In arte: Igort

In arte: Igort

La nostra prima interivsta a Igor Tuveri, in arte (e per l'arte): Igort.

IgortLei ha vissuto in prima persona quello che viene considerato il periodo migliore del fumetto d’autore in Italia. Per chi come me ha solo il racconto di quel periodo, mi chiedo se allora si percepisse l’eccezionalità del momento. Si tratto’ di una serie di coincidenze? Era il momento storico/politico, o cos’altro?
È molto difficile rispondere a questa domanda. Io avevo poco più di vent’anni e sembrava tutto normale. Voglio dire che la sensazione di fermento e genialità era diffusa, sia nella musica che nelle arti grafiche nel suo complesso. C’erano molti talenti con i quali si viveva gomito a gomito. C’erano delle riviste che furoreggiavano in edicola. Oggi la situazione è cambiata, si è senz’altro più colonizzati dai materiali stranieri e il panorama è meno estroso. Ma alcune cose sono, a mio avviso, migliori di ieri. Oggi abbiamo un fumetto adulto e uno stile meno urlato e provocatore. Con le provocazioni ci si diverte, ma alla lunga non reggono e dopo dieci anni a guardarle ci si rende conto di come siano legate alla contingenza, a un periodo che oggi è comprensibile solo se si ricorda come vivevamo.

Cosa ricorda del “mood” di quei tempi che oggi non ritrova?
Il gusto per la fantasia e la voglia di leggere cose non pre-digerite. Oggi siamo più pigri. Complice, forse, anche la televisione.

Quale persona (in ambito fumettistico e non) le è rimasta più impressa di quel periodo?
Alberto Breccia: un gigante del fumetto, una persona dal cuore grande e geniale nella visione. Breccia era un grande artista, pubblicato in tutto il mondo, eppure non si accontentava. Non era qualcuno che amava ripetersi. Già allora mi impressionava, ma visto con gli occhi di oggi direi che si tratta di una delle più grandi personalità del secolo.

Come è cambiato, secondo lei, il modo di proporre il fumetto dagli anni 80 ad oggi?
All’epoca sembrava possibile fare qualunque cosa. E si pensava in termini di “taglio corto”, voglio dire che si scrivevano e disegnavano racconti brevi. Era l’epoca del frammento. I libri non erano tanto frequenti, non li si faceva spesso. C’erano Pratt e Crepax che erano regolari in questo, ma per uno della mia generazione riuscire a pubblicare un volume era una cosa rara. Il modo di oggi ha cambiato radicalmente le regole. Si pensa in termini di racconto lungo adesso. E i romanzi a fumetti sono tanti, davanti a lavori di due, trecento pagine, non si stupisce più nessuno.

In Francesco Stella è presente una sua toccante quanto semplice “improbabile biografia” di Paz. A distanza di quasi quindici anni dalla morte, Pazienza è forse colui che, anche per motivi decisamente sfortunati, ha trovato una sua consacrazione all’interno della cultura più istituzionale. Qual è a suo giudizio un aspetto di questo grande autore che non è stato approfondito nel modo giusto o è stato travisato?
Pazienza era un autore con il quale ho vissuto delle cose; un compagno di strada, geniale e giocherellone. Il mio scritto è solo il ricordo di un percorso che abbiamo fatto, in parte, insieme. Se dovessi valutare il peso del suo lavoro oggi, ritengo che metterei l’accento sulla qualità di narratore tralasciando magari l’aspetto più evidente di virtuoso del disegno che negli anni ottanta sembrava così importante. Quello che oggi resta, probabilmente è questo; uno sguardo poetico e delicato, violento e straziante.

Tornando alle sue opere, sia Sinatra che 5 è il numero perfetto sono due storie nere ambientate negli anni 70. Da cosa deriva la scelta di questo periodo? È stata una scelta emotiva, perché risvegliano in lei delle precise immagini, o razionale, in quanto le giudica adatte alla sua narrazione?
Gli anni settanta sono stati un periodo di grande cambiamento sia culturaleche sociale, in Italia e altrove. Per quella generazione, più che per laprecedente, il cinema ha costituito una forma di nuova letteratura. Seprendiamo in esame molti dei film di quel periodo è facile constatare comesi fosse particolarmente legati a certe tematiche umanistiche: la metropoli,la violenza, l’emarginazione, la solitudine, i riti di gruppo. Raccontarequesto per raccontare l’uomo era uno dei motivi di principale interesse.Inoltre quello è un periodo che ho vissuto in maniera conscia, essendo natoalla fine degli anni cinquanta. Tutto questo mi è chiaro in maniera cosìlogica solo ora, perché è passato del tempo e ho preso distanza. Mi sonoposto io stesso determinate domande, ma la verità è che quando si fa unastoria le cose si intrecciano e i motivi di fascino sono sempre uniti alleesigenze che man mano si vanno chiarendo. Per esempio è chiaro che quelperiodo per un personaggio come Johhny Lo Cicero, appassionato di musica,rappresenta un momento cruciale, la morte di Elvis, la nascita della disco eil principio del punk. Altre motivazioni sono legate al fatto che gli annisettanta ci sembrano vicini, possono quindi fare da specchio meglio, perfare un esempio, degli anni quaranta, che sono entrati nella categoria delmito.

Lo Specchio è la trasposizione in chiave noir di un frammento dellaBoheme di Puccini, in Sinatra la musica è una componente fondamentalegià dal titolo, 5 è il numero perfetto sembra pervaso dalla sonoritàdel dialetto. La musica pare una componente non indifferente delle sueopere. Ascolta musica mentre scrive o disegna, e in generale quanto lamusica “entra” nelle sue opere?
Mio padre era compositore e io stesso ho inciso una decina di dischi. Lamusica mi interessa come elemento di racconto, ma più in generale comestruttura. I silenzi di Sinatra o di 5 sono elementi “parlanti”, ma conintensità diversa. La mia esperienza con gli editor giapponesi mi ha aiutatomolto a mettere in luce questo tipo di ritmi. Senza volerla fare troppodifficile penso che potere raccontare con una grammatica fatta di questielementi permetta di creare ritmi narrativo-visivi al pari di una partituramusicale.

La scelta della colonna sonora avviene prima, definendo l’atmosferadella storia, o dopo, una volta scelta?
Non sono sicuro di capire la domanda. Se per colonna sonora intende ciò cheascolto mentre lavoro direi che le cose sono del tutto interdipendenti. Stodisegnando una storia jazz ambientata negli anni trenta e ascolto dagli”Eels” alle sonate per piano di Beethoven. È vero che qualche volta miscelgo una colonna sonora precisa, affine a cosa devo disegnare, ma è ungioco molto episodico. Bisogna naturalmente considerare che disegnare è unlavoro lungo e se dovessi ascoltare solamente una determinata musica (comecolonna sonora vera e propria, dunque) per dei mesi sarebbe davvero una cosaossessiva.

Sinatra ha un disegno volutamente meno ricercato rispetto al passato.È una scelta legata alla storia oppure è una evoluzione stilisticadestinata a ripetersi in futuro?
Sinatra è disegnato con una tecnica complessa: la bicromia applicataall’acquarello; si tratta di una tecnica piuttosto laboriosa che richiededue pellicole per ogni pagina. Per me ogni storia ha le sue esigenze e cercodi capire quale sia il modo migliore per raccontare questo o quel racconto.La trama è fatta di frammenti, raccontata a flash. Si svolge sudue piani temporali, il presente che è disegnato senza mezzetinte e ilpassato, ad acquarello. L’azzurro ha due intensità diverse per aumentarequeste due differenze temporali/stilistiche. Queste due realtà,narrativamente parlando, si intrecciano, stiamo raccontando un percorsoemotivo che porterà a una catarsi. Lo stile oscilla tra l’impressionismo(uso molto contrastato delle luci, segno vibrante) e l’espressionismo (ombre lunghe e prospettive deformate). Tutti questi elementi servono acreare un mood di racconto NON estetico. Non mi interessa il narcisismo anniottanta del bel fumetto illustrato. Per usare una metafora musicale trovoche molto fumetto sia legato ancora ad un’estetica vicina alla musica degliYes, io sono più interessato ai Massive attack o Portishead.

Come sente essere cambiato, o come ha deciso di cambiare, il suo modo diraccontare e di disegnare storie negli anni?
È una domanda molto complessa. In generale penso che l’interrogativosotterraneo sia sempre rimasto lo stesso, da una ventina d’ anni a questaparte: “quale è la tecnica migliore per raccontare quello che voglio dire?”Adesso mi pare di essere molto vicino alle prime cose che pubblicai, aiprimi degli anni ottanta. Penso a Baobab o a Sinfonia a Bombay, ma anche adaltre cose poco conosciute.

Lei possiede una tecnica espressiva molto duttile soprattutto nell’utilizzo del colore. Parlando della tecnica che utilizza Mazzucchelli in Big Man lei afferma: “rappresenta un omaggio alla tradizione povera della stampa, e quindi al fumetto nella sua essenza più potente e primordiale”. È questo il motivo che l’ha spinta all’utilizzo di questo tipo di colorazione anche nelle sue ultime opere?
Con Mazzucchelli si è parlato di questo. Entrambi amiamo la bicromia, ma per ognuno rappresenta qualcosa di diverso. Innanzi tutto questa tecnica di “bianco e nero arricchito” è un linguaggio che permette l’evocazione. E, per dire, molte delle recensioni pubblicate in Francia parlano dei colori di 5 è il numero perfetto, che, come sappiamo, è appunto una storia realizzata in bicromia. I colori sono quelli che la nostra mente attribuisce. Fatto salvo questo concetto che credo accomuni me e David, io penso che il nostro patrimonio culturale sia quello che rende diverso l’utilizzo. Mi spiego: in due parole il fumetto underground o d’autore in America è di solito in bianco e nero. Quindi quando David Mazzucchelli aggiunge un colore in un certo senso impreziosisce, dà un tocco artistico ad una stampa tradizionalmente povera, mentre il panorama europeo del fumetto d’autore è tradizionalmente più lussuoso, legato al colore. Quindi se io utilizzo la bicromia significa una scelta spartana. Una rinuncia al “lusso” della tradizione europea. Si è parlato molto dell’uso della bicromia in seguito all’ondata recente che proviene dall’America, ma se guardiamo bene questa tecnica era molto usata alla fine degli anni settanta da noi. E ancora prima nel fumetto seriale, per risparmiare. Io stesso avevo concepito una versione di un mio fumetto in bicromia rossa nel corso degli anni ottanta.

Nonostante sia forse oggi meno appariscente, la componente politica ècomunque presente nelle sue storie. È una esigenza che sentestrutturale per la storia oppure è più legata all’emotività del momento?
Il riferimento politico nelle mie storie non è mai molto esplicito. È5 è il numero perfettopolitico, questo sì, il non volersi adeguare ad estetiche precotte o avisioni preconfezionate di molto fumetto popolare.

In un episodio di Brillo apparso tempo fa su Linus, uno dei suoipersonaggi, Pinatubo (disegnatore arruolato per forza), dice nella sua maniera sgrammaticata “Scopro che le cose non sono quelo che sembrano. Mostrano la loro vera faccia solo se le si ferma con lo sguardo”. È proprio così per lei? Disegnare è una necessità per comprendere, prima che per comunicare?
Penso che comunque un autoreproceda per logiche “non logiche”: voglio dire che non ci sono, nellarealtà, delle scorciatoie che permettono di schematizzare determinatipercorsi. Se bevo un’aranciata, per esempio, lo faccio perché ho sete,perché mi serve la vitamina c, perché sono goloso, o perché mi ricorda lamia infanzia? A essere onesti direi tutte le cose insieme. Quando procediamoa creare una storia ci sono elementi di fascino e intuizioni che simischiano e vengono alla superficie. Spesso capisco le motivazioni che mihanno portato a occuparmi di un determinato tema dopo dieci, quindici anni.Altre volte non lo capisco mai e questi frammenti di racconto rappresentanosemplicemente “le tematiche” che mi stanno a cuore. Una sola cosa penso diavere colto, retrospettivamente, mi interessa raccontare l’uomo. Non l’eroe. A questo ci pensano altri tipi di fumetto.

Napoli è per lei una sorta di “seconda patria”. A cosa è dovuto questo amore per la città partenopea, e cosa dello spirito di questa città sente affine a se ed al suo modo di raccontare?
Per me Napoli è tante cose, è una metafora dell’esistere. Una città colta,piena di storia che è l’emblema di un certo spirito, a volte attribuitoall’Italia nel suo complesso. Per disegnare 5 è il numero perfetto ho lavorato “di sottrazione”, cercando di aumentare l’evocazione. Mi interessava una Napoli piovosa e deserta, che somiglia alla fase della vita di quest’uomo piccolo, un vecchio gregario della camorra cui uccidono il figlio. Per rappresentare questa Napoli, naturalmente, ho scattato centinaia di foto, ma quello che mi interessava era rappresentare il poco noto o il misterioso, addirittura. Ho parlato con persone che abitano i bassi dei quartieri e intervistato diverse persone del rione Sanità, o del quartiere Barra (che compare in un’altra storia). Ci sono addirittura dei riverberi, di quello che mi è stato raccontato, nella storia, ma, ripeto, il mio non è un documentario a disegni, bensì una storia drammatica.

Quanto crede debba incidere nel creare una storia a fumetti la propria esperienza di vita? È possibile scinderla completamente dal proprio processo creativo?
Non penso sia possibile scindere la propria vita da quello che si racconta, se si è onesti. Il tutto sta, a mio avviso, nella dose di consapevolezza. Intendo che posso raccontare storie di assoluta fantasia e poi, con il tempo, mi rendo conto che questo o quel dettaglio l’ho pescato da un ricordo, da una cosa che mi è realmente accaduta. Oppure magari che questa o quella struttura hanno significati più profondi, che risiedono nel mio subconscio. Altrimenti si può lavorare raccontando le cose che ci accadono tutti i giorni. Disegno quello che vedo, racconto quello che mi succede; allora il rapporto con la propria biografia è scoperto. Ma temo che anche in questo caso si tratti di fiction.

C’é una sua storia in cui ha riversato maggiormente se stesso? Se sì, qual è il sentimento con il quale adesso la rilegge?
Non ho mai praticato l’autobiografia sino ad oggi, non direttamente perlomeno, ma certo il Parador è una trasposizione della mia terra di origine: la Sardegna. Sul Parador ci sono decine di pagine ancora inedite, disegnate tanti anni fa; ogni tanto mi capita di rivederle: è un’ esperienza interessante. Osservo le cose disegnate e mi ricordo cosa volevo fare. Con il tempo cresce la tecnica, ma lo sguardo rimane più o meno lo stesso.

In Italia ci sono state importanti realtà editoriali del fumetto che non sono riuscite a creare un mercato di massa stabile come quello francese o giapponese. Rizzoli-Milano Libri, Granata Press, Macchia Nera, L’isola trovata, un numero impressionante di riviste dalla qualità media decisamente buona non sono, per motivi complessi e differenti, riusciti a creare una cultura del fumetto. Che cosa manca ancora perché questo avvenga?
Non sono d’accordo. In Italia, storicamente, esiste una cultura del fumetto; la nostra è una grande tradizione. Quello che manca è il sapere celebrare i nostri autori, cosa che in Francia è ovvia. Non sono esterofili nel mercato francese. Voglio dire che quando arriva la grande ondata del fumetto giapponese in italia spazza via tutto e si crea una frattura culturale, i lettori di manga non conoscono né leggono i fumetti italiani d’autore, per parlare in linea generale. Mentre in Francia, per dire, il fumetto giapponese si affianca a una grossa e imperturbabile tradizione, quella franco-belga e non ne viene minimamente scalfita. È una questione di memoria storica, in italia perdiamo il senso del ricordo e sostituiamo un fenomeno con l’altro (il fumetto americano, quello francese, quello giapponese). Tutto questo produce una cultura superficiale che cambia bandiera con il variare del vento e delle mode.

In una sua precedente intervista lei ha dichiarato che gli autori italiani hanno “incomprensibili difficoltà a raccontare storie con personaggi che somiglino alle persone come noi […] qualcosa che permetta di uscire dalla bidimensionalità narrativa”. Questo si evidenzia pure nella letteratura. Cosa ne pensa?
È vero, guardiamo troppo alle cose che vengono da fuori. E questo fa, inevitabilmente, di noi dei provinciali. La nostra letteratura è grande all’estero perché abbiamo inventato uno sguardo. Anche gli americani hanno inventato uno sguardo, ma se lo cerchiamo in casa nostra allora sarà facile rimanere delusi. Il problema è molto ampio, l’Italia soffre di un complesso di inferiorità. Crediamo che se è italiana una cosa non vale molto. Questo è patetico.

Lo ritiene un problema di globalizzazione culturale (e quindi distacco dai propri riferimenti)?
Non so dire. La nostra è una cultura antica, ricca. Basterebbe vivere in maniera consapevole.

La Coconino Press (www.coconinopress.com) non è la sua prima esperienza di direzione editoriale, ma, mi corregga se sbaglio, è quella in cui gode della maggiori possibilità di scelta. Quali sono state, a distanza di tre anni dall’inizio di questa fortunata avventura, le sorprese e le delusioni maggiori?
Esiste un pubblico che frequentava il fumetto d’autore negli anni ottanta. Questo pubblico era rimasto quasi “orfano” e la comparsa della Coconino ha permesso il riprendere il filo di una narrazione personale, lontana dall’impatto seriale, che si era interrotta. La sorpresa semmai è stata il fatto di constatare che questo pubblico esiste sempre e che se gli si danno opere complesse e adulte le legge volentieri. Anche autori considerati in passato difficili oggi sono letti con avidità.

Quello che più mi incuriosisce è la sua attuale doppia veste di autore e direttore editoriale. Al lettore piace l’idea (forse un po’ ingenua) di un artista romantico dedito ogni momento alla sua arte o alla distruzione di se stesso o magari ancora al gesto estremo. Come riesce a conciliare, o forse come riesce a separare, il momento gestionale da quello creativo?
Semplicemente non credo a questa visione ottocentesca dell’artista eroe. La mia vita è quella di uno scrittore. Io mi sveglio e comincio la mia giornata lavorando sodo. Scrivo o disegno, leggo e prendo nota. I fumetti che trovo interessanti li faccio tradurre in Italia, e quelli che ricevo dagli autori li commento con lo stesso criterio. Non trovo nulla di strano e orribilmente industriale in questo. La Coconino ha per sua scelta una dimensione casalinga. Ci piace questa dimensione piccola, a misura d’uomo.

Lei, e un altro autore come Giuseppe Palumbo, ha evidenziato quanto sia stata importante l’esperienza con il mercato giapponese per affinare la vostra espressività, anche grazie ai consigli dell’editor, che nell’universo fumettistico dei manga ha un alto potere decisionale anche sul contenuto della storia. In questo genere di rapporti, non c’é il pericolo che l’artista “pieghi” la sua espressività ad un consenso più ampio?
Ma no, e perché poi? La mia esperienza con Yasumitru Tsutsumi, il mio editor, ha la dimensione di una vera e propria collaborazione. Non vedo cosa ci sia di strano in questo. L’editor è una figura in Giappone solitamente piuttosto esperta, un drammaturgo in poche parole; i suoi consigli o critiche sono essenziali soprattutto se si considera che lavorare per il mercato giapponese significa imparare a parlare una nuova lingua. Il manga è piuttosto differente per scansioni e concezione del racconto dal fumetto come noi lo concepiamo in occidente. Lo scopo di qualunque editore è comunque quello di vendere libri, come un fornaio vuole vendere il pane: non va demonizzato. C’é chi fa il furbo e chi invece crede che per essere acquistati e letti sia necessario fare un buon lavoro. Io non ci trovo nulla di male se un mio libro vende un paio di milioni di copie, a patto che sia un lavoro onesto, che dica delle cose. Il mio unico discrimine è questo. Non ho paura del mercato. Non è il diavolo per me. Il diavolo è l’idiozia e la scarsa qualità.

Riguardo alla sua esperienza giapponese: cosa l’ha stupita in generale di questo paese al di là degli aspetti meramente fumettistici?
In Giappone c’é molto conformismo. Mi stupisce a volte anche una certa ingenuità. D’altronde è il paese degli opposti. Mi piace invece la serietà con la quale si lavora.

Coconino ha il merito di aver diffuso in Italia fumetto giapponese di elevata qualità. Qual è l’aspetto più eclatante del fumetto giapponese che ancora non è emerso nel mercato italiano o europeo?
In Giappone c’é un fumetto di qualità capace di raccontare in maniera molto sottile la vita semplice, i drammi quotidiani, i fallimenti. Ecco, forse del Giappone conosciamo ancora solo il mito, mentre manca l’altro aspetto, quello di chi non riesce, la visione amara del perdente. Ho letto storie molto toccanti di autori ancora completamente sconosciuti in Italia.

Dei mangaka pubblicati da Coconino merita particolare menzione, non solo per la sua estrema “violenza narrativa”, Suehiro Maruo, capace di unire gli incubi delle leggende tradizionali giapponesi alla espressività tipica degli artisti orientali più famosi (Yukio Mishima, anche Akira Kurosawa, “Beat” Kitano). Lei ha conosciuto personalmente questo autore? Che impressione ne ha tratto?
Sì, l’ho conosciuto, visitato nei suoi diversi appartamenti, ho viaggiato con lui, l’ho fatto venire in Italia ed abbiamo parlato delle cose che amiamo. Abbiamo anche pensato di fare una storia insieme. Maruo è un disegnatore unico nel suo genere e un raffinato narratore delle atrocità contemporanee. A mio avviso un Ballard del fumetto nipponico.

Coconino ha pubblicato i racconti di Adrian Tomine. Personalmente credo che assieme a Clowes sia colui che meglio narra a fumetti la propria generazione. Conosce personalmente Adrian Tomine? Quanto pensa sia determinante la componente autobiografica nei suoi racconti?
Ho fatto venire Adrian a Bologna, abbiamo fatto incontri con il pubblico e partecipato allo stesso seminario. Adrian è un narratore che trae spunto da un’attenta osservazione del reale. L’elemento di fiction credo sia minimo. Nel senso di invenzione tout court; ogni storia a fumetti è in sé una fiction.

Coconino ha editato anche volumi di David Mazzucchelli che mi pare di capire conosce personalmente. Ci saranno altre opere di Mazzucchelli?
Se David produce noi pubblichiamo. Attualmente è al lavoro su un romanzo. Ci pensa da dieci anni, ora lo sta disegnando. Aspettiamo.

Quali sono, a suo giudizio, le qualità maggiori di David Mazzucchelli?
David è una persona che non si accontenta dei risultati raggiunti. Lo stimo molto.

Che cosa pensa degli e-comics e più in generale del rapporto tra internet e fumetto? Si potrà andare oltre la semplice promozione/divulgazione/vendita che già esiste in questo momento?
Immagino di sì. Il punto comunque, al di là della curiosità e del media utilizzato, è quello che si ha da dire. Non mi inoltrerei in una dissertazione sulle potenzialità del mezzo. Anche quando uscì il videoclip ci si chiedeva “é arte?”, “adesso la musica cambierà?”; è il tempo che cambia le cose, inevitabilmente. Bisogna imparare a non strapparsi i capelli o fare i funerali ai media innanzi tempo.

Il computer è un mezzo, un’estensione del proprio essere e di conseguenza della propria capacità di creare. Non crede, viste le potenzialità degli attuali software, che questi siano sotto o male utilizzati (con qualche eccezione proveniente ancora dal Sol Levante) nel produrre fumetti?
Sì, penso che si potrebbero fare molte cose, ma siamo capaci di usare il computer davvero? Io non credo e per far sì che un autore si esprima liberamente come può su carta, bisogna attendere che la tecnologia sia più semplice. Altrimenti un autore deve servirsi di assistenti e qualcuno deve pagare questo tempo impiegato.

Nel suo sito personale (www.igort.com) viene documentata una prolifica attività nel fumetto per bambini. Quali sono le doti che un autore deve possedere per realizzare questo tipo di storie?
A mio avviso deve conoscere il linguaggio dei bambini per poterne colpire la fantasia, ma è necessario superare i pregiudizi secondo i quali bisogna fare storie sdolcinate. Le fiabe dei Grimm, o Pinocchio, sono storie cupe e avvincenti, il mistero è un elemento che cattura. Molti adulti che fanno i redattori o i genitori hanno un atteggiamento di basso profilo e ignorano come sia costituito il mondo di un bambino.

Che tipo di momento è quello in cui disegna Gli sdentati: una catarsi, un’ astrazione, un momento di particolare concentrazione?
È un momento di divertimento in cui cerco di apprendere a parlare con fantasia.

Sempre sul suo sito è presente una sezione “memorabilia” che raccoglie foto di eventi significativi nella tua carriera. Ho trovato la cosa piuttosto originale e ben fatta, crede che in futuro riuscirà a tenere aggiornata questa sezione e più in generale tutto il sito?
Il sito è aggiornato continuamente, registra le mie mostre e l’incontro con il pubblico e con gli amici autori nelle diverse occasioni (fiere, festival etc). Pero’ il sito è per me lo spunto per parlare di quello che non si vede nei fumetti, per dire perché ho voluto usare una certa tecnica anziché un’altra, per raccontare cosa avevo in testa quando ho fatto un dato montaggio.

Che rapporto ha con il suo sito? Lo cura personalmente?
Io e la Webmaster, Susanna Cané, lo curiamo personalmente. Io scrivo e disegno per il sito piccole cose che contribuiscono ad arricchirlo. Ricevo molta posta, rispondo, ricevo proposte di lavoro, è molto stimolante. Sono piuttosto felice della possibilità di essere reperibile dai miei lettori e di potere avere un contatto con loro.

Crede che in futuro potrà creare qualcosa che risieda solo on line?
Assolutamente sì.

In una sua precedente intervista ha parlato di una possibile trasposizione animata di Sinatra. Ci può dire qualcosa di più su questo progetto? Non teme che si disperda qualcosa trasportando la storia sullo schermo?
Ogni cosa ha una sua forma; Sinatra aveva molta musica nella mia testa. Le atmosfere che gioco con i silenzi possono essere arricchite da contrappunti con la musica. I montaggi rallentarsi e accelerare. Non so se questo progetto vedrà la luce, ma non temo i confronti con il fumetto. Basta pensare liberamente.

Quale artista del passato crede che meriterebbe, secondo lei, di essere rivalutato?
Sergio Tofano che ha la statura di un Feininger o di un Mc Cay.

Ad Igort vanno i nostri ringraziamenti per la disponibilità.
Igort è presente sul web sul proprio sito personale, www.igort.com, e con il sito della Coconino Press,www.coconinopress.com.

Intervista concessa per e-mail ad Aprile/Maggio 2003

Igort

Igor Tuveri in arte (e per l’arte): Igort. Cartoonist sin dal 1979, esponente di spicco della “Golden Age del fumetto colto italiano”, durante il quale fonda – assieme a Marcello Jori, Giorgio Carpinteri (compagno di classe alle scuole medie), Lorenzo Mattotti, Jerry Kramski e Daniele Brolli – il supplemento Valvoline Motorcomics, nato nel 1983 sulle pagine di Alter. Autore, illustratore, musicista, direttore editoriale, collabora a riviste storiche come Linu Linus, Alter, Frigidaire, Metal Hurlant, L’echo des Savanes, Vanity, The Face, Comic Morning. Ne fonda, o collabora alla fondazione di diverse altre: Pinguino (sulla quale esordisce), Dolce Vita, Fuego, Due e la recente Black. Pubblica i suoi racconti inti in Europa, America e Giappone, dove collabora con la casa editrice Kodansha e l’editor Tsutsumi (lo stesso di Masashi Tanaka e Jiro Taniguchi). Nel 2000 fonda e dirige la Coconino Press (il nome proviene dal paese immaginario dove dove vive Krazy Kat di George Joseph Herriman) per il quale escono le sue ultime due produzioni (Sinatra e 5 e’ il numero perfetto), e prossimamente uscira’ una versione “de luxe” del Letargo dei sentimenti. Grazie a questa casa editrice vengono prop proposti in Italia talenti del manga quali Jiro Taniguchi, Hideji Oda (Dispersion e il mondo di Coo) e Suehiro Maruo (Notte putrescente, Midori e Il vampiro che ride) e importanti autori europei ed americani come David Mazzucchellchelli, Adrian Tomine, Daniel Clowes, Seth, Loustal, Baru, lo storico binomio Munoz/Sampayo, David B., Andrea Pazienza…

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