I linguaggi e Frank Miller

I linguaggi e Frank Miller

Mentre e' nelle sale il nuovo film tratto da una sua opera, 300, analizziamo il rapporto tra Frank Miller, uno degli autori piu' importanti per l'evoluzione dei comics negli anni '90, e i due linguaggi che hanno segnato la sua carriera: il fumetto e il cinema.

Il termine “linguaggio” è oggi abusato o usato impropriamente. Nella sua accezione originale era definito da Ferdinand de Saussure, nel suo libro “Corso di Linguistica Generale[1], come “facoltà di costituire una lingua“, e la lingua stessa veniva fissata in questo modo: “é un prodotto sociale della facoltà del linguaggio, modello collettivo di abitudini e convenzioni. è una manifestazione privilegiata del linguaggio“. Per semplificare possiamo dire che la lingua è la capacità di comunicare articolando in maniera opportuna, e a seconda delle esigenze, il linguaggio.
Cinema e fumetto sono quindi due linguaggi. Il primo si serve di un codice audiovisivo composto da suoni e immagini in movimento, il secondo è composto da parole e disegni (cioé immagini fisse). Di qui possiamo dedurre che i critici usano un’espressione impropria quando affermano, ad esempio, che un autore utilizza in un determinato modo il linguaggio cinematografico (o fumettistico). Gli autori difatti impiegano una loro lingua, avendo pero’ maturato gli elementi che la compongono dal linguaggio. L’uso della lingua è naturalmente finalizzato alla comunicazione di un messaggio o di un concetto.

Naturalmente le continue sperimentazioni e le avanguardie postmoderne rendono sempre più labili i confini tra un linguaggio e un altro, anche se è innegabile che fin dalle loro nascite cinema e fumetto sono stati indissolubilmente legati. Si sono influenzati vicendevolmente soprattutto nell’uso delle immagini, oltre che nei contenuti. Facendo naturalmente salve le ovvie specificità dei mezzi, per esempio quello cinematografico si manifesta in un tempo di fruizione prestabilito, mentre quello del fumetto ha un tempo di fruizione libero.
Si tratta pero’ di sottolineare delle corrispondenze palesi: il colonnino o la didascalia all’interno della vignetta non osservano la stessa funzione della voce fuori campo che spiega gli avvenimenti direttamente allo spettatore al cinema? Inoltre le sceneggiature di cinema e fumetto percorrono strade analoghe nella costruzione della storia, si differenziano solo nel risultato finale, quelle per il primo finiscono in suoni e inquadrature e quelle per il secondo in vignette e parole. La scala dei piani usata è la stessa, introdotta dal cinema e poi adottata anche dal fumetto e dalla televisione. Lo storyboard, una sorta di sceneggiatura con i disegni, usata da sempre nel cinema di animazione e ultimamente sempre più praticata anche dai film ripresi dal vero, in particolare all’interno del genere fantastico, è molto simile a un fumetto vero e proprio. Senza contare i parametri applicabili a tutti e due i linguaggi e le figure convenzionali mutuate dall’uno all’altro come il flashback, la soggettiva o il controcampo, che pur essendo nate nel cinema sono ormai dominio di entrambi. Onde per cui un’analisi tecnica che investe i suddetti elementi può essere per certi versi applicata a entrambi i media.

Propone un’analisi Barbieri nel suo libro “I Linguaggi del Fumetto[2]: “Il fumetto può ben sfruttare delle forme nate dal cinema (e viceversa) senza darlo a vedere, senza esibirlo– e prosegue più in là- in varia misura, questa è anche la ragione generale dei numerosi tentativi nella storia del fumetto di mimare il cinema, da Caniff a Pratt: il linguaggio del cinema è, per la maggior parte di noi, il linguaggio dell’avventura stessa…“.

Questa riflessione motiva il complicato insieme di citazioni e influenze che hanno invaso i due mezzi. A partire da Tarantino, che ammicca al fumetto sia come soluzione grafica che come contenuto, per concludere con i fumetti tratti da film sui supereroi. Allo stesso tempo, nel discorso che si sta affrontando, le interrelazioni vanno affrontate non solo da una prospettiva trasversale che raccolga cinema e fumetto, ma da un’angolazione che sulla scia di questa comprenda il ragionamento sulle comparazioni tra Oriente e Occidente.
Se da un lato il cinema nasce in Occidente e, di conseguenza, i cineasti orientali della prima ora cercarono di applicare una tradizione narrativa preesistente a una nuova forma tecnica e artistica, dall’altro lato nell’origine del manga e del manhwa è difficile distinguere dove comincino le influenze occidentali e dove finiscano le suggestioni delle arti figurative autoctone.
Tutto ciò ha portato al giorno d’oggi, con il proliferare della comunicazione e delle tendenze, a una variegata quanto distinta schiera di produttori e consumatori: dall’autore cinese appassionato di film europei al giovane lettore di manga occidentale, dall’autore di manga che va a lavorare in America per le major al regista americano che cita nelle sue inquadrature le stampe giapponesi del diciannovesimo secolo.

L’autore che più rispecchia questo crogiuolo di tendenze e mescolanze è senza dubbio Frank Miller. Egli nasce nel 1957 nel Maryland; fin da giovanissimo mostra un grande talento per il disegno e una forte passione per il fumetto, senza tuttavia disdegnare altre forme di intrattenimento come il cinema e la letteratura. Autodidatta di formazione, vive all’inizio della sua carriera un peregrinare da una casa editrice a un’altra alla ricerca di un ingaggio, destino comune di quanti si affacciavano sul mondo del fumetto.
Comunque, già nell’ultima parte degli anni settanta, l’autore ha conquistato il “comando” della testata Daredevil [3], rendendo subito riconoscibili le sue intenzioni: riduce l’importanza di personaggi come l’amico-collega Foggy e della segretaria Karen Page, facendo assumere più spazio al giornalista Ben Urich, al folle assassino Bullseye e introducendo la figura dell’affascinante ninja Elektra. Lo stile di Miller matura, la testata ottiene un buon successo, ma questo è dovuto soprattutto all’inserimento, all’interno di una serie destinata all’intrattenimento popolare, di elementi narrativi più adulti o, per certi versi, più cinematografici.

A proposito delle suggestioni tecniche proposte da Miller, Aicardi nel libro “Sin Cinema[4] asserisce: “…perché il mondo del cinema, oltre a quello del fumetto, ha trovato ottima linfa nello stile visivo di Miller, così perfettamente cinematografico già sulla carta, e dotato di atmosfere e tecniche capaci di fondere con eleganza il meglio di tradizioni diverse e preziose come il manga giapponese, la linea chiara francese, il chiaroscuro italiano, il romanzo grafico di Will Eisner, il dinamismo plastico e muscolare di Gil Kane e Neal Adams, le inquadrature di Akira Kurosawa, il montaggio di Alfred Hitchcock, le ombre di Fritz Lang, gli stacchi di Sam Peckinpah. Tutto questo unito a testi maturi e profondi, che parlano di follie e ossessione, amore e morte, vendetta e rinascita, assassini e femme fatale, recuperando lo stile dell’ hard boiled di Raymond Chandler, l’epicità di Hemingway, o la crudezza di Carver, con personaggi che richiamano Humphrey Bogart e Rita Hayworth, Lana Turner e Orson Welles, o Edward G. Robinson.

Tra le opere di Frank Miller più rappresentative per il ragionamento che si sta seguendo, merita un posto d’onore Ronin [5]. L’opera, edita come miniserie dalla DC nel 1983, vede anche l’inizio del sodalizio con la colorista Lynn Varley. La storia è già di per sé un agglomerato di spunti molto distanti fra loro. La vicenda narra dello spirito di un samurai e quello del demone che ha ucciso il suo padrone, che vengono trasferiti in una New York futuribile ma oscura, vittima del degrado. Qui la fortezza biorganica chiamata Complesso Aquarius è comandata dall’intelligenza artificiale del computer Virgo, il quale è collegato a sua volta, in una sorta di simbiosi mentale, a Billy Challas, un giovane ritardato privo di arti ma dalle incredibili capacità telepatiche e telecinetiche. La vicenda si avvia quando lo spirito del samurai possiede il corpo di Billy.
L’ispirazione è senza dubbio data dal manga del 1970 “Kozure Okami“, il cui titolo in Occidente è Lone Wolf and Cub [6], che racconta delle peripezie di un samurai che si porta dietro il figlio in fasce, in cerca di vendetta verso chi gli ha sterminato la famiglia. Di questo manga Miller stesso aveva curato l’edizione americana e disegnato addirittura le copertine. Oltre ad attingere al nascente immaginario cyberpunk, così come fa negli stessi anni in Oriente Otomo per “Akira”, l’ideatore dell’opera si richiama anche al cinema di Kurosawa e ai fumetti di Moebius e Micheluzzi.
Le soluzioni grafiche studiate per le tavole di “Ronin” sono di conseguenza sperimentali e innovative. Miller monta le scene scombinando l’ordine sequenziale e adotta una prospettiva cinematografica nell’uso di dettagli e grandi panoramiche, oltre a citare direttamente la settima arte con tavole dall’andamento verticale che rimandano, talvolta esplicitamente, ai fotogrammi cinematografici.

La successiva opera Batman: The Dark Knight Returns [7] pubblicata dalla DC nel 1986, sempre con i colori di Lynn Varley, porta a un compimento più maturo il percorso iniziato con Ronin. La miniserie parla di una metaforica resurrezione di Batman, nella quale un Bruce Wayne ormai invecchiato torna in azione per tentare di redimere una sempre più corrotta Gotham City, stretta tra la violenza di bande criminali sempre più agguerrite e il potere invasivo dei media, i quali attaccano a loro volta il giustiziere mascherato accusando la sua condotta, giudicata inopportuna e troppo reazionaria. Infine accostando l’eroe ai criminali che combatte, Batman è ritenuto pazzo come i suoi antagonisti, anzi lui stesso è il fulcro, l’ossessione o il motore delle menti disturbate di Gotham City.
Stilisticamente procede l’opera di frantumazione del movimento e la ricerca di nuove modalità di costruzione della tavola, richiamando le strutture grafiche e narrative dei manga. Tutto questo senza rinunciare alle solite suggestioni cinematografiche, ed in particolare al cinema di Fritz Lang e all’espressionismo tedesco in generale, e a quelle letterarie della narrativa pulp e hard boiled, che saranno alla base di Sin City.

Una menzione particolare spetta a 300 [8], miniserie pubblicata dalla Dark Horse nel 1998. Si tratta della versione romanzata di un fatto storico: la vana resistenza degli spartani guidati da Leonida opposta alle soverchianti forze del re Serse. Anche questa miniserie è colorata da Lynn Varley. Il fattore che è più importante richiamare riguarda le dimensioni della tavola, 35 cm X 25 cm, un formato orizzontale che ricorda più uno schermo cinematografico che una tavola di comics. [9]

Sin City: Dal fumetto al filmMa la ricerca artistica di Miller aveva probabilmente raggiunto il culmine con la serie Sin City [10], edita nel 1991 sempre dalla Dark Horse. Questa, oltre a costituire il più sincero omaggio che l’autore vuole portare a scrittori come Dashiel Hammett, Raymond Chandler e Mickey Spillane, scandisce i tempi narrativi con modalità decisamente cinematografiche. La saga parla della città americana archetipo del vizio e della corruzione, dove avventurieri, psicopatici, donne fatali e poliziotti corrotti intrecciano le loro misere esistenze. Il tutto raccontato attraverso un bianco e nero manierista e astratto, simbolo della corruzione che attanaglia la città.
Afferma sempre Aicardi (op. cit.): “Il fumetto di Sin City, come molti dei fumetti di Miller, risente profondamente dell’influenza del cinema; e a sua volta il Sin City cinematografico è un tentativo di rendere sul grande schermo il linguaggio del fumetto, in un modo che risulti stimolante per ogni genere di spettatore, sia quello interessato alla pura narrativa pulp, sia quello che apprezzi le stilizzazioni grafiche e il bianco e nero usati in modo espressionista“.

Proprio il film di Sin City [11] rappresenta un caso unico da registrare. Quando nel 2005 viene proposto il progetto a Miller, questi è molto scettico sulla fattibilità del progetto, avendo pensato semmai a una riduzione in cartone animato più che ad un film dal vero. Egli era inoltre rimasto deluso da precedenti esperienze cinematografiche, avendo infatti collaborato alle sceneggiature di “Robocop 2” e “Robocop 3”, ma il suo lavoro era stato mortificato da numerosi tagli e dall’insuccesso delle pellicole al botteghino. Nutre anche delle perplessità sul regista Robert Rodriguez, cui avrebbe preferito Sam Raimi. Questo almeno finché Rodriguez non gli mostra una scena girata in via sperimentale che ha l’effetto di convincere Miller. I due firmano insieme la regia del film, Rodriguez essendo anche produttore, musicista, direttore della fotografia, operatore di steadycam e supervisore degli effetti speciali, garantisce un controllo pressoché totale anche a Miller. Il cast è ricco di stelle: Bruce Willis, Mickey Rourke, Clive Owen, Jessica Alba, Rosario Dawson, Benicio Del Toro, Elijah Wood e Micheal Madsen.
La pellicola riscuote un grande successo di pubblico e delle ottime critiche, seppure qualcuno è perplesso da tanta violenza. Molti lo definiscono addirittura il miglior film mai tratto da un fumetto.

Tuttavia questa considerazione induce ad alcune riflessioni: in un film dove lo storyboard è costituito dal fumetto stesso, le inquadrature richiamano sovente le vignette, e il linguaggio cinematografico cerca di imitare il più possibile quello fumettistico, che ruolo hanno le specificità filmiche? Ha senso ridurre un fumetto in una maniera tanto fedele riproducendone la forma, naturalmente senza alterarne la sostanza?
Il regista Rodriguez è il traghettatore delle idee, già perfettamente illustrate su carta, di Miller, ma qual è il significato di un’operazione di questo genere?
é necessario trarre un film che cita il linguaggio del fumetto, da un fumetto che cita il linguaggio del film, o così facendo si sviliscono entrambi i linguaggi?

Note:
[1] – Ferdinand de Saussure, “Corso di linguistica generale”, intr., trad. e comm. di T. De Mauro, Biblioteca Universale Laterza, 2007 (20a ed.), 532 pagg., 26,00euro
[2] – Daniele Barbieri, “I Linguaggi del fumetto”, Bompiani, 1991, 320 pagg., 14,50euro
[3] – Daredevil #168-191 (1981-83), #219, #226, Daredevil: Born Again (Daredevil #227-233) (1985-86), Elektra: Assassin (1986), Daredevil: Love and War (1986), Elektra Lives Again, Daredevil: The Man Without Fear (1993) – Marvel Comics – ed. it. Panini Comics
[4] – Gianluca Aicardi, “Sin Cinema: Il genio di Frank Miller da Daredevil e Batman a Sin City”, Tunué, 2005, 96 pagg., 5,00euro
[5] – Ronin #1/6 (1983/1984) – DC Comics – ed. it. PlanetaDeAgostini
[6] – Kazuo Koike e Goseki Kojima, “Lone Wolf & Cub” (1970) – ed. it. Panini Comics
[7] – “Batman: The Dark Knight Returns” (1986) – DC Comics – ed. it. “Batman: Il ritorno del cavaliere oscuro”, Planeta DeAgostini, 2007
[8] – 300 #1-5 (1998), Dark Horse – ed. it. Magic Press
[9] – Non a caso, visto anche il successo cinematografico di Sin City, è stato prodotto il film tratto dalla graphic novel: 300, USA 2007 – Regia Zack Snyder
[10] – Sin City si compone di miniserie e albi autoconclusivi: The Hard Goodbye (1991), A Dame To Kill For (1994), The Big Fat Kill (1994), That Yellow Bastard (1996), Family Values (1997), Booze, Broads, & Bullets (1998), The Babe Wore Red (And Other Stories) (1994), Silent Night (1994), Lost, Lonely, & Lethal (1996), “Daddy’s Little Girl”, Sex & Violence (1997), Just Another Saturday Night (1997), Hell and Back (1999) – Dark Horse – ed. it. Magic Press
[11] – Sin City, USA 2005 – Regia di Robert Rodriguez, Frank Miller e Quentin Tarantino (special guest director)

Riferimenti:
The Complete Frank Miller Website: www.moebiusgraphics.com
Official 300 website: 300themovie.warnerbros.com
Frank Miller su Wikipedia.it: it.wikipedia.org/wiki/Frank_Miller
Speciale su 300, il fumetto
Recensione di Eisner/Miller, conversazioni sul fumetto

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