11-09-2001: La seconda ondata

11-09-2001: La seconda ondata

11-09-2001 - Sesta e penultima parte dell'approfondimento sugli effetti dell'11 settembre 2001 sul fumetto americano. In questa puntata, da Bruce Springsteen a Spike Lee, da Capitan America a Stormwatch: Team Achilles.

L’impulso che il disastro del World Trade Center impresse all’assopita industria del fumetto non si esaurì con le opere benefiche (o di denuncia, come WW3 Illustrated) dei mesi immediatamente successivi. Nei piani editoriali delle maggiori case, infatti, iniziavano a comparire nuove testate pronte ad accogliere le tematiche sollevate dalla nuova situazione geo-politica. Di più: in tutti i settori dell’entertainment (così come per i benefit della prima ora) si sentiva il bisogno di una riflessione più misurata sull’avvenimento e le sue ripercussioni sulla realtà.

Bruce Springsteen, sempre attento a tematiche sociali, mette in cantiere The Rising, raccolta di canzoni pesantemente influenzata dai fatti di Ground Zero (Mi sono svegliato con un cielo vuoto questa mattina, canta Springsteen in Empty Sky, uno dei pezzi più ispirati e riusciti dell’album); l’ultimo film di Spike Lee, La venticinquesima ora, è insieme epopea di un uomo e di una città stordita, e paga il suo tributo alla Grande Mela già dalle prime immagini, raffiguranti i due fasci di luce impiantati in piena Manhattan a ricordo delle torri.
Serial tv come E.R. e The Third Watch (in Italia Squadra Emergenza) dedicano un episodio all’attentato, il cantautore Steve Earle compone un concept album, Jerusalem, un collettivo di registri mette insieme 11 settembre 2001, raccolta a tema di cortometraggi.
Sono solo esempi di come le tensioni e le preoccupazioni dei mesi successivi si articolarono in tutte le arti a disposizione dei creativi statunitensi.

La venticinquesima ora

L’unica casa editrice che si è fatta un certo scrupolo è stata la DC (anche se con Authority ha francamente esagerato) le altre etichette hanno approfittato del rigurgito di patriottismo tanto caro al governo Bush e agli americani fino a poco tempo fa. Basti pensare al successo di G.I. Joe o al rilancio di Captain America (che poi abbiano affidato Cap allo scrittore meno adatto è un altro discorso), o a Call of Duty (di Chuck Austen, che poi è andato a finire proprio su Cap), progetti rispettabilissimi ma fatti per vendere un certo tipo di fumetto.

Questa osservazione di Alessio Danesi, a parere di chi scrive, è esatto a metà: se è davvero possibile etichettare Call of Duty (una collana con protagonisti i vigili del fuoco di New York) come serie nata con lo scopo di sfruttare il rinnovato spirito nazionalista americano (tra l’altro piuttosto goffamente, visto che la serie è stata cancellata per scarse vendite), è pur vero che il rilancio di Captain America sotto l’ala protettiva dell’etichetta Marvel Knights era già stato deciso prima dell’11 settembre, anche se dopo quella data si decise di creare un ciclo narrativo ad hoc, che affrontasse la nuova situazione internazionale. The Enemy, primo ciclo del Capitano post-11 settembre (in Italia su Capitan America: L’Avversario, miniserie di 3 albi per la Panini Comics), a firma di John Ney Rieber e John Cassaday è, per forza di cose, un fumetto molto emozionale, ma allo stesso tempo abbastanza lucido. Rieber riesce dove Straczynski ha fallito, presentandoci una storia non priva di una certa retorica ma senza eccessive cadute di stile, mantenendo una prosa asciutta e priva delle barocche acrobazie letterali dello scrittore di Amazing Spider-Man 36. Il timore di un Capitan America fascistoide, o comunque conforme alla politica di guerra preventiva statunitense, viene fugato fin dalle prime pagine, con Steve Rogers/Capitan America che si rifiuta di partire per la guerra in Afghanistan. E lo stesso Rieber, per bocca di Cap, fa sapere che la guerra non può essere l’unica risposta valida:

Possiamo dargli la caccia. Possiamo lavar via ogni macchia insanguinata del loro terrore sulla terra. Possiamo trasformare ogni pietra che hanno toccato in polvere, ogni filo d’erba in cenere. Ma non servirà.

Prodotto della più grande casa mainstream d’oltreoceano, Capitan America: l’Avversario non è certo un fumetto di denuncia, ma nemmeno uno strumento di propaganda (come fu il Capitano delle origini, a firma di Joe Simon e Jack Kirby). La posizione critica assunta da Cap nei confronti della politica internazionale degli USA (che non si esaurisce certo con la frase citata sopra) ha fatto guadagnare a J. N. Rieber l’accusa di essere troppo sbilanciato e di pendere troppo “a sinistra”. E, per una serie di divergenze creative con la dirigenza Marvel (mai del tutto chiarite), Rieber si è trovato costretto a interrompere la propria attività su Captain America, sostituito dall’onnipresente Chuck Austen.
Ma il primo numero de L’Avversario offre, senza faziosità, convincenti visioni di una New York violentata, stordita ma decisa tornare in fretta alla normalità aggrappandosi a quello che può, anche a ideali desueti e fuori moda come il sogno americano e il suo simbolo, Capitan America. Personaggio che poche volte, nel corso della sua storia editoriale, ha avuto il pregio di essere “attuale”. Oggi nel bene e nel male è così.

INTERVISTA A JOHN NEY RIEBER

Abbiamo il piacere di ospitare su queste pagine John Ney Rieber, con il quale cercheremo di chiarire i punti oscuri dell’avvicendamento con Chuck Austen, e i suoi pareri riguardo al comicdom post-11 settembre.

La tua storyline di Capitan America, L’Avversario, ha suscitato pareri contrastanti. Eppure sembra un lavoro bilanciato e imparziale, primo di faziosità retoriche.
Mi fa veramente piacere che abbiate trovato il mio lavoro su Cap bilanciato e imparziale. Molta gente non ha interpretato “L’Avversario” in questo modo. Ma, di certo, questo era il mio obiettivo. Può sembrare teatrale dire che io sia morto su quelle sceneggiature, ma è la verità. Nessuno fu più sorpreso di me quando alcuni lettori qua e là accusarono “L’Avversario” di essere una storia di sinistra, anti-americana, comunista. Io stavo cercando di ritrarre Cap come un uomo di coscienza. Asservito, anima e cuore, al sogno americano: la visione ideale di quello che l’America potrebbe essere, come è scritto nella Dichiarazione d’Indipendenza, nella Costituzione, nella Carta dei Diritti. Una visione illuminata dalla storia del nostro paese, alcune volte ispiratrice, altre dolorosa. Un soldato totalmente consapevole della realtà della guerra, ma che crede nel sogno americano e nel popolo americano, quel “Noi, il popolo” della Dichiarazione di Indipendenza, un uomo che non ha mai permesso di essere tentato a credere, neanche per un momento, che il fine giustifica i mezzi.
Ero poco interessato a presentare le mie opinioni personali in quel ciclo, volevo più che altro presentare delle domande che, speravo, gli americani si fossero già chiesti, nella veglia successiva all’11 settembre. Nella speranza che potessimo trovare, in quel terreno fumante e insanguinato, qualcosa in più che rabbia, shock, disperazione, orrore… e paura.
C’erano soltanto alcune considerazioni politiche che volevo fare, in quel ciclo. Quella che sembra aver avuto più interpretazioni sbagliate – e riconosco di avere delle responsabilità, in quanto scrittore – era molto semplice: Durante la guerra fredda e anche dopo, elementi del nostro governo spesso hanno preso delle decisioni strategiche basandosi sull’idea che qualsiasi nemico di un nemico dell’America fosse nostro amico. Gran parte di questi gruppi o individui si rivelarono essere dei mostri.
Non credo che questa sia un’opinione personale; credo che la lista di questi individui o gruppi sia disponibile, per chiunque voglia leggerla.
La mia personale conclusione: non possiamo creare altri mostri. Per nessuna ragione. Dobbiamo semplicemente smetterla. I mujahidin a cui ieri abbiamo insegnato a costruire bombe da usare contro i nostri nemici, oggi possono insegnare ai guerrieri della Jihad a costruire bombe da usare contro di noi. Comunque è interessante per me sapere che molti lettori che hanno interpretato “L’Avversario” nel modo in cui io speravo lo interpretassero, sono in maggior parte europei e canadesi… e americani appartenenti all’ambiente militare.

Quali motivi si celano dietro il tuo abbandono?
Semplice. Ho abbandonato Cap a metà del ciclo “Ice”, quello che seguì “L’Avversario”.
Dopo che il mio primo editor, Stuart Moore, lasciò Marvel Knights, ebbi un’impennata del numero delle riscritture che dovevo fare per ogni sceneggiatura. Il che era anche giusto. Non mi crea problemi riscrivere una sceneggiatura o apportare delle modifiche: fa parte del mio lavoro.
Mi era stato già chiesto di fare qualche cambiamento su cui non ero particolarmente d’accordo, prima che Stuart se ne andasse. In “L’Avversario”, avevo inizialmente pianificato che le Piastre LEC –le targhette Localizzazione Eventuale Cadavere che Cap rifiuta di indossare, quando viene portato a Centerville (Captain America vol.4 #1, su Capitan America L’Avversario 1 di 3, Panini Comics, ndA) – non dovessero avere molta importanza. Le avevo inserite soltanto per mostrare che Cap non aveva intenzione di fallire la sua missione di salvare tutti gli ostaggi.
Perchè se avesse fallito, sarebbe intervenuto un team della Delta Force, e probabilmente ci sarebbero state vittime tra i civili: qualcosa che Cap non aveva alcuna intenzione di accettare.
Più in la nella storia avevo pianificato di mettere a confronto Cap – il supersoldato che non uccide – con quella che credevo fosse una delle scelte più importanti e realistiche della sua vita. Semplicemente: Cap ha pochi secondi per mettere k.o. Al Tariq, o Al Tariq riuscirà ad azionare il detonatore che indossa, e gli innocenti che Cap era andato a salvare moriranno tutti (Captain America vol 4 #3, su Capitan America L’Avversario 2 di 3, ndA).
Ho pensato: Cap non ha altra scelta che quella della guerra: la scelta del soldato. Lo strazierà farlo, ma deve colpire Al Tariq più forte che può. La Marvel non era d’accordo con l’idea che Cap uccidesse, neanche in queste circostanze. Mi è stato detto che era normale per i nuovi scrittori di personaggi così iconici dire “hey, voglio personalizzare il personaggio –facciamogli uccidere qualcuno”. Era una mossa troppo facile. E non doveva accadere. Al Tariq poteva morire. Cap poteva anche pensare per un po’ che l’avesse ucciso lui. Ma alla fine, il sangue doveva essere lavato dalle mani di Cap. Doveva uscirne fuori che Cap non aveva ucciso quell’uomo.
Ho deciso di usare le piastre LEC per risolvere questo punto. E la sottotrama ha finito per avvolgere la storia principale. Il nucleo emozionale dello story-arc fu terribilmente diluito. Per gran parte perso. La trama originale stravolta. Di nuovo, mi prendo le mie responsabilità come scrittore. Ma quella storia non finisce in una caverna tra le montagne Afgane. Mentre doveva. O almeno, io speravo cosi.
Questa prefazione solo per dare un’idea dei retroscena che si celano nel mondo del fumetto. Oh, non è sempre così, ma a volte capita.
Ice all’inizio era prevista come prima storia di Cap sotto l’etichetta Marvel Knights. I primi numeri erano stati scritti quando Stuart Moore era ancora in carica come editor dell’albo. Ma dopo l’11 settembre abbiamo deciso di spostare l’arco di sei numeri. Così, dietro le quinte, il mio nuovo editor, Joe Quesada, arrivò nel bel mezzo della saga “Ice”. Ho sempre capito molto chiaramente quello che Stuart Moore si aspettava da me su Capitan America. Ma non ho mai afferrato il punto di vista di Joe. Stavamo dicendo del fatto di cambiare le carte in tavola. Beh, con le storie e ancora più difficile che con le carte. Si può fare, ma non è affatto facile. E, dopo “L’Avversario”, ho imparato che è molto pericoloso provare a cambiare il soggetto di una storia a metà della storia stessa.
Ho fatto un gran numero di scritture per ogni numero della storyline, cercando di portare la storia all’interno dei binari del punto di vista di Joe. Rispetto Joe – sia come editor che come artista. Joe conosce i fumetti. Ha fatto delle cose stupefacenti. Ma c’era qualcosa che stava cercando di dirmi, e che non riuscivo ad afferrare. Scrissi un’ulteriore revisione e gliela spedii, completamente convinto che questa volta avrebbe funzionato. Che Joe sarebbe stato contento della sceneggiatura. Mi sbagliavo. Credo che gran parte del problema sia dovuta alla scarsa comunicazione tra noi due. Joe era sempre occupato, e la maggior parte delle annotazioni mi erano trasmesse attraverso il suo assistant editor.
A ogni modo: a metà di “Ice” – e varie riscritture del primo numero che non ha il mio nome sopra – Joe mi mandò un soggetto. Io l’ho interpretato come un esempio del percorso e del pathos che lui avrebbe voluto sull’albo, l’ho studiato e ho riscritto di nuovo il numero, e ho mandato la sceneggiatura. Non ho seguito alla lettera il soggetto di Joe, comunque. In primo luogo perchè saltava (o comunque non dava il giusto risalto) quello che io credevo fosse il cuore della storia.
Il nucleo del problema era questo: quando mandai l’ennesima sceneggiatura, fui informato che il soggetto di Joe NON era un esempio. Dovevo semplicemente far finta di averlo scritto io. Mi è stato detto chiaramente che la dovevo smettere di cazzeggiare e dare a Joe quel che voleva. E che se non volevo farlo, bastava che lo dicessi alla Marvel, in modo che potessero assegnare Cap a uno scrittore che volesse farlo.
Sarei stato felice di riscrivere la sceneggiatura per l’ennesima volta. Ma non potevo fare il ghostwriter. Per me, chiedere a uno scrittore di fare il ghostwriter è come chiedere a un boxer di andare giù alla quinta ripresa. Così lasciai l’albo, augurandogli i migliori successi. E Chuck Austen fu scelto al mio posto. Nei numeri di “Ice” e di “The Extremists” accreditati a entrambi, l’artwork è basato sulle mie sceneggiature. Ma le didascalie e i dialoghi sono stati completamente riscritti da Chuck. Non è rimasta una sola parola delle mie didascalie e dei miei dialoghi.
Ho imparato molto da questa esperienza.

Parlaci più in concreto delle accuse di “comunismo” che ti sono state accreditate. Secondo te da cosa derivano?
E’ stato un pò frustrante per me. A me pare che Cap sia dedito alla protezione dell’America e del sogno americano in modo assoluto e incontrovertibile. Quindi posso soltanto fare delle ipotesi.
Una è che Cap è stato ritratto come qualcuno che vede la Storia americana come la sfida di realizzare il sogno americano, di mantenerlo. Considero questa una visione nobile della nostra Storia, non una prospettiva disfattistica o sovversiva. Senza la fede umana e la sfida, il sogno esiste soltanto come sogno. Il sogno non può realizzarsi. Un esempio: la nazione è fondata sull’ideale che tutti gli uomini sono creati uguali. Eppure sono passati più di cento anni (e una guerra civile) prima che la schiavitù fosse abolita. E altri cento anni (e un’altra lotta) prima di poter stare insieme sullo stesso bus. E la lotta per realizzare il sogno americano all’interno della realtò americana… beh, non è ancora ferito.
Per tornare alla questione: riconosco che la situazione emozionale del paese non era – e forse non è ancora – ben disposta verso i problemi in cui ho cacciato Cap. Eravamo feriti, arrabbiati, increduli. Nessuno voleva che gli si ricordasse che l’America ha recentemente dato milioni di dollari ai Talebani, per incoraggiarli a lasciar perdere le piantagioni d’oppio. Nessuno voleva che gli si ricordasse che molto probabilmente Osama Bin Laden ha allenato i terroristi con i resti delle armi che abbiamo spedito in Afghanistan durante l’occupazione sovietica del paese, quando credevamo fosse nell’interesse della nostra nazione allenare e armare i mujahidin afghani. Credo che molti lettori abbiano interpretato l’allusione a questi fatti come qualcosa di anti-americano, in questi tempi. Non è difficile da capire. Spesso, la gente fa riferimento a queste parti della storia per accusare, screditare, mortificare. Ma la mia intenzione era diversa. Ho visto che l’11 settembre fu orribile, un’atrocità, un crimine contro l’umanità. Ma ho anche visto un’opportunità per comprendere il nostro passato, e non ripetere gli errori.
Adesso gli americani dovrebbero essere nelle condizioni di comprendere il Kosovo, come mai avrebbero potuto prima. Dovremmo essere in grado di comprendere l’Irlanda del nord. Il medio oriente. L’Africa. Qualsiasi posto in cui muoiono degli innocenti. Viviamo tutti nello stesso mondo, adesso.

Qual’è la tua opinione sulla libertà di parola, negli Stati Uniti post-11 settembre?
Se si vuol veramente toccare il polso alla situazione, basta vedere cosa ne è stato del Patriot Act, e del Patriot 2 Act. Basta vedere come alcuni dei poteri che nell’emergenza il governo si era assegnato temporaneamente, siano divenuti permanenti. E, cosa più importante, basta vedere cosa i fautori del Patriot Act stanno facendo con questi poteri. Credo che gli americani siano tentati a donare le loro libertà garantite dalla Costituzione – la libertà di espressione, la libertà di sapere quel che sta succedendo, il diritto a un giusto processo – in cambio di una maggior sicurezza. Questo mi inqueta, ma non mi terrorizza. E’ già accaduto in passato e accadrà in futuro – sia qui che in altri paesi. I padri della Dichiarazione di Indipendenza, della Costituzione Americana e della Carta dei Diritti erano pienamente coscienti che qualunque democrazia si sarebbe confrontata con questa sfida, più volte nel corso della Storia. La nostra amministazione sembra essere insofferente a ogni forma di dissenso, e intollerante verso la maggior parte di esse. Forse fino al punto di considerare un tradimento alla nazione qualsiasi conflitto di idee che dovrebbe essere invece la pietra angolare di ogni governo democratico.
Una figura chiave dell’amministrazione – e no, non sto parlando del presidente Bush – sembra essere particolarmente oltraggiato ogni volta che non accettiamo le sue asserzioni e le sue idee come se uscissero direttamente dalla bocca della Statua della Libertà. Molte figure pubbliche – dai legislatori alle celebrità – sembrano essere terrificate di essere additate come “anti-americane”, in questo momento. E quest’accusa viene spesso lanciata con troppa indifferenza. E comunque tutti quelli che non hanno paura di essere ricoperti di catrame e di piume, sembrano comunque difettare di altre qualità.
Devo ancora sentire una celebrità dire “Io non sono d’accordo con ______” e poi fare un discorso concreto, per esempio. E il comportamento di molti dei protestanti contro la guerra sembra allo stesso modo improduttivo e male organizzato. Onestamente, credo che la gente abbia perso di vista molti dei problemi di cui dovremmo realmente occuparci. Mi da fastidio che il nostro presidente pronunci il nome di Osama Bin Laden così di rado. Non sembra strano ad altra gente, oltre me? Comunque, mi sono allontanato troppo dall’argomento. C’è troppa retorica in giro, per adesso. Libertà dalla retorica: questa è la libertà di parola che spero di vedere presto.
La verità non ha bisogno di retorica.
Un’annotazione più personale – che non riguarda esattamente la libertà di parola, ma ci va vicino – posso dire che alcuni editori non vogliono in alcun modo che la parola “terrorismo” appaia in storie dei loro personaggi.

INTERVISTA A JOHN CASSADAY

Abbiamo raggiunto John Cassaday, raffinato illustratore de L’Avversario e copertinista della serie di Cap, per chiedere anche a lui un parere sulla situazione fumettistica post-11 settembre e sul nuovo corso intrapreso da Capitan America.

Negli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, c’è stato un cambiamento di sensibilità, che ha avuto un influsso anche nel mondo del fumetto. Due facce della stessa medaglia: da un lato, una sempre maggior attenzione verso i nuovi problemi sollevati dall’atto terroristico; dall’altro pubblicazioni come Authority sono state cancellate, a causa dei contenuti ritenuti improponibili. Cosa pensi di questa situazione controversa?
Credo che sia stata una necessità naturale. I creativi lasciano che le loro emozioni li guidino in modo da renderli artisti migliori. Per quel che riguarda Authority, credo sia stata una buona decisione sospenderla. C’erano così tante esplosioni nella vita reale, senza che i supereroi ne creassero di nuove. Il livello di distruzione in quell’albo era arrivato a toccare vette assurde. Era la peculiarità dell’albo. Ma immediatamente dopo l’11 settembre, quella peculiarità non era più divertente.

Un altro famoso ex-disegnatore di Capitan America, Jim Steranko, ha scritto parole dure riguardo questo tipo di fumetti, giudicati immorali e sovversivi. Che ne pensi?
Ho molto rispetto per Steranko, ma penso che la parola “terroristi” (così, nel suo comunicato, Steranko appellava gli autori di Pro, ndA) dovrebbe essere usata soltanto per… beh, per i FOTTUTI TERRORISTI, e non per degli autori di fumetti. E non vedo neanche connessione tra la “morte e distruzione” di cui parla Steranko e l’albo di Pro di Ennis, Palmiotti e Conner. Pro era uno scherzo, e come tale doveva esser preso. E i lettori di fumetti di oggi sono abbastanza maturi per cogliere lo scherzo. Jim Steranko non ha letto neanche il fumetto, prima di condannarlo col suo comunicato.

Il Capitan America tuo e di J. N. Rieber è uno dei fumetti maggiormente influenzati dall’11 settembre. Come è stato lavorare a ridosso della tragedia? Tu, sebbene sia texano, vivi a New York, giusto?
Si, vivo a New York e ho visto le torri, quel giorno. Le ho viste con i miei occhi. Era praticamente impossibile lavorare, dopo l’11 settembre. Capitan America è stato molto terapeutico, per me. Cap è il mio personaggio preferito, e avere l’occasione di rilanciarlo in modo così importante e in modo che l’albo SIGNIFICHI qualcosa, sarà sempre uno dei momenti più alti della mia carriera.

La tua interpretazione di Capitan America è molto più… realistica, quasi soldatesca, rispetto alle incarnazioni precedenti. La maschera sembra un elmetto, il costume un’armatura. Come mai?
Cap è speciale. Non fa l’eroe per divertirsi, o a causa di un incidente di laboratorio. E’ il suo mestiere. E’ un soldato. Non credo in un Capitan America che combatte supercriminali a rotazione mensile sulla sua serie. Molte storie passate di Cap non sono legate al personaggio. Potresti cambiare il protagonista con qualsiasi altro eroe, e giungere alla stessa conclusione. Capitan America dovrebbe significare qualcosa. Per me, significa qualcosa.

ALTRI PROGETTI

Anche la dirigenza Marvel si è accorta delle grandi potenzialità narrative del personaggio: Captain America: Red, White & Blue (in Italia, Capitan America: Rosso, Bianco e Blu, Paninicomics) è soltanto uno dei tanti speciali che hanno visto o vedranno la luce nel prossimo futuro, e contiene le personali interpretazioni del personaggio di molti fumettisti mainstream e indipendenti (tanto per citare i soliti: Frank Quitely, Peter Kuper, Jim Steranko). In patria, la serie regolare sta per essere ulteriormente rilanciata con un nuovo team creativo, formato da Rob Morales (che ha già trattato la figura di Cap nella miniserie, ancora inedita in italia, Truth) e Chris Bachalo.

Per quel che riguarda altri progetti legati in qualche modo all’11 settembre, è doveroso citare in campo Marvel New X-Men 132 (in Italia su Gli Incredibili X-Men 158, Panini Comics) , di Grant Morrison e Phil Jimenez. Sebbene ambientato nella fittizia isola di Genosha (vittima di un attacco terroristico anti-mutante), il paralello con Ground Zero è spontaneo: le rovine, le riflessioni sconcertate dei protagonisti, la disperazione dei superstiti. Tutto sembra suggerire un altro tassello nella sterminata pletora di riferimenti fumettistici all’avvenimento.

Prende le mosse dalla nuova situazione internazionale anche Stormwatch: Team Achilles (pubblicato in Italia da Magic Press), nuova serie Wildstorm a firma di Micah Ian Wright e Whilce Portacio. Presentata come “la versione reazionaria di Authority”, anche a causa del passato da paracadutista dell’esercito USA dello scrittore1, in realtà la serie si è presentata molto aperta e liberal (facendo piovere delle critiche in tal senso). Wright attinge dalla sua esperienza nello U.S. Army, per dare un tocco militarista e a la Clancy al suo team, specializzato nello scovare (e neutralizzare) superumani pericolosi. Come i componenti di Authority, ritenuti terroristi internazionali, o come i superterroristi islamici, nemesi del gruppo in uno dei primi numeri. Una risposta di regime all’ideologia sovversiva del team precedente? Eppure i critici d’oltreoceano non la pensano così, tacciando Team Achilles di essere troppo politica e liberale. Wright si è dovuto difendere:

“Il capo della squadra è forse la persona più di destra che ci sia. Possiede un senso della giustizia sociale molto forte… ma liberale? Uccide la gente. Guida una squadra militare che assassina le persone. Non è certo un liberale di sinistra”.

La serie si è appena arricchita di storia molto ambiziosa: Citizen Soldier.

“È la mia risposta alla nuova serie di Capitan America della Marvel” dice Wright.

Come sempre, più ci si inoltra in territori underground e lontani dall’immediata popolarità del fumetto mainstream, e più vengono a galla voci scomode e in controtendenza. E’ il caso di To Afghanistan and Back, libro-reportage sulla guerra in Afghanistan del Cartoonist Ted Rall, corrispondente di guerra per il The Village Voice e KFI Radio. Dalle prime pagine del volume, lo stesso Rall dice:

Stiamo per andare in guerra contro l’Afghanistan. Bell’affare. Siamo stati in guerra a fianco dell’Afghanistan per anni.

To Afghanistan and Back

Il libro non ha certo mancato di scatenare polemiche, legate alle opinioni molto negative di Rall nei confronti dell’intero estabilishment statunitense. In un articolo pubblicato sull’eminente The Comics Journal (nel numero 247, completamente dedicato al post-11 settembre), il giornalista Joe Giuffo non manca di far notare come qualche volta Rall esalti e distorca i fatti a favore della propria cieca ideologia, tesa a smontare a tutti i costi la condotta della Casa Bianca. L’articolo, molto interessante, non si limita a un attacco sui generis al lavoro di Rall, ma conduce un’analisi critica s

Por­traits of Israe­lis and Pale­sti­nians for my parents

u recenti strisce fumettistiche dell’autore e sui suoi interventi come commentatore e inviato di guerra.

Molto critica anche la visione della guerra di Ryan Inzana, già autore di WW3 Illustrated e Random Propaganda (una serie di vignette politiche on-line in forte opposizione col governo USA). Inzana si ispira a un fatto realmente accaduto (la cattura di John Walker Lindh, l’americano che combatteva al fianco dei Talebani in Afghanistan) per il suo Johnny Jihad, racconto a tinte fosche di un cosciente tradimento della nazione, da parte di un individuo cresciuto nell’odio e nella disperazione.

Legata in qualche modo alla nuova situazione di crisi mediorientale (per certi versi diretta discendente dei fatti dell’11 settembre) è anche l’ultima opera di Seth Tobocman: Portraits of Israelis and Palestinians for my parents, reportage (accomunabile ai lavori di Joe Sacco, anch’essi tornati alla ribalta negli ultimi tempi) sul viaggio di Tobocman intrapreso nel 2002, racconta i tentativi dell’autore (che è ebreo) di intavolare una discussione con vari personaggi del mondo ebraico e arabo, riguardo alla spinosa questione della creazione di uno stato palestinese.

(continua…)

Originariamente pubblicato sul sito prospettivaglobale.com nel 2003, per concessione dell’autore.
Dove possibile e necessario si è intervenuti per contestualizzare temporalmente i contenuti.


  1. in realtà successivamente l’autore ammise di essersi inventato questo particolare della sua biografia 

2 Commenti

1 Commento

  1. posta

    1 Marzo 2011 a 12:23

    Una disanima davvero appasionante e appasionata.
    Mi piacerebbe trovare abbastanza materiale a riguardo
    da scriverci una tesi!
    Augusto

  2. arch.mabe

    2 Marzo 2011 a 13:09

    Un ottima intervista, molto interessante. e poi (anche se c’entra poco) ho gradito che di ogni articolo possa scaricarne la versione in PDF. mi piace molto questa cosa ;-)

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