La ballata del tempo perduto: la prima stagione di Lukas

La ballata del tempo perduto: la prima stagione di Lukas

Mentre Lukas si appresta a tornare in edicola per la seconda stagione, vi proponiamo un’articolata analisi dei primi dodici episodi della seria bonelliana ideata da Michele Medda e Michele Benevento.

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Non dobbiamo avere paura di perdere qualcosa, perché il tempo ce lo toglierà comunque, presto o tardi.

Si possono condensare mille e più pagine di fumetto nella sola battuta di un personaggio? Forse no. Eppure, per cercare di cogliere almeno alcune delle tante suggestioni proposte nei suoi dodici episodi da Lukas, l’orrorifica (mini)serie bonelliana nata dalla penna di Michele Medda e dalla matita di Michele Benevento, mi sembra giusto partire proprio da qui, dalla voce del protagonista.
Lukas fa questa amara constatazione nel corso di Mostri, epilogo finale di stagione – come si usa dire ormai nel fumetto, mutuando il gergo drammaturgico dei serial televisivi americani – in cui assistiamo all’implosione, anche letterale della realtà finzionale del personaggio, anzi dovremmo dire di due realtà.

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L’eroe dei due mondi

Con Lukas, Medda & Co. mettono in scena due mondi paralleli, quello ordinario degli umani e quello straordinario dei ridestati. Questi ultimi sono “zombie 2.0” che hanno barattato i fragili limiti dell’esistenza naturale con la condizione di eterni non morti al prezzo di un’insaziabile fame di carne umana. Singolare dieta che non impedisce ai ridestati di “vivere tra noi”, per giunta agiatamente, grazie alle loro prerogative sovrumane e alla potente rete interna di connivenze sviluppata nel tempo.

25 lukasAll’inizio della vicenda, i due mondi procedono nell’indifferenza reciproca: gli umani perché non ne sanno abbastanza, i ridestati perché sanno troppo. A metà strada tra le due dimensioni, si pone Lukas, un ridestato consapevole della sua condizione, ma non della sua origine. E’ questo eroe socratico che “sa di non sapere” l’elemento d’innesco della drammaturgia seriale. Il suo viaggio verso la (ri)scoperta di una verità personale diventa anche quello dei lettori. Il racconto si sviluppa infatti “a focalizzazione zero”, vale a dire che chi legge ne sa sempre quanto (e in alcuni casi di più) dei personaggi in scena, potendo seguire parallelamente le vicende tanto dell’eroe, quanto degli altri comprimari  (Wilma, Zara, Bianca, etc.).

Tutto questo fino all’epico e umanissimo finale in cui la riscoperta di Lukas/Jordan del proprio passato coincide con la distruzione di un certo equilibrio nella società “altra” dei ridestati. La battuta del protagonista citata all’inizio è, quindi, la figurazione drammaturgica del concept seriale stesso: questa idea di precarietà e irreversibilità del tempo,  applicata a un contesto di genere, che lo stesso Medda, nell’intervista rilasciataci qualche mese fa, riconosceva come il racconto più cupo mai scritto nella sua carriera ormai ultraventennale di autore.24_ridestati

The Times They Are a-Changin’

In senso “tecnico”, Lukas mette in scena l’irreversibilità del tempo a due livelli, o per meglio dire, su due linee narrative che vengono intrecciate in ogni episodio. C’è il “presente” che vede – nella singola storia – l’eroe alle prese con un avversario mostruoso ogni volta diverso. E c’è il “passato” che Lukas Reborn, alias Jordan Black, via via ricostruisce, ricucendo insieme i pezzi di una identità smarrita.

Le due linee di racconto, viaggiano per lo più affiancate, con una prevalenza del “presente” sul passato” che però ha sorprendenti e impetuosi ribaltamenti, come nel sesto episodio. Vero e proprio architrave della struttura seriale, il racconto programmaticamente intitolato Flashback funge da spartiacque tra la prima e la seconda parte della stagione laddove, al riaffiorare dei ricordi da parte del protagonista, corrisponde un precipitare degli eventi sul fronte dell’azione e un intensificarsi dei picchi emotivi nel vissuto dei personaggi.

Tutto questo fino all’helzapoppin’ dell’episodio epilogo Mostri , in cui le due linee temporali passato/presente finiscono per confluire nella piena riappropriazione da parte del protagonista del proprio vissuto. E’ interessante notare come anche in questo caso, nonostante il cambio d’indirizzo, la struttura “di puntata” venga comunque mantenuta, con il duello finale con un avversario mostruoso che riguarda entrambe le linee temporali…

A una così precisa metrica “da serial” si salda una altrettanto definita poetica (forse l’aspetto più originale della serie): l’irreversibilità del tempo diventa una struggente dialettica tra rimpianto e accettazione. In termini di sceneggiatura, questa cifra si manifesta, con particolare lirismo, nelle didascalie.

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Ritorno al Rainbow Canyon

Le didascalie sono un elemento canonico del fumetto anche in ambito bonelliano. Basterà ricordare che fu da una didascalia, oltre che dalle gole selvagge del Rainbow Canyon, che nel settembre 1948 saltò fuori Tex Willer. Fin dall’inizio la soluzione “letteraria” risultò talmente efficace nel supportare il ritmo visivo sincopato della striscia, da diventare in poco tempo un marchio di fabbrica per Gianluigi Bonelli e Galep. Da quel “primitivo” utilizzo in funzione di staffetta dell’immagine, le didascalie hanno poi assunto, nel tempo, altre funzioni emozionali e retoriche, accompagnando, e in qualche caso marcando, l’evoluzione stessa dei fumetti Bonelli.

Per esempio negli anni Settanta erano diventate ormai un elemento espressivo talmente tipico che, prima Gino D’Antonio ne La storia del West e poi Giancarlo Berardi in Ken Parker, arrivarono quasi ad abolirle per ribadire il loro affrancamento da certi stilemi. In seguito, con Alfredo Castelli su Martin Mystere e, soprattutto, con Tiziano Sclavi su Dylan Dog, le didascalie hanno ritrovato una moderna funzionalità “polifonica”, ora come “flusso di coscienza” dei personaggi, ora come colonna sonora del racconto. Negli anni Novanta, lo stesso Medda sulle pagine di Nathan Never – in storie come Gli occhi di uno sconosciuto o Dirty Boulevard – ha dato vita  ai più svariati esiti sperimentali.

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Rispetto a questa evoluzione, ciò che balza all’occhio nello sfogliare Lukas sono proprio le tante didascalie “tradizionali” disseminate nelle pagine, con la voce del narratore onnisciente che descrive gli stati d’animo del personaggio o le sue azioni. Una scelta espressiva che sembrerebbe di stampo neoclassico, se non fosse che, già nelle prime due magistrali pagine-teaser dell’episodio d’esordio Deathropolis, Medda e Benevento dimostrano di aver ricodificato un espediente usuale in una chiave inedita.  Le particolari didascalie a sfondo nero con lettering bianco diventano nell’architettura complessiva della tavola, tappe obbligate della “gabbia bonelliana” al pari delle vignette disegnate. Sono accenti, punti interrogativi e esclamativi, di una compiuta punteggiatura fumettistica che, sul piano del ritmo, delimita le cesure e innesca l’emozione.

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Non è secondaria nemmeno, la scelta di coniugare la prosa letteraria al passato. Di fronte alla vignetta che proietta sempre il lettore in un “qui e ora”, le didascalie suggeriscono quanto quel “presente” sia sempre ricompreso in un orizzonte temporale più ampio. L’irreversibilità del tempo non riguarda solo quanto avvenuto, ma anche quanto accade di fronte ai nostri occhi. Tutto si è già compiuto e quella irreversibilità non è uno scherzo del destino cinico e baro, ma il risultato delle scelte che i personaggi compiono. In questo senso, Lukas rappresenta una cupa fiaba morale, in cui ciascuno porta il peso delle proprie azioni, a partire dal protagonista.

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L’importanza di chiamarsi Lukas 

All’inizio della storia, il ridestato che non ha memoria e non ha identità deve inventarsene una nuova. Sceglie per nome la prima parola che trova su un’insegna di pizzeria. Poi, quando il falsario che deve fabbricargli dei documenti fittizi, gli suggerisce una firma con le stesse iniziali per nome e cognome, “perché porta fortuna”, Lukas declina e sceglie un cognome diverso e “programmatico”:  Reborn.

Nell’intervista rilasciataci qualche mese fa, Medda aveva ribadito come la scena costituisse  solo un rimando giocoso a una classica tradizione del fumetto  popolare (Donald Duck, Peter Parker, Matt Murdock, etc.), adottata anche in ambito bonelliano (Martin Mystere,   Dylan Dog, etc.), perfino dallo stesso  autore, con Serra e Vigna,  per Nathan Never.

Ma, riletta con il senno di poi, quella scelta esibisce  anche una piena (e ironica) consapevolezza  della diversa strada “seriale” intrapresa con il nuovo personaggio.  Lukas non può permettersi un nome de plume “fortunato” come i suoi fratelli maggiori in via Buonarroti, perché è figlio di una costruzione del racconto – e forse di una stagione del fumetto italiano – diversa da quella iterativa di Willer & Co. Mentre eroi e antieroi bonelliani cambiano in ogni episodio scenari, villains e (a volte) comprimari ma non modificano mai la loro originaria identitàil personaggio Lukas cambia insieme al mondo raccontato. La sua eroicità nasce e finisce con un arco di trasformazione drammaturgica, con la riappropriazione, umanissima e dolente,  del suo passato.

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L’abisso dei ricordi

Non è un caso che, in un corpo perfettamente supereroico, quasi “marvelliano” come quello del ridestato, capace di sforzi sovrumani e di guarigione istantanea,  Medda e Benevento inseriscano  anche  una mano ustionata, le cui ferite non possono mai rimarginarsi. Particolare perfettamente inserito nella “patafisica” di questo universo narrativo che marca, però, anche una concezione problematica dell’essere eroe di Lukas (e il suo status differente dagli altri ridestati).  Quella mano è la manifestazione plastica e figurativa di una “mancanza fatale”, come dicono gli sceneggiatori di Hollywood, la cui portata drammatica si comprende solo dopo aver letto Mostri.

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Per la verità, un espediente simile l’avevano utilizzato gli stessi Medda, Serra e Vigna, nel definire l’aspetto di Nathan Never. I capelli bianchi del malinconico detective del futuro erano testimonianza tangibile di un dramma familiare che, in L’abisso dei ricordi (scritta proprio da Michele Medda), scoprivamo a essere alla base del vissuto doloroso dell’eroe. Ma quei capelli rappresentavano comunque una caratterizzazione esterna non dissimile dall’abito sempre uguale di Dylan Dog o alla benda sull’occhio di Nick Fury.

In quei casi, l’elemento patemico viene confinato in un imprinting seriale, una memoria fissa “di sistema”  che riaffiora di tanto in tanto negli episodi per riconfermare il carattere del personaggio, mentre tutto il resto delle storie è “memoria ram”, destinata a rinnovarsi il mese successivo. Al contrario Lukas, per quante volte possa morire e rinascere, resta condannato a portarsi dietro in ogni episodio la sua cicatrice psicologica, ancor prima che fisica.

C’è solo un modo

2_un_modoLa famigerata continuity seriale diventa, nei termini di questa cupa irreversibilità del tempo perduto, la dannazione dell’eroe. Si tratta di una “tipica” interpretazione di genere nero che ritroviamo in altri fumetti e romanzi, ma che rappresenta una sostanziale novità per la factory di Via Buonarroti.

In quest’ottica, tenendo da parte ogni considerazione estetica, il personaggio di Medda e Benevento si fa portatore di una radicale modernità espressiva. Forse solo Greystorm aveva abitato con la stessa irrequieta problematicità il formato bonelliano.  Ma lì restavamo nel regno del puro “sense of wonder”. Con Lukas, invece, quella problematicità ci bracca all’uscita dal supermercato, salendo in metropolitana la mattina, in auto nel traffico nell’ora di punta…

E’ la fiaba contemporanea, realistica, di un mostro “buono” condannato alla stessa fame crudele che anima i mostri “cattivi”. Il suo agire per il bene è figlio di una pietas per il male, di una partecipazione umanissima al destino dei propri simili. Lo cogliamo bene in un’altra battuta di Lukas nell’episodio d’esordio, quando a un amico trasformatosi in ridestato, dice:

Non posso lasciarti andare perché rifaresti quello che hai fatto. Una volta che hai ceduto alla fame non puoi più controllarla. Quindi io non devo proteggere te, Janko. Devo proteggere gli altri. E c’è solo un modo…

In quel “solo un modo” Medda e Benevento definiscono il programma seriale dell’eroe ma anche il programma autoriale di un fumetto popolare più vivo che mai.

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Abbiamo parlato di:
Lukas #1-12
Michele Medda, Michele Benevento e altri (Luca Casalanguida, Frederic Volante, Andrea Borgioli, Fabio Detullio, Werner Maresta, Massimiliano Bergamo & Vincenzo Acunzo).
Sergio Bonelli editore, 2014-2015


BIBLIOGRAFIA MINIMA

Moreno Burattini, “La gabbia” (dal blog “Freddo cane in questa palude”)
Marco D’Angelo “Lukas, Nathan e i filosofi greci: intervista a Michele Medda – Prima e Seconda parte
Michele Medda “Che cos’è il bonelliano”

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