruolo negli eventi raffigurati sono collegati dall’abitudine di lettura).
Ma non è tutto, poiché anche i dettagli sono disturbanti: la follia esce dagli sguardi dei personaggi, assale il lettore incauto; salami zampettano, come in un delirium tremens senza più speranza. E, con la follia, la cattiveria degli occhi dei personaggi, cattiveria bestiale, cinica, senza freno, e senza pudore.
Mi dispiace, ma per me è decisamente troppo.