Il sabato del villaggio
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Il sabato del villaggio

Giacomo Leopardi individuava nell’attesa della festa la vera gioia. Il pensiero della gioia che verrà è più intenso del godimento della gioia in sé, che in realtà non arriva mai.

Per il malaticcio poeta di Recanati la condizione umana è questa: la felicità è irraggiungibile, godiamo almeno al pensiero di essa.

Pensiero, non speranza. Ché non c’è nulla da sperare, si sa già che la festa della domenica sarà di una noia mortale. Tartine insipide, cola dell’LD, gente antipatica, ballo lento no, gioco bottiglia no, niente cortesia né ampio parcheggio all’ingresso.

La realizzazione del sogno è una cocente delusione.

Leopardi, con curiosa lungimiranza, aveva previsto la condizione dei fumettisti del XXI secolo. Eterni adolescenti che non han fretta di crescere, che vivono una beata giovinezza nell’attesa di diventare grandi.

“Grandi” da intendersi non anagraficamente ma artisticamente. E con le dovute sfumature e distinzioni: per taluni la crescita artistica coincide col successo editoriale, per tal altri significa il raggiungimento di uno stile col quale identificarsi ed essere identificati.

Ma vogliamo davvero crescere? Vogliamo davvero diventare grandi? E se poi non ci piace? Se poi rimaniamo delusi dal successo che non è come immaginavamo o dalle critiche che ribadiscono che, dopotutto, abbiamo ancora un sacco di strada da fare?

Amletico dilemma: ricercare la felicità o la realizzazione? E le due cose, forse, coincidono?

Perché se cerchiamo la felicità ce l’abbiamo già. Per me che scrivo, per esempio, ogni giorno è un sabato del villaggio! Butto giù idee, stendo soggetti, riscrivo scene, rileggo sceneggiature, leggo i commenti degli editor e rifaccio finali, vedo bozze e storyboard, mi complimento con un disegnatore, non mi complimento con un disegnatore, leggo pdf del fumetto pronto per la stampa… insomma, come la donzella leopardiana, raccolgo fasci d’erba e mazzolin di rose come se non ci fosse un domani (…) e li porto in giro freneticamente, ornando qui e abbellendo là.

Poi arriva la domenica e la storia viene pubblicata.

Il fumettista festeggia così la sua domenica: gli amici comprano la sua opera, i più gli porgono dei complimenti generici, i più sinceri gli fanno notare i difetti, i lettori in generale si esprimono sui social, chi positivamente, chi negativamente, l’editore lo promuove, gli addetti al settore lo notano, gli addetti al settore non lo notano, va alle fiere, firma i suoi albi, si sforza di riconoscere quel tizio coi baffi e gli occhiali tondi che dice di conoscerlo dal ’97, e il cerchio della vita si ripete. Arriveranno altre domeniche e sarà, più o meno, sempre la stessa cosa.

Ora, è più appagante creare o pubblicare? Cosa conta di più?

La risposta è troppo soggettiva. Io mi sento più leopardiano. È impagabile la soddisfazione che mi da aggiustare una scena che prima non funzionava, rendere credibile un passaggio narrativo che rischiava di rovinare l’intera storia, modificare un personaggio per renderlo più interessante nel contesto che ho creato, optare per un finale più semplice ma più chiaro… ma del resto senza pubblicazione non muoverei un dito. È da quando ho 20 anni che non riesco più a scrivere per me stesso.

Intendiamoci: il fumettista non pubblica tutto ciò che crea. Ma crea tutto ciò che vuole pubblicare.

E qui ci metto tutti, nessuno escluso. Nessun professionista del nostro settore, noto o meno noto che sia, disegna o scrive senza avere almeno una vaga idea di chi potrebbe essere interessato a vedere o leggere le sue cose. Se piace o no, non importa.

È impossibile creare senza pensare a chi potrebbe piacere ciò che facciamo.

Anche l’autore più introverso e ostinatamente ermetico ha in mente un suo target. Probabilmente lui stesso e la sua setta, ma è comunque un pubblico. E se l’editore, nel senso di colui che sgancia i soldi per la stampa, è il suo papà, è comunque un riferimento concreto su cui basarsi e basare il proprio talento, piccolo o grande che sia.

Abbiamo bisogno di sapere che la domenica arriverà, altrimenti non ci si alza dal letto nemmeno per mettere su il caffè.

Pier Paolo Pasolini, non ricordo in quale film, fa dire a un personaggio una frase che mi si è marchiata a fuoco nella mente… (facevo più bella figura se dicevo “PPP una volta disse”. Wiki mi dice che il film è “Il Decameron” ed è Pasolini stesso, nel ruolo dell’allievo di Giotto, a pronunciare la frase. Ma certo, ora ricordo. Facile).

PPP una volta disse: Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?

La fase rem della creatività è una droga. È innegabile. Mi viene in mente un capitolo dell’autobiografia di Anthony Kiedis, il cantante dei Red Hot Chili Peppers, in cui affrontava la fuoriuscita dal gruppo dell’ormai leggendario John Frusciante poco dopo la registrazione del loro capolavoro “Blood Sugar Sex Magic” nel lontano ’91. Nella villa losangelina in cui la band si era barricata per mesi per sfornare i pezzi che li avrebbero resi famosi in tutto il mondo, si era creato un clima perfetto, un perfetto equilibrio tra tutti e quattro i musicisti e il poliedrico produttore Rick Rubin. Si improvvisava molto, si incideva, si rifaceva, si suonava ininterrottamente per ore, finché quelle 17 tracce non risultarono perfette in ogni minimo arrangiamento, mixaggio, suono, sovraincisione, esecuzione. Il disco uscì, fu un successo spaventoso e seguì un tour mondiale. Solo John non avrebbe voluto più uscire da quella villa. Avrebbe voluto continuare a incidere, arrangiare, fare, rifare, provare nuovi pezzi, non per ampliare il disco, che era già bello lungo, ma per continuare a creare. Voleva vivere un eterno sabato del villaggio. E infatti fu talmente disgustato dalla domenica (Soldi, Sesso, Successo… che schifo!) che lasciò il gruppo e diventò il titolo di un romanzo d’esordio italiano.

Ebbene, tutta ‘sta menata nasce dal più lungo sabato del villaggio che abbia mai vissuto in tutta la mia vita professionale. Un sabato lungo sei anni.

In questo interminabile sabato ho visto e fatto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare… ho scritto scene in cui divinità egizie organizzavano orge con mummie e il cattivo di un videogioco del futuro faceva esplodere il palazzo di una città, ho descritto l’amore platonico di un anatomopatologo verso un cadavere e tolto tutte le “g” di troppo a ogni “ggiovane” inserito in dialoghi scritti 20 anni fa…

…ma ogni volta il pensiero andava a una domenica in particolare che stentava ad arrivare. Tanto che, col tempo, mi ero pure dimenticato che un giorno avrei festeggiato. I preparativi erano già stati fatti, era tutto in ordine, la tavola apparecchiata, i fottuti fiori posizionati dove andavano posizionati, ma gli ospiti tardavano ad arrivare. E io mi addormentai sul divano. (il mio correttore di bozze interiore mi ordina di piantarla con l’allegoria leopardiana. Adesso.)

Ora però c’è una data. Finalmente uscirà una storia che ho scritto un sacco di tempo fa e avevo un po’ dimenticato. Sarà un piacere rileggerla e chissà che effetto mi farà, perché nel frattempo non dico che ho cambiato gusti e rivoluzionato il mio stile ma, insomma, qualcosa in me si è evoluto e qualcos’altro involuto. Fondamentalmente sono la stessa persona di allora, ma con qualche piccola differenza. Ho smesso di fumare, per esempio.

Forse mi piacerà ancora quella storia, forse non mi piacerà più. Lo saprò solo quando la leggerò stringendo in mano della carta stampata. È forse la prima volta che sono pronto a sorprendermi così tanto per qualcosa che ho scritto.

E solo allora capirò se stavolta sarà stato più appassionante godersi l’attesa o brindare nel giorno del Signore (e alla faccia del mio correttore di bozze interiore aggiungo: che la festa cominci…)

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4 thoughts on “Il sabato del villaggio

  1. Diciamo che quella tavola è una fantastica sintesi del mondo C&H: disegno eccelso, la metamorfosi per niente esibita di Hobbes, il palpabile clima di vita vera, il modo struggente in cui si aspettano. E senza una parola. Capolavoro.
    Un abbraccio.

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