Tintin e il quasi mistery de I gioielli della Castafiore

Tintin e il quasi mistery de I gioielli della Castafiore

Arriva Bianca Castafiore a Moulinsart! La pace del castello e la serenità di Tintin e Haddock è infranta dalla sparizione dei gioielli della soprano.

Bianca Castafiore si auto invita a Moulinsart e sconvolge la routine del castello: prima l’occupazione di spazio e la richiesta di attenzioni; poi il flusso incontrollato di giornalisti e infine una duplice sparizione dei sui gioielli. La polizia trova rapidamente il colpevole ideale: un gruppo di romanyi accampati nella tenuta di Moulinsart.

Tintin e i gioielli della Castafiore è un pezzo di bravura di Hergé, che costruisce l’intreccio su un pretesto (la sparizione dello smeraldo donato alla soprano dal Maharaja di Gopal) e racconta la vita a Moulinsart, con le sue piccole e grandi tensioni ed eccentricità. L’autore belga impiega una vasta varietà di toni: dal tormentone comico del quarto gradino danneggiato sul quale gli abitanti del castello scivolano ripetutamente, al disprezzo/paura per il diverso, che nella precedente avventura era lo yeti e in questa è una carovana di Romanyi.

In mezzo un’indagine che Tintin tenta di mantenere nell’ambito del razionale, ma che la coppia Dupond/Dupont, una volta entrata in campo, trascina stolidamente verso il massimo di entropia.
Mistery casaingo, quindi avventura anomala all’interno della saga di Tintin, I gioielli della Castafiore vive di una particolare leggerezza: viene da dire che la sua sostanza stessa è impalpabile e, come peraltro conferma lo scioglimento, la sua struttura sfuma non appena la si osservi da vicino. Tuttavia è solo apparentemente una storia innocua e non manca di un elemento pedagogico, che stavolta è più diretto del solito.

Naufragio della ragion pratica

Il Capitano Haddock non reagisce bene all’autoinvito de L’usignolo de La Scala a Moulinsart. Tintin e i gioiellli della Castafiore, pag. 5.

I gioielli della Castafiore scompaiono non una ma due volte e in entrambi i casi siamo in un perfetto scenario da giallo classico: problema ben definito, ambiente chiuso, lista limitata di possibili colpevoli. E come tale lo affrontano sia Tintin sia la coppia Dupond/Dupont. In particolare, i due poliziotti applicano il protocollo di indagine: compilano l’elenco dei presenti, raccolgono testimonianze e indizi, formulano ipotesi e deducono tesi.

Ogni passo del processo è razionale ma il risultato inquietante: i due indicano come colpevoli i romanyi che, indirizzati dalla municipalità ad accamparsi presso una discarica, il Capitano aveva invitato nella tenuta di Moulinsart. A rendere inquietante questa conclusione è il fatto che sia basata non su prove reali ma sull’impossibilità di accusare alcuno fra i presenti e la necessità di un colpevole: a questo punto, gli impassibili Dupond/t estraggono dal loro bagaglio intellettuale una via d’uscita di tutto comodo, che li riempie di tronfia soddisfazione.

È una sorta di principio di plausibilità (“niente prova che non l’abbiano fatto”) che, collegato ai pregiudizi (“i romanyi vivono di crimini”) si combinano nel paralogismo che porta i due agenti ad accusare con sicumera i nomadi. Rifiutando di lasciare il caso aperto e desiderando il successo di un’indagine risolta, i due agenti non esitano a scegliere una soluzione confortante che conferma e, nel momento in cui diventa pubblica, rafforza la loro visione del mondo. Quella di cui si era fatto portatore preoccupato il comandante della gendarmeria locale, che aveva telefonato personalmente al Capitano per metterlo in guardia dai romanyi (pag. 13).

In forma molto diretta Hergé mette quindi in scena non solo il rifiuto del diverso ma la costruzione del pregiudizio attraverso un processo nel quale razionalità, paure, desideri personali ed esperienze sono mescolati e si sostengono a vicenda. Da notare che Hergé non banalizza il diverso in un ruolo di semplice vittima, ma, attraverso il disprezzo dimostrato dal romanyi Matteo verso i ganji, lo mostra ormai coinvolto in un giro vizioso di preconcetti reciproci.

Una nota amara marca lo scioglimento di questa sotto strama: il finale scagiona i nomadi, ma non mostra né alcuna riconciliazione (il gruppo si è ormai spostato chissà dove) né alcuna ammenda dei poliziotti. Il messaggio è che la verità è si venuta a galla ma è rimasta, per così dire, a diffusione limitata. Mentre l’accusa era una notizia che la radio portava in ogni dove la soluzione sembra rimanere fra Moulinsart e il commissariato locale; il procedimento a carico dei nomadi sarà certamente (?) chiuso, ma senza troppa pubblicità, così che nessun pregiudizio verrà turbato.

Le indagini parallele di Tintin e dei Dupond/t sono a tutti gli effetti un tentativo di mettere ordine in un sistema impazzito. Moulinsart è infatti in preda a un caos pervasivo e capillare: niente sembra funzionare come atteso, mentre le persone portano agli estremi le proprie idiosincrasie. In questo senso, I gioielli della Castafiore mette in scena una parodia del mistery nel quale l’impegno a rimettere in sesto gli elementi del mondo è applicato a un’illusione. In tutta quella congerie di meccanismi realmente incastrati e malfunzionanti gli sforzi si concentrano su qualcosa che ha tutte le apparenze di un Grande Problema (la sparizione dei gioielli), ma nessuna realtà fattuale: nessuno dei due pretesi furti, infatti, si rivela reale. Semplicemente, il furto diventa l’unico problema che si è in grado di affrontare e magari risolvere, quindi l’unico al quale valga la pena di applicarsi.

Piena di strepito e furore, ma senza significato alcuno

Jean-Loup De La Batelière ha raccontato la creazione delle avventure di Tintin in fumetto: questo l’albo dedicato a I gioielli della Castafiore (ed. Bédéstory).

La popolazione umana che strepita e si agita nelle tavole de I gioielli della Castafiore sembra non tanto irrecuperabile quanto pienamente compiaciuta di sé. Nessuno di loro manifesta volontà alcuna di cambiamento, nessuno di loro di fatto interagisce con gli altri. Singolarmente divertenti, l’accumulo delle gag produce logoramento perché la comicità di ogni caso fa leva su aspetti sgradevoli o fastidiosi: dalla vanità dell’Usignolo de La Scala alla noncuranza del marmista, sempre passando per la sordità del Professor Girasole.
E scrivo “caso” piuttosto che “scena” perché è proprio la reiterazione dei comportamenti, il loro trasformarsi in refrain seriale, a creare l’effetto di oppressione: Moulinsart sembra infestata da una follia che guida azioni, parole e pensieri di tutti.

Unica eccezione rimane Tintin, che forse si abbarbica alla sua indagine proprio per non essere trascinato da quella follia. Da una parte un mondo senza senso e senza vie d’uscita e dall’altra una nicchia nella quale coltivare la propria resistenza alla follia dilagante, ma senza di fatto confrontarsi con essa, quasi ad evitare il contagio. Ecco l’impalpabilità della struttura che abbiamo indicato all’inizio: visto da vicino, l’intreccio mette in scena un vero e proprio moto browniano di personaggi, che crea l’illusione di relazioni causa-effetto ma si rivela essere solo una successione di collisioni.

Ognuno si muove per proprio conto e siamo noi ad ostinarci a mettere in relazione le loro azioni con qualcosa che abbia un senso, a tirarne fuori un disegno (come i Dupond/t!). Ci troviamo fra le mani non una storia, non un intreccio ma solo un gruppo di monadi che condividono uno spazio e un tempo. Chiamando direttamente in causa la (giustamente celebre) immagine di copertina possiamo anche dire che i personaggi si muovono su un palcoscenico e che assistiamo a uno spettacolo di teatro delle maschere, che, riducendo i personaggi alla loro funzionalità base, ne mette in luce i limiti narrativi.

I gioielli della Castafiore vive in fondo sulla tensione fra una superficie brillante e liscia, una natura di divertissement che sembra procedere in caduta libera, e l’indicazione della vanità delle cose umane e dell’incapacità degli individui di superare l’egoismo.
Ed è veramente notevole, e forse non salta nemmeno immediatamente all’occhio, che l’unico scoglio a cui aggrapparsi in questo mare di pessimismo, l’unico esempio virtuoso, non è Tintin ma il Capitano Haddock, perché è l’unico che accetta di cambiare, che accetta di mettersi in discussione.

Nella prefazione, Jean-Marie Embs e Philippe Mellot si soffermano sul ruolo de I gioielli della Castafiore nella saga di Tintin, indicandolo come il termine dell’evoluzione, quasi un lavoro di congedo dal pubblico. Osservazione particolarmente interessante poiché legata di fatto all’ipotesi che ormai (l’avventura fu serializzata sul Journal fra il luglio 1961 e il settembre 1962) il lettore tipo sarebbe non più il bambino ma l’appassionato di lungo corso.

Abbiamo parlato di:
Tintin – I gioielli della Castafiore
Hergé
Traduzione di Giovanni Zucca
In allegato a La Gazzetta dello Sport, Corriere della Sera, Maggio 2017
29+62 pagine, cartonato, colori – 7,99 €
ISBN: 977203975726270021

4 Commenti

4 Comments

  1. Zoran

    31 Maggio 2017 a 16:59

    Nota a margine, nel suo romanzo “Non è successo niente” Sclavi parla di questo albo come del primo e forse unico precedente per la poetica del suo libro in questione, basata per l’appunto sul fatto che “non succede niente”.

    • Simone Rastelli

      1 Giugno 2017 a 07:11

      E d’altra parte, ne La Castafiore, i personaggi si muovono sull’orlo dell’abisso del proprio essere. Certo, Hergé resta nella commedia, ma ci vuole veramente poco a immaginare l’esplosione di follia violenta a Moulinsart ^_^.

  2. Fra X

    16 Dicembre 2017 a 17:26

    Avventura in effetti anomala della serie ancor più di TTIN visto che quì si rimane a casa. “Divertissement” è la parola giusta

    “Mistery casaingo, quindi avventura anomala all’interno della saga di Tintin, I gioielli della Castafiore vive di una particolare leggerezza: viene da dire che la sua sostanza stessa è impalpabile e, come peraltro conferma lo scioglimento, la sua struttura sfuma non appena la si osservi da vicino.”

    anche se

    “Tuttavia è solo apparentemente una storia innocua e non manca di un elemento pedagogico, che stavolta è più diretto del solito.”

    Come tutte le commedie che si rispettino. XD La “storia” di Haddock e della Castafiore è un spasso. XD Un pò come Jacobs con “La trappola diabolica” Hergé sembra arrivato al suo massimo di maturità della serie.

    • Simone Rastelli

      17 Dicembre 2017 a 16:52

      Sì, Vien da dire che qui Hergé decostruisce i meccanismi de Le avventure di Tintin. Ne trae un gioiello, ma non indicazioni per il futuro

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