King, Gerads e la realtà fragile di Mister Miracle

King, Gerads e la realtà fragile di Mister Miracle

Il Mister Miracle di Tom King e Mitch Gerads non solo fugge dalla prigione di Orion ma si pone anche come portatore di una rinnovata poetica umanista per il supereroico. La sua griglia ossessiva e ipnotica trasporta un flusso continuo di emozioni e tensioni.
Fig.1. Tom King, Mitch Gerads, Mister Miracle #6, cover, DC Comics, 2018.

Il Mister Miracle di Tom King e Mike Gerads si sviluppa su un’ambiguità costante e scoperta, che disorienta il lettore. Il racconto sembra in ogni momento mostrare troppo e troppo poco e il protagonista si muove attraverso i mondi, in un andirivieni le cui logiche sono valide nel qui e ora, ma che appaiono inconsistenti nel loro insieme. Lo stesso può dirsi delle azioni del suo antagonista, Orion.

Il tutto è avvolto in un senso di oppressione costante, che nei momenti più acuti diventa pura claustrofobia.

Narrativamente omogeneo, sapientemente modulato nei toni, l’aspetto più interessante del racconto di King e Gerads è che l’umanità dei personaggi – espressa nei loro comportamenti e nelle loro parole – lo rende racconto di uomini e non di esseri superumani, dando grande forza a una tendenza che negli ultimi anni si è affacciata sulla scena supereroica con opere sparse e che potrebbe rappresentare l’uscita dall’autoreferenzialità dominante.

Ultima caratteristica che merita sottolineare prima di addentrarci nell’analisi è che il racconto – previsto articolarsi e concludersi in 12 capitoli – è del tutto godibile senza alcuna conoscenza pregressa dei personaggi, delle loro relazioni e dell’ambientazione.

“La realtà è quella cosa che non smette di esistere quando tu smetti di crederci”

Tom King, Mitch Gerads, Mister Miracle #1, DC Comics, 2017.

King e Gerads incrinano da subito la separazione fra reale e non reale: fanno infatti cominciare Mister Miracle con una parodia al secondo livello: un ritratto del protagonista in puro stile Roy Lichtenstein, commentata con “È costui un maestro dell’inganno spettacolare o è qualcosa di più?”.
Voltiamo pagina e vediamo un dio – perché Mister Miracle, ricordiamolo, è un dio – che si è tagliato le vene nel gabinetto (Fig. 2). È seduto per terra, scomposto e incosciente, la schiena appoggiata alla parete, le mani coperte di sangue; in primo piano la maschera del costume, fuori fuoco. La tazza del cesso alla sinistra del dio intride di squallore la scena, mentre in basso, proprio sopra la maschera, un annuncio grida sguaiato: “Meet Mister Miracle”.

Alla base di ogni racconto c’è un particolare patto di sospensione dell’incredulità che definisce ciò che da quel momento considereremo “realtà”: questo annuncio così sgraziato non crea semplicemente una dissonanza emotiva, ma rende nebuloso il criterio di realtà che dovrebbe orientarci nella comprensione della vicenda.
La coerenza della costruzione narrativa è spezzata da subito dalla tensione fra lo stile dell’immagine del dio morente nel più squallido dei modi e quella dell’annuncio, che viene direttamente dagli anni ’70, tempo della incarnazione originaria dei New Gods di Jack Kirby ai quali appartiene il protagonista.

Scott Free ha scelto di vivere fra gli esseri umani, ha assunto il ruolo di Mister Miracle, si guadagna da vivere (?) sulla Terra come “artista della fuga” ed è addirittura diventato “il più popolare fra i Nuovi Dei”. Lo dichiara il suo impresario Funky Flashman, proprio mentre gli propone di trasformare in spettacolo anche la sua esecuzione.

Tom King, Mitch Gerads, Mister Miracle #4, DC Comics, 2017.

Le parole di Flashman tentano di trasformare tutto in farsa, in finzione. Scott Free, condannato a morte da Orion, nuovo Altopadre di New Genesis, ha un appuntamento con la morte e Flashman tenta di ricondurre questa assurdità a spettacolo, a una parodia del reale; tenta soprattutto di travestirla da “realtà sotto controllo”, in modo da ignorare l’abisso che l’assurdo spalanca davanti all’esistenza.

Non faticheremmo a vedere in lui l’autore degli strilloni pubblicitari e dei commenti fuori scena che punteggiano il racconto con un controcanto straniante e mettono continuamente in discussione la realtà di quello che vediamo accadere. Una pratica che negli anni ’70 marcava una complicità con il lettore attraverso la quarta parete e col tempo è diventata memento dell’appartenenza di autore e lettore allo stesso gruppo di fan. Effetto: riduzione del racconto supereroico a intrattenimento puro, pacche sulle spalle e strizzatine d’occhio fra compari, secondo un mantra tipo “Niente di serio, per favore”.

Ma questa volta l’impressione è ben diversa e quella voce non sembra provenire da un amicone seduto al nostro fianco (tantomeno da Flashman), ma da qualcosa dentro il racconto stesso, che ci sta avvisando, mettendo in guardia, magari chiedendo aiuto. Per cui, no, non ci sentiamo dalle parti di Stan Lee, Jack Kirby o Brian Bendis, ma da quelle di Philip DickUbik, per l’ambiguità dei livelli di realtà e della confusione vita/morte, Divina Invasione per la presenza del divino nel mondo ordinario, visto come “la prigione di ferro”, costruita da un falso dio e che impedisce di vedere la realtà. La stessa caratterizzazione cristologica di Scott Free rimanda tanto a quella originaria del personaggio da parte di Kirby quanto a certi personaggi di Dick.1

“Darkseid is” = “Heil Hitler” + paranoia

Il racconto si svolge interamente (sinora) dietro le sbarre di una prigione visiva; la griglia 3×3 che dalla terza tavola in poi articola la narrazione è ovvia metafora e ci offre quindi da subito una chiave di lettura: questa realtà è ciò da cui Scott Free deve fuggire2. Questo è il Nuovo Ordine senza speranza che Scott Free deve distruggere3. La speranza è infatti fuggita dall’universo nel momento nel quale Orion – figlio di Darkseid – ha preso il posto dell’Alto Padre. L’universo è fuori sesto, ha perso il suo equilibrio, smarrito la dicotomia bene vs. male. Solo il male è rimasto; e Darkseid è il Male, non semplicemente una sua rappresentazione.

Tom King, Mitch Gerads, Mister Miracle #4, DC Comics, 2017.

Con la speranza, anche la ragione è distrutta e ridotta a una grottesca parodia, nella quale il paralogismo prende il posto del ragionamento corretto. Orion interroga Scott Free e violenta tanto la giustizia quanto la logica, in uno spettacolo kafkiano. Orion è un pazzo paranoico spaventato da Scott Free. Orion, figlio di Darkseid, è il male, ma il male, ricorda Scott a Big Barda mentre guardano le luci elettriche della valle, è peggiore del bene. Per questo Dio è bene; per questo, deduciamo noi, Scott Free è Dio ed è più forte di Orion.

Orion è solo uno squallido impostore, che ha costruito la prigione di ferro che ci separa dalla realtà vera. Orion è assillato dalla consapevolezza di non essere Dio. Massacra a calci e pugni Scott, gli grida in faccia di guardare il suo viso, perché quello è il volto di Dio. Ma il vero volto di Orion è quello spaventato dopo essere stato colpito da Scott Free al termine dell’interrogatorio. Come se in quel momento capisse che il vero Dio potrebbe risvegliarsi prima che lui lo uccida. O meglio, che tenti di ucciderlo, perché la mortalità di Scott Free non è garantita.

In questa visione, l’ossessivo “Darkseid is” che punteggia il racconto è una sorta di messaggio ipnotico che pretende di imporre la propria verità, cioè che Darkseid sia l’essere, che il Male “sia”, che abbia una propria realtà ontologica autonoma e non sia solo un effetto della libertà che il Bene stesso si è dato come limite di sé. Come si deduce dalle argomentazioni di Scott Free nella parentesi filosofica del capitolo 5, in realtà Darkseid è il non essere.

Orion è paranoico, i suoi occhi sono paranoici, i suoi atti sono paranoici: manda Scott Free da un fronte all’altro della guerra, generale vittorioso e carismatico, da tenere lontano dalla reggia per evitare rischi di rivolta. Non per niente, dichiara Forager, messo della specie dei Bug – la fanteria e carne da cannone dell’esercito di Orion – Scott Free è l’unico generale al quale i Bug si dichiarano fedeli e disposti a seguirlo fino alla vittoria finale. Vittoria prima di tutto contro Orion, l’impostore!

Scott Free è anche sicario manchevole, allorché si rifiuta di uccidere Granny Goddess – comandante degli eserciti di Apokolips -, che torturò lui e Big Barda nel Pozzo di Apokolips. Granny Goddess, che però aveva tentato di metterlo in guardia dalla trappola nella quale Orion lo stava attirando. Trappola, che era solo l’ennesima posta sulla sua strada.

Ma Mister Miracle è esattamente colui che fugge dalle trappole. Lo sa lui e lo sa Orion, che nonostante tutta la propria ostentazione di potere non riesce a spezzarne la resistenza: per quanto Scott Free appaia sfinito, sembra ugualmente restare al di là delle possibilità di Orion di piegarlo definitivamente. Scott Free si rialza. Sempre e a ogni colpo, non importa quanto violento. Una cosa che entrambi sanno è che dentro Scott Free è dormiente quell’equazione di anti-vita, che consente di trasformare la realtà stessa. Quando Scott Free chiede a Orion se anche dentro di lui ci sia quel tremendo potere, Orion glissa, facendoci sospettare che sia privo di quel potere.

Nel processo paralogistico intentato contro Scott Free, l’esitazione a uccidere Granny Goddess è dichiarato indizio di tradimento. Ma non è un elemento realmente importante, perché il teatrino surreale di Orion riduce ogni evento a una quisquilia, un passaggio verso l’annunciata condanna a morte. L’unica cosa profondamente vera è il principio sul quale fa leva l’interrogatorio: “tu sei quello in cui credi. Resteremmo sorpresi se questo principio non tornasse nella attesa fase di rinascita di Scott Free.

Ma Orion è anche ridicolo: guardate il suo elmo bianco, quando compare per la prima volta in scena. Sembra un pezzo di cartone appiccicato sulla fronte. Marchiato da una simile caratterizzazione, potrà fare paura, potrà emanare forza e minaccia (è un pazzo paranoico, in fondo), ma non certo regalità, non autorità.

King, Gerads e l’amplificazione narrativa

In senso stretto, Mister Miracle racconta uno scontro fra divinità, nel quale gli esseri umani sono comparse di nessuna importanza. Tuttavia la ricchezza delle emozioni che quegli esseri divini provano li rende del tutto umani ed è anche tutto ciò che tiene il racconto lontano dall’autoreferenzialità supereroica. Guardate il viso di Scott Free, le espressioni di Big Barda (molte smorfie ma nessuna mai gratuita né sopra le righe), quelle dei vari personaggi che si avvicendano nel salotto della casa dei due, nei numerosi momenti nei quali il racconto assume la forma di una vera e propria sit-com: è tutta varia umanità, alla quale Gerads dà vita attraverso uno sguardo, un ammiccamento o una smorfia.

È esattamente questa vitalità che amplifica ogni emozione, ogni sensazione di minaccia, paura, disperazione, ma anche la gentilezza, l’affetto e l’amore – come nel lungo dialogo che i due innamorati conducono lungo tutto il sesto capitolo, secondo un tono di commedia brillante che richiama quello dell’episodio Double Date che King ha scritto per Batman #36-37 usciti poco prima di Mister Miracle #64. I personaggi di questo racconto sono profondamente umani: soffrono come noi, gioiscono come noi, hanno le nostre stesse paure, ambizioni; le nostre velleità di potenza, il nostro bisogno di amore. Il quinto capitolo – che nella struttura narrativa è semplicemente l’inizio della rinascita dell’eroe – è la rappresentazione di un amore fra due persone che decidono di affrontare insieme il futuro.

La regia in interno valorizza le tensioni in campo, giocando su campi e controcampi, avvicinando e allontanando il punto di vista: ci sono scene nelle quali l’inquadratura cambia a ogni vignetta. E proprio in queste occasioni ci rendiamo conto che a mantenere l’integrità visuale del racconto è la scansione uniforme e stroboscopica del cronotopo narrativo, che si manifesta nella regolarità della griglia.

A questo punto ci rendiamo conto anche di un gioco ottico: la regolarità della griglia comunica sia oppressione – se lo sguardo si concentra sulla regolarità dello spazio bianco fra le vignette, il gutter – sia, se si concentra sulle immagini, continuità narrativa. Come in quelle immagini che ne contengono in realtà due, eventualmente incompatibili. L’uniformità strutturale si presta anche a un effetto di amplificazione, che dà a ogni espressione il maggior risalto e la maggior intensità ed efficacia possibile. La regolarità della griglia trasmette il messaggio esplicito che ogni momento ha la stessa importanza degli altri e al contempo – unita all’uso del colore come canale di trasmissione delle emozioni – rende la tavola l’unità fondamentale di percezione del racconto, al punto che, per comprenderne il flusso e le modulazioni emotive, basta guardare le tavole.

Fig.5. Tom King, Mitch Gerads, Mister Miracle #2, DC Comics, 2017.

Due esempi sono utili per chiarire il punto. Il primo è la scena del processo a Scott Free: è costruita con un climax costante di ossessività ma attraverso una messa in scena da commedia, con gli spettatori seduti sul divano del soggiorno di casa di Scott Free e Big Barda (Fig. 4). Il contrasto che si viene a creare fra la portante drammatica e la modulazione comica è straniante e contribuisce a potenziare l’impatto del confronto fra i due personaggi.
Il cuore dello scontro dialettico è mostrato in tre tavole consecutive nelle quali i profili dei due antagonisti sono alternati vignetta dopo vignetta. In quello di Orion apprezziamo piccoli movimenti, mentre Scott Free resta immobile; la tensione cresce a ogni botta e risposta, con l’inquisitore sempre più aggressivo e incalzante.
Ma la composizione ha una sottile sincope ritmica, che rafforza la sensazione che Orion sia spaventato da Scott Free. La sincope sta tutta nel fatto che Orion guarda verso sinistra, Scott Free verso destra e che la prima vignetta della sequenza ritrae Orion. Al di là della sua immobilità, l’impressione è che Scott Free “spinga” e Orion “resista”: la composizione visuale, cioè, sostiene che i termini del confronto fra i due siano l’esatto opposto di quelli della formalità processuale: che in realtà sia Orion quello che si sta difendendo.

Il secondo esempio è la sequenza iniziale del secondo capitolo, che mostra le campagne militari guidate Scott Free (Fig. 5). Immersa in una dominante cromatica rosso cupo – solo le ombre e il sangue sono definiti da colori diversi dal rosso – comunica più che la violenza degli eventi, un senso di logoramento morale, mentre la solitudine di Scott Free, spesso in campo medio sullo sfondo di pianure sconfinate, dà alle immagini una sfumatura di incubo, al punto che si ha il dubbio se le scene siano reali o proiezioni fantastiche delle paure del protagonista.

A tal proposito merita sottolineare che il carattere onirico del racconto è amplificato sia dall’assenza di momenti di compensazione, poiché ogni scena è tenuta alla massima intensità o contiene elementi di altissimo impatto emotivo, sia dalla frequente ricorrenza di deformazioni delle immagini, rese come interferenze. Che si intendano come interferenze nella trasmissione o nella percezione, rimandano comunque a una molteplicità di livelli di realtà.

Infine, pur di passaggio, vale la pena notare come anche i riferimenti visuali al Little Nemo di Windsor McCay rafforzino la sensazione di “realtà fragile” del racconto: non solo la scena dell’esibizione di Scott Free nel terzo capitolo, in tre tavole, con il protagonista che scala una struttura di tubi metallici e poi si chiude in una cassa, gettata dalla sommità, ma anche in quella nella quale Orion lo colpisce ripetutamente nella grande sala, di fronte a una vasta parete interamente coperta di disegni  (Fig. 7) o la sequenza all’interno del palazzo di Orion nel sesto capitolo.

Fig.6. Tom King, Mitch Gerads, Mister Miracle #3, DC Comics, 2017.

Una rinnovata poetica umanista per il supereroico?

Ogni momento è quindi irripetibile, esattamente come quelli che compongono le vite umane. Mister Miracle appare quindi elemento di un approccio al seriale supereroico che, confrontandosi con la gabbia della continuity aziendale, tenta di sfuggirle sfruttando i personaggi a disposizione per raccontare storie di esseri umani. Questa prospettiva valorizza la stratificazione di personalità associate ai vari personaggi come potenzialità di significazione nel racconto. Quella serie di momenti irripetibili e importanti (“vita”) diventa struttura narrativa fondamentale – che la regolarità della griglia rende esplicita in modo quasi didascalico – di una serie, costruita in modo da poter essere letta senza conoscenza pregressa di personaggi e ambientazione e che fin dall’inizio sappiamo essere a termine.

Come già quello dedicato a Visione, questo racconto si presenta cioè con tutte le caratteristiche di un’opera autonoma – anch’essa, in un certo senso “irripetibile” – o che almeno ambisce all’unicità non riproducibile5.
Il distacco dalla continuity toglie l’imbarazzo dell’incastro e delle introduzioni e spiegazioni farraginose, poiché in questo approccio serve delineare solo ciò che dei personaggi e delle loro relazioni è strettamente funzionale alla storia in questione. Ne risulta un doppio valore: il personaggio resta riconoscibile agli appassionati, per i quali è un’ulteriore interpretazione, e diventa comprensibile ai lettori occasionali. La dimensione autoconclusiva e largamente autonoma della serie contribuisce cioè ad aumentarne non solo la visibilità e il carattere di autorialità e progettualità, ma anche le possibilità di circolazione al di là del pubblico classico.

Fig.7. Tom King, Mitch Gerads, Mister Miracle #3, DC Comics, 2017.

Nella sua maxiserie su Visione, King ha raccontato la complessità del desiderio di integrazione e in Mister Miracle sembra raccontare la ricerca di identità, la tensione fra desiderio individuale e pressioni dell’ambiente. Entrambe sono storie che incidono la carne stessa dei personaggi per far emergere ciò che non funziona nelle loro esistenze e nei loro progetti, cosi che possano finalmente affrontarne i nodi cruciali, separando dolorosamente velleità, speranze, amori, passioni e speranze. In Visione questo percorso non termina con la negazione del supereroico: Viv, la figlia di Visione, alla fine sceglie un proprio percorso che infatti non nasconde ma valorizza la propria diversità.

Di Mister Miracle non possiamo ancora dire, poiché siamo a metà strada, ma intanto notiamo che Scott Free addirittura riscopre il suo ruolo di personaggio divino, quindi la propria diversità rispetto all’umanità in mezzo alla quale pur vive con successo; e per ora possiamo dire che Scott Free sta andando verso l’accettazione della propria particolarità: tutto ciò che fa potrà avere un corrispettivo umano, ma non lo è, né può esserlo.

King non è isolato in questo utilizzo umanista del supereroico, che potrebbe rappresentare – il condizionale sia inteso come un invito all’investigazione in questo senso – l’uscita dall’autoreferenzialità che rischia di sterilizzare le potenzialità espressive degli universi narrativi Marvel e DC.

Nel primo, è d’obbligo citare i casi di successo della Ms. Marvel di Gwendolyn Willow Wilson e Adrian Alphona e della Thor di Jason Aaron; ma è importante notare la stessa tendenza anche in progetti parzialmente schiacciati dal dover rispettare le strategie editoriali – leggi eventi e crossover – come il Loki Agent of Asgard di Al Ewing e Lee Garbett.

Sulla sponda DC, da un lato l’iniziativa Rebirth nel suo complesso si confronta con la sfida di riportare umanità nelle storie di supereroi – la run dello stesso King su Batman è il caso esemplare, mentre quella di Greg Rucka su Wonder Woman è quello che mostra le potenzialità inespresse –, dall’altro abbiamo opere come Dark Night (A True Batman Story) di Paul Dini e Creatures of the Night di Kurt Busiek che sfruttano l’immaginario supereroico per raccontare storie di persone ordinarie.
A queste, si aggiungono anticipazioni – come quelle dello stesso King riguardo al suo prossimo progetto Sanctuary e l’annuncio DC relativo alla serie The Other Story of DC Universe – che appaiono seguire questa tendenza.
Ribadisco: questa modalità d’uso dell’immaginario supereroico non è inedita in sé (basti pensare al Top 10 di Alan Moore e Gene Ha) ma ha finora avuto un ruolo marginale negli universi delle due major.

La sensazione è che una simile poetica potrebbe essere quella che caratterizza il ciclo narrativo attuale. Visione e Mister Miracle potrebbero essere le opere di culto della fase ascendente, e ora dovremmo aspettarci una serie di opere che riprendono e ampliano i loro stimoli e, infine, una o più opere che marchino l’acme del ciclo. Vista la velocità a cui evolve il sistema narrativo (autori, produttori e lettori), se la nostra ipotesi è meno che un abbaglio, tutto questo dovrebbe avvenire nei prossimi anni. Non resta che seguire gli eventi.

Abbiamo parlato di:
Mister Miracle #1-#6
Tom King, Mitch Gerads
DC Comics, 2016-2017
32 pagine, spillati, colore – 3,99$

Ringraziamenti: molte delle osservazioni sviluppate nell’articolo hanno preso forma durante le discussioni con Andrea Gagliardi, David Padovani, Giuseppe Lamola, Federico Beghin e Marco Marotta. La responsabilità delle posizioni espresse, così come di qualsiasi errore materiale, resta ovviamente mia.

 


  1. Sulla visione di Kirby, leggi: Sean Edgar, Exclusive: Tom King & Mitch Gerads Attempt to Escape the Absurdity of 2017 in Heady New Mister Miracle Comic www.pastemagazine.com/articles/2017/05/exclusive-tom-king-mitch-gerads-miracle-man.html

  2. Sull’uso della griglia 3×3 da parte di King in Mister Miracle, si legga: Andrea Gagliardi, In gabbia! – Mister Miracle e la griglia a nove vignette. Sull’impatto, potenziale o atteso, dell’opera, Shaun Manning, King & Gerads Have Redefined Mister Miracle, And Possibly Comics

  3. A tal proposito, si legga anche Tonio Troiani: L’arte dell’escapismo: Mister Miracle e il principio speranza

  4. Sul ruolo della commedia nel Batman di King, leggi Andrea Gagliardi, Il Batman di Tom King – Sulla commedia e la decompressione

  5. Sul Visione di Tom King e Gabriel Walta, leggi: Enrico Cirri, Simone Rastelli, La Visione di King e Walta – Parte 1: verso l’umanità e ritornoLa Visione di King e Walta – Parte 2: il teatro dell’imitazione

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